Palestina. “Invece di un’arma abbiamo in mano un’idea”

Sette anni dopo la sua creazione, e a due dall’uccisione di Juliano Mer Khamis, la compagnia del Teatro della Libertà arriva in Italia per portare il suo messaggio, e mantenere la promessa di “raccontare storie”. Osservatorio Iraq l’ha incontrata in una sera d’estate. 

  26 Luglio 2013

Articolo di: Cecilia Dalla Negra pubblicato su Osservatorio Iraq
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 Il 4 aprile del 2011 cinque colpi di pistola rompono il silenzio del campo profughi di Jenin, estremo nord della Cisgiordania occupata.

Partono dall’arma impugnata da un uomo a volto coperto, rivolta contro un altro uomo che sta uscendo dalla sua macchina, e che muore all’istante.

Finisce così la vita di Juliano Mer-Khamis, artista poliedrico, regista e fondatore del “Teatro della Libertà”. Ma non la sua storia, che oggi cammina sulle gambe dei ragazzi rimasti nel campo, e parla con la voce di Nabil al-Raee, subentrato con coraggio alla direzione artistica quando tutto sembrava perduto, decidendo di portare avanti il lavoro “perché avevamo cominciato una rivoluzione, insieme. Bisognava continuare”.

Il volto intenso, lo sguardo profondo, Nabil è stato arrestato più volte nel corso della sua vita. Ha dovuto guardare un amico e un maestro morire, ucciso da una mano che ancora oggi resta ignota. Ha affrontato il silenzio disceso sul campo, e l’ha spezzato, superando paure e timori.

E ha scelto, ancora una volta, di non lasciare soli gli eredi dei “bambini di Arna” che Juliano aveva raccontato in un documentario.

Quando nel 2002, nel cuore della seconda Intifada, per girare “Arna’s Children” era tornato a Jenin, e insieme alle origini del lavoro di sua madre, per scoprire quale fosse stato il destino di bambini che nello “Stone Theatre” – progetto educativo alternativo, nato per insegnare ai più piccoli il valore del dialogo e dell’espressione artistica come veicolo per la rabbia – avevano trovato, per un istante, un’alternativa alla militarizzazione della loro vita, all’occupazione dell’infanzia, e al ricatto della vendetta.

Privati dell’innocenza in uno fra i contesti più duri della Palestina occupata, uccisi nel corso degli scontri armati con le forze di occupazione o shahid della seconda Intifada, fra loro era sopravvissuto Zakaria Zubeidi che, abbandonate le armi, con Juliano Mer Khamis nel 2006 aveva dato vita al  Freedom Theatre.

“La ricerca dell’identità può avvenire solo attraverso l’attività culturale”, sosteneva Juliano, che considerava l’esistenza stessa del suo teatro una forma di resistenza. Tra le macerie di un campo distrutto dalle operazioni militari israeliane, e quelle di un’esistenza collettiva spezzata, era divenuto per tanti punto di riferimento ed esempio. 

Fino a quel giorno di aprile, quando un agguato gli rubava la vita, e sembrava voler mettere fine a un esperimento scomodo, perché portato avanti con le armi della cultura. “Stiamo per dare inizio ad una nuova Intifada, fatta di poesia, teatro, arte e diritti umani”, diceva. Più pericolosa delle altre, dunque, perché tentava di scrivere una storia fatta di riappropriazione di un’identità negata.

Per la prima volta in Italia per partecipare al Festival “Cuore di Palestina” (organizzato a Bologna da Teatri di Vita e AssoPace), Nabil, Ahmed, Saber e gli altri ragazzi della compagnia del Freedom Theatre hanno fatto tappa a Roma, ospiti di una serata organizzata dalla comunità palestinese locale. Immagini, volti e parole, per raccontare una resistenza quotidiana fatta di arte, cultura e sipari da alzare.

Nei giardini dell’ambasciata palestinese sono arrivati in tanti, per ascoltare le parole di questi “combattenti per la libertà” che hanno scelto il teatro per linguaggio e il palcoscenico come casa, da cui provare a disegnare i confini di un futuro migliore. 

Ahmed ricorda il massacro del 2002, la sua casa distrutta. “Ero un bambino ferito, in cerca di vendetta”, racconta. “Poi, nel 2006, ho incontrato il Freedom Theatre. E ho capito che l’arte è sovversiva, perché può abbattere i confini. Nel teatro abbiamo trovato la nostra liberazione, e troveremo quella del nostro paese. Stare sul palco è come lanciare una bomba: invece di un’arma abbiamo in mano un’idea”.

Saber era solo un bambino quando quell’anno suo padre fu ucciso nel corso degli scontri con l’esercito israeliano. E crescendo si era smarrito. “Il teatro mi ha insegnato chi sono, da dove vengo, qual è la mia storia e cosa significa ‘cultura’. Ho capito che l’arte cambia le persone, e le persone, se vogliono, possono cambiare il mondo”. 

Sono ragazzi cresciuti in fretta, in un contesto che ha cercato di togliere loro la speranza.

Se gli domandi cosa significhi per loro ‘teatro’ risponderanno che “è molto più di uno spettacolo, perché dietro il sipario c’è la vita”.

C’è un lavoro psicologico paziente fatto di scuola, lezioni, disciplina, workshop che insegnano a riconoscere le emozioni negative e veicolarle, ad indagare i sentimenti ed esprimerli senza paura. A liberare se stessi e conoscersi, muovendosi in uno spazio “che insegna la vita, e cosa significa essere palestinesi”.

 Fa caldo in città, il Ramadan è cominciato da poco, si attende l’iftar per rompere il digiuno e insieme condividere un pasto. Mentre scorrono le immagini degli spettacoli teatrali, Nabil e i suoi ragazzi si siedono in cerchio, e sul sottofondo musicale delle danze tradizionali si fermano a parlare con Osservatorio Iraq.

“Ricordo la prima volta che incontrai Juliano”, inizia a raccontare Nabil.

“Mi strinse la mano e mi disse ‘benvenuto nella rivoluzione’. È quello che oggi continuo a dire ai bambini e ai ragazzi che seguono i nostri corsi. Cerco di spiegare loro che abbiamo a disposizione una terra pura, e che possiamo ‘piantare teatri’ da cui nascerà una realtà migliore”.

Quella che al Freedom Theatre cercano di cambiare ogni giorno, invertendo le dinamiche di una società che spesso si è chiusa su se stessa, “finendo per confondersi, e dover sempre scegliere tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Noi cerchiamo di dare un messaggio alternativo, che parla di confini da abbattere e liberazione individuale. Per uscire dagli schemi, prima di tutto. Viviamo la vita in un contesto di oppressione e occupazione, rinchiusi in un triangolo che ci porta da casa alla strada, dalla strada al lavoro. L’unica deviazione che abbia un senso è quella che si fa per seguire una passione, per diventare persone migliori, capaci di insegnare qualcosa agli altri”.

Spiega Nabil che la cosa più importante, per lui, “è trovare una direzione in mezzo al nulla: ogni giovane, in Palestina, rischia di essere perduto, perché non può scegliere liberamente cosa fare, e dunque chi essere. Il palco allora rappresenta uno spazio di liberazione. Il nostro è un teatro politico per una scelta precisa: siamo convinti, oggi come ieri, che l’arte sia parte della nostra resistenza. Ce lo insegnano Naji al-Ali, Ghassan Kanafani, Mahmoud Darwish”. 

Ha il sorriso negli occhi, Saber, che ammette di aver scoperto se stesso incontrando il Freedom Theatre. “Mi ha insegnato la vita”, racconta, mentre spiega che “la nostra generazione è concentrata a tentare di sopravvivere, di ritagliarsi uno spazio di normalità in un contesto che non lo è. Non sappiamo da che parte andare. Io adesso ho trovato la mia strada, e sono sicuro di parlare anche a nome di chi ha paura di farlo, quando salgo su un palco”.

Far nascere un teatro in un campo profughi, nella Palestina occupata, non è cosa semplice.

Fu Juliano, dopo sua madre, a dover fronteggiare le tante difficoltà di una comunità che non sempre accoglieva e comprendeva il suo esperimento rivoluzionario, pensato per convertire rabbia e violenza in arte, poesia e parole. Dure come la pietra, e molto più pericolose di qualsiasi arma.

Quando tutte le strutture dell’identità crollano o vengono distrutte – sosteneva – gli uomini tornano alle basi elementari della propria identità. Non c’è più politica, non ci sono strutture sociali, non c’è cultura e non c’è comunicazione. Solo regole e ordini, giusto e sbagliato. Un pericolo per la libertà”*.

Lo sanno bene i ragazzi, che spesso hanno fatto fatica a spiegare ai loro coetanei le ragioni di un impegno non sempre comprensibile.

“Anche per questo ci consideriamo combattenti, sul palco”, spiega Saber, e Ahmed sembra d’accordo.

“Essere un teatro politico significa che siamo noi i primi a parlare di ciò di cui solitamente la gente ha paura di parlare. Le persone nel campo hanno timore ad esprimere i propri sentimenti. La ragione è semplice: in 65 anni di vita da rifugiati in casa loro nessuno gli ha mai domandato ‘parlami di te, raccontami la tua storia’. Banalmente, non sanno farlo. Chi attraversa la vita del campo lo fa come se andasse allo zoo: con la nostra arte diciamo ‘basta’. Siamo esseri umani e dovete capire come e perché ci sono migliaia di persone che vivono costrette in 1 chilometro quadrato. Il teatro è diventato questo: la promessa che raccoglieremo queste storie, e le racconteremo non solo per noi, ma per tutta la comunità ovunque andremo”.

Eppure, lentamente e con perseveranza, le cose sono cambiate. “La nostra società è mutata in un modo impensabile fino a 7 anni fa, quando abbiamo iniziato l’avventura del Freedom Theatre. Oggi tutti lo conoscono e ne sono fieri. Siamo riusciti a far capire alle persone che non c’è niente di male in noi, ne’ in quello che facciamo”, spiega soddisfatto Nabil.

“I teatri indipendenti in Palestina sono come isole in mezzo al nulla: si può copiare l’esempio, crearne di nuovi. Unendo queste isole costruiremo qualcosa di immenso in modo normale, un giorno dopo l’altro. E noi artisti siamo come ponti: prendiamo sulle spalle le persone per attraversare la realtà e costruire cultura. Quindi, anche identità laddove è negata”. 

Le difficoltà, dopo l’assassinio di Juliano, sono state molte. I ragazzi del teatro, guidati da Nabil, hanno messo insieme le forze e i soldi, affittato un nuovo spazio, ricominciato dal principio. “Sapevamo che se amavamo davvero quell’uomo dovevamo portare avanti il suo lavoro e la sua battaglia. Per me – ricorda Nabil – è stato un pensiero immediato, nella mente e nel cuore. Non lo dimenticheremo mai, e non è possibile sostituirlo. Credo che fosse un vero combattente per la libertà, come tutte quelle persone che hanno lottato per far vivere un’ideale, e attraverso l’arte hanno combattuto”.

È realista, Nabil. E conosce fin troppo bene la realtà in cui vive. “Ho sempre paura, ma questo conta poco. Ho iniziato il mio cammino condividendo la stessa casa con Juliano. La sera, cucinavamo cibo e teatro. Una volta mi disse ‘se non ci sosterremo, cadremo uno dopo l’altro’. Ecco perché non ho avuto dubbi dopo la sua uccisione: avevamo cominciato insieme una rivoluzione, bisognava continuare”. 

Una rivoluzione che cammina ogni giorno, e viene rinnovata su ogni palco. Ogni volta che il teatro porta fuori – e dentro – la Palestina uno spettacolo artistico che rivendica un’identità negata, fatta di cultura, non di quelle che Nabil chiama “inutili etichette”.

Fatta di lezioni che insegnano a mettersi in contatto con un’interiorità repressa, che rischia di sparire tra bypass road e check point, annientata da un contesto di privazione e sopruso.

Un resistenza fatta di parole, che spaventa più delle armi. E che, nel solco tracciato da Arna Mer, prova a immaginare un’alternativa possibile alla negazione. Magari perché, come ricorda Ahmed, “vengo dal paese del mare. Ma io, il mare, non l’ho mai visto”.

O per gli occhi che ridono di Saber, quando dice “adesso basta. Non siamo stati tristi troppo a lungo, forse?”

 *Dall’intervista “L’arte come Re-Esistenza” di Battistelli, Lanni, Sebastiani (EMI 2009) 

(Foto © Matteo Nardone, che ringraziamo per la gentile concessione. I ragazzi del Freedom Theatre a Roma, accompagnati da Luisa Morgantini)

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