Le interviste dei militari israeliani ai Palestinesi che hanno compiuto attacchi sono state condotte all’interno di un rapporto di forza ineguale, che è contro l’etica e di dubbio valore.
Di Amira Hass
Haaretz, 26 gennaio 2016
Le guardie carcerarie hanno ricevuto ordine di condurre una ricerca applicata, scientificamente mirata, sui loro prigionieri. Questo è stato uno degli interessanti reportage di stampa della scorsa settimana. L’abbiamo letto per la prima volta nell’articolo di Amos Harel su Haaretz il 15 gennaio: “Alti ufficiali dell’esercito hanno incontrato terroristi palestinesi in carcere per capire le loro motivazioni.”, dopodiché altri giornalisti ne hanno scritto.
Comandanti dell’esercito israeliano ed ufficiali dell’ intelligence ed anche dirigenti dell’ufficio del Coordinatore delle Attività del Governo nei Territori occupati, hanno incontrato in carcere dei Palestinesi che avevano condotto attacchi solitari ed erano sopravvissuti (secondo il portavoce dell’esercito in Cisgiordania, 88 di questi individui sono stati uccisi e 40 arrestati nel corso dell’attuale ondata di violenza. L’ufficio del portavoce della polizia ha detto di non disporre di dati analoghi riguardo all’esito degli attacchi condotti in Israele e Gerusalemme Est).
Le relazioni mostrano una sorprendente disponibilità da parte degli intervistatori a rinunciare alle precedenti supposizioni. (Per esempio, hanno rilevato che né la religione né la propaganda sui social network hanno motivato i ragazzi, benché le trasmissioni di Hamas e della Jihad islamica abbiano certamente avuto un’influenza su di loro.)
Una trasmissione della radio dell’esercito ha riportato, tra le altre, queste conclusioni: i ragazzi avvertono un profondo senso di alienazione rispetto alle figure che rappresentano l’autorità. Il presidente palestinese Mahmoud Abbas non veniva citato nelle conversazioni. Non sono affiliati ad alcuna organizzazione, ma condividono un sentimento di unità nazionale. Sono distanti dai loro genitori, ed hanno storie di violenza all’interno della famiglia. Provengono da famiglie regolari e non sono giovani emarginati. La loro ideologia è minimale, fatta di slogan e superficiale. La maggioranza di loro non sa nemmeno che cosa sia Israele. Il loro unico contatto con gli Israeliani è con i soldati ai checkpoint.
Questo profilo dei giovani palestinesi non è sbagliato. Certo non c’è bisogno di andare fino in carcere per delinearlo. Però, secondo i rapporti dei media, manca qualche elemento fondamentale nell’analisi degli ufficiali.
Le relazioni non ci dicono quanti detenuti si sono incontrati con gli investigatori, quanti di loro sono stati feriti durante l’arresto, dove si sono svolti gli incontri – nelle celle o negli uffici dell’amministrazione. E, se sono avvenuti negli uffici, i detenuti vi sono stati portati con le catene ai piedi? Le relazioni non dicono se ci sono stati detenuti che hanno rifiutato di parlare, ed eventualmente quanti. Né che cosa è successo nel caso rifiutassero, se gli investigatori indossavano uniformi e se si sono identificati con i loro nomi e cognomi, o se i prigionieri indossavano le uniformi del Servizio carcerario israeliano.
Questi particolari ci ricordano che la ricerca è stata condotta in una duplice cornice di rapporti di forza ineguali – all’interno del carcere e all’interno delle regole imposte da Israele.
Una ricerca impostata con rapporti di forza ineguali è contro l’etica, anche se porta a conclusioni che non sono scorrette. I prigionieri politici palestinesi sono sempre stati un attraente obbiettivo per ricercatori e psicologi ufficiali inseriti nei servizi di sicurezza e per ex-dipendenti del Mossad [servizio di intelligence israeliano, ndt.] che sono facilmente entrati negli istituti di ricerca sulla sicurezza dell’università.
Un esperto legale palestinese ritiene che i detenuti considerassero i colloqui con gli ufficiali del COGAT (Coordinamento delle Attività Governative nei Territori, ndt.) e dell’esercito come una prosecuzione degli interrogatori dello Shin Bet (Servizi di sicurezza interna, ndt.) e della polizia e non è mai accaduto che potessero rifiutarsi. Ma la verità è che anche prigionieri con un alto livello di politicizzazione hanno accettato nel passato di essere interpellati da ricercatori e giornalisti israeliani.
Un ossimoro
La combinazione dei termini “etico” e “Israele” in ogni caso suona come un ossimoro per loro, per cui pensavano che gli intervistatori non avrebbero capito il loro rifiuto ad essere intervistati. Può darsi che volessero spezzare la routine del carcere, può darsi che fossero contenti di essere ascoltati, oppure può darsi che fosse stato promesso loro un trattamento clemente. Forse speravano che questa volta sarebbero riusciti a convincere un ricercatore istituzionale che il problema è lui stesso ed il regime che rappresenta.
Dagli articoli di stampa relativi ai risultati della ricerca, emerge che i guardiani-intervistatori ignoravano il fatto che tutti i Palestinesi sono rinchiusi in vari tipi diversi di carcere – Ofer e Nafha, l’enorme campo di concentramento che è la Striscia di Gaza, le enclave della Cisgiordania, i quartieri volutamente abbandonati di Gerusalemme, i villaggi non riconosciuti [dalle autorità israeliane, in genere villaggi beduini del Negev e della Galilea, ndt.]. Ciò che è certo è che i ricercatori non riconoscono di essere loro stessi carcerieri.
E secondo gli articoli della stampa, i ricercatori hanno ignorato la ragione di tutte le ragioni. Sì, l’occupazione. I padri schiaffeggiano i figli in tutte le società, ma il ragazzo che vive nell’affollata e soffocata Isawiyah [villaggio nei pressi di Gerusalemme est, ndt] e passa attraverso la verde e spaziosa Collina Francese [colonia israeliana a Gerusalemme est,ndt] riceve quotidianamente uno schiaffo in faccia dalle autorità israeliane, che gli dicono che lui è un essere inferiore.
È vero, la famiglia sta cadendo a pezzi come fonte di autorità. Cosa che non stupisce, dato che Israele ruba le terre, l’acqua e le case delle famiglie palestinesi, pone limitazioni ai movimenti, per cui i padri perdono il lavoro, picchia ed arresta gli adulti di fronte ai loro figli. La superficialità ideologica è comune di questi tempi. Ma la risolutezza di fronte all’oppressione, all’esilio e all’umiliazione rafforza le capacità di osservazione e conoscenza di ogni Palestinese. Le loro parole non sono raffinate ed i loro pensieri sono in forma di slogan, ma c’è profondità e c’è speranza nel profondo della disperazione. Chiunque si sia imbarcato in questa ricerca applicata, sapendo in anticipo che l’essenziale non può essere detto, è un prigioniero e non solo un carceriere.
Gli israeliani, nelle istituzioni ufficiali e informali, sono ossessionati dal raccogliere informazioni sui Palestinesi. È voyeurismo burocratico, il cui scopo è rafforzare e perpetuare il dominio sui Palestinesi. Gli intervistatori che si rallegrano delle vaste conoscenze che hanno accumulato sui Palestinesi sono prigionieri dei loro salari, delle loro carriere e delle loro posizioni; di “ciò che dirà la famiglia” e delle loro graziose ville in campagna; o sono preda dell’ideologia della superiorità ebraica e della mitologia securitaria – o di tutte queste cose insieme. C’è bisogno di una ricerca applicata psicologica e sociologica su di loro, per spiegare perché la palla di neve insanguinata continui a rotolare.
Traduzione di Cristiana Cavagna