L’espressione stessa “processo di pace” è diventata ridicola.
di Neil MacDonald
CBS News, 4 gennaio 2017.
I sorrisi diplomatici che sono stati congelati sui volti per tanto tempo non stanno soltanto scivolando via. Sono stati strappati e messi da parte. Nel paese dell’ascesa di Trump, essi non servono più.
Quello che c’è sotto non dovrebbe sorprendere: il co-presidente della campagna di Trump a New York ha affermato che Michelle Obama dovrebbe tornarsene in Zimbabwe e vivere in una caverna con Maxie il Gorilla; Morton Klein, presidente dell’Organizzazione Sionista Americana, ha malignamente etichettato Barack Obama –l’uomo che ha firmato recentemente il più grande pacchetto di aiuti nella storia di Israele– come un antisemita che ha in odio gli ebrei, perché si è rifiutato di porre il veto su una risoluzione ONU che dichiarava illegali gli insediamenti israeliani, una posizione condivisa, tra l’altro, dalla maggior parte delle nazioni, compreso il Canada.
Ma altre maschere devono probabilmente essere rimosse. È l’ora di smettere, per esempio, di fingere che Israeliani e Palestinesi abbiano intrapreso un lento ma inevitabile cammino verso una soluzione a due stati. Il presidente eletto Donald Trump è pronto a farla finita con questa finzione.
Dice che intende spostare l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme. I presidenti precedenti avevano promesso di fare la stessa cosa, ma poi hanno preso decisioni contrarie, seguendo il parere degli esperti sulle possibili conseguenze. Ma Trump non è come i presidenti che lo hanno preceduto e, stando alle sue parole, ne sa più degli esperti di Medio Oriente. Trump sembra inoltre pronto ad abbracciare la causa della costruzione degli insediamenti israeliani, come pare indicare la scelta dell’ambasciatore in Israele. Questa sarà una ventata di aria nuova. Poiché con i soldi si può comprare una cosa oppure un’altra, gli USA probabilmente finanziano già la costruzione di insediamenti, e non ci sarà più bisogno di sommessi mormorii di protesta ogni volta che Israele annuncia qualche migliaio di nuove case su una collina della Cisgiordania. Non ci sarà più bisogno di dichiarazioni scritte con cura, per dire che gli insediamenti “non aiutano” il processo di pace.
Quale processo di pace?
L’espressione stessa “processo di pace” è diventata ridicola: parole ambigue che offrono ai politici un rifugio dalla dura verità e ai giornalisti scadenti un ritornello da ripetere a memoria. C’è persino da chiedersi se un tal processo sia mai esistito.
Quando era Primo Ministro israeliano, Ytzhak Shamir una volta spiegò senza giri di parole i motivi per cui era andato a Madrid per partecipare alla conferenza che partorì il processo di pace. “In questo modo avrei potuto svolgere trattative di pace per dieci anni,” disse poco prima del termine del suo mandato, “e nel frattempo avremmo raggiunto il mezzo milione di israeliani in Giudea e Samaria.” (Giudea e Samaria sono l’odierna Cisgiordania. A quel tempo, i coloni israeliani della Cisgiordania erano circa 90.000, ora sono intorno ai 400.000).
Faccio ora un inciso per prendere atto dell’intransigenza palestinese. Ho vissuto e lavorato a Gerusalemme per cinque anni e ho incontrato tutte le personalità più importanti a quel tempo. Sono quindi ben consapevole sia della capacità di Fatah di mentire, sia dell’irrealistica agenda di Hamas che sfiora il ridicolo. È vero, in passato i Palestinesi hanno scelto la violenza piuttosto che il negoziato, ma loro non hanno alcun potere, e così sono stati schiacciati. Israele, d’altro canto, non solo è capace di mentire e fare il doppio gioco, ma ha tutto il potere dalla sua parte. Uno stato palestinese potrà esistere solo alle condizioni di Israele, e chiunque fosse curioso di conoscere quali siano le condizioni israeliane, dovrebbe leggere le parole di alcuni tra i politici e gli esponenti più autorevoli dell’attuale coalizione di destra: Naftali Bennett, leader del partito Casa Ebraica, il Ministro della Giustizia Ayelet Shaked, l’ambasciatore israeliano all’ONU Danny Danon e, naturalmente, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, che hanno tutti eliminato qualsiasi idea di uno stato palestinese.
Di fatto, con Trump che sta per iniziare il suo mandato, alcuni di loro stanno parlando della completa annessione di gran parte della Cisgiordania, una cosa che l’estrema destra israeliana ha avuto in mente sin dal tempo in cui il Rabbino Moshe Levinger e i suoi seguaci, dopo la guerra del 1967, si trasferirono nell’hotel Al-Nahr Al-Khaled di Hebron e si rifiutarono di andarsene, fondando il movimento dei coloni.
Continuare allo stesso modo
Forse ora si può smettere di fingere e passare semplicemente all’azione. Avendo colonizzato la Cisgiordania, Israele può attuare qualsiasi programma per il proletariato palestinese sottomesso all’esercito israeliano. Perché la vera domanda è cosa fare con il proletariato.
Al momento 1,4 milioni di Palestinesi, su di un totale di 8, sono cittadini israeliani. Ci sono almeno altri 2,4 milioni di Palestinesi in Cisgiordania. Annetti la Cisgiordania e in tal modo annetti anche gran parte di essi. E poi cosa fare? Offrire loro la cittadinanza israeliana? Non si dimentichi che i Palestinesi hanno un tasso di natalità assai più alto rispetto agli Israeliani. A un certo punto, forse già nel 2020, la popolazione palestinese in Israele, Gaza e Cisgiordania supererà quella di etnia ebraica.
E allora cosa farà Israele? Li trasferirà forzatamente in angusti bantustan? È difficile. Più probabilmente, ci saranno tre livelli di cittadinanza: completa cittadinanza ebraica (anche per molti immigrati dall’estero), arabi indigeni con passaporto israeliano, e milioni di residenti arabi indigeni senza alcun diritto effettivo.
C’è un termine per questo tipo di sistema politico ed è orribile.
Il segretario di stato americano John Kerry ne ha fatto cenno quando ha detto che, se prosegue lo status quo, Israele sarà o uno stato ebraico o uno stato democratico, ma non entrambe le cose. Non era un’idea originale: i precedenti primi ministri israeliani Ehud Barak, Shimon Peres e Ehud Olmert hanno detto tutti più o meno la stessa cosa. Olmert e Barak hanno entrambi invocato l’apartheid del Sudafrica.
Intellettuali israeliani, tra i quali David Grossmann, Avi Shlaim e Yaron Ezrahi dell’Istituto Israeliano per la Democrazia, considerano questa una questione vitale per la democrazia in Israele.
Ma ai più accesi sostenitori di Israele negli USA e in Canada andrà sicuramente bene qualsiasi percorso dovesse intraprendere lo stato ebraico. Potrebbero dover modificare la loro retorica e cominciare a chiamare Israele “l’unica democrazia ateniese” nel Medio Oriente o qualcosa del genere.
O, in un mondo post-Trump, far ricorso alle offese, come l’insulto “antisemita odiatore degli ebrei”.
Cosa questa sempre molto più facile.
Neil Macdonald
Neil Macdonald è un editorialista di CBC News, Ottawa. In precedenza è stato per 12 anni corrispondente da Washington della CBC e ancora prima ha lavorato per 5 anni come inviato in Medio Oriente. Ha lavorato anche per la carta stampata e parla inglese, francese e anche un po’ di arabo.
http://www.cbc.ca/news/opinion/pretend-two-state-solution-1.3919996
Traduzione di Gennaro Corcella