Palestina e Resistenza popolare: il ruolo degli internazionali

L’articolo di Linah Alsaafin ha scatenato la discussione sulla natura popolare e nonviolenta della resistenza palestinese e sulle sue conseguenze. Luisa Morgantini* si dice “contentissima che questo articolo sia stato scritto”, anche se non è d’accordo. Perché “solleva questioni importanti che meritano una risposta”.

di Cecilia Dalla Negra

L’articolo di Linah Alsaafin per Electronic Intifada ha suscitato diverse polemiche, ma ha sollevato anche questioni centrali sia per gli attivisti israeliani che per quelli internazionali che prendono parte da anni alla lotta palestinese. Uno in particolare riguarda il carattere ‘popolare’ e ‘nonviolento’ della resistenza dei Comitati Popolari, che Linah mette in discussione, come se in qualche modo la caratteristica nonviolenta fosse una forma di influenza esercitata dall’esterno. Qual è la tua opinione? 

 

Se da una parte credo che l’articolo di Linah sia estremamente importante, e mi fa davvero piacere che l’abbia scritto, dall’altra la trovo estremamente contraddittoria nella sua analisi: lei stessa sostiene che la lotta di liberazione palestinese sia sempre stata un insieme di forme violente e nonviolente, e in questo senso non credo proprio che si possa considerare la scelta nonviolenta come il risultato di un’influenza esterna.

È piuttosto una componente presente da sempre in Palestina, in modo più o meno consapevole a seconda del periodo storico. La novità assoluta nella formazione dei Comitati Popolari contro il Muro e l’Occupazione è questa consapevolezza profonda, cresciuta nel tempo, dell’usarla come strumento, ma anche come visione e valore.

Essere all’interno di un movimento di resistenza nonviolento non significa solo evitare l’utilizzo di armi, ma coltivare una cultura diversa, capire in profondità che la lotta armata porta solo distruzione e morte.

Questo naturalmente non vuol dire che tutti quelli che partecipano a queste lotte pensino che i palestinesi non abbiano anche il diritto alla resistenza armata secondo la legalità internazionale, anche se non confonderei quel diritto con l’uccisione di civili.

Ma ho l’impressione che la scelta nonviolenta sia emersa anche dalla consapevolezza della sconfitta netta di qualsiasi forma di lotta armata in passato. Non mi riferisco soltanto alla Seconda Intifada, ma anche all’esperienza dell’Esercito di liberazione della Palestina in Giordania, in Siria, in Libano e ovunque si sia affermata la resistenza armata palestinese.

La stessa Prima Intifada nasce dalla sconfitta di una lotta militare – quella della tragedia di Sabra e Chatila – e non è un caso che sia stata nonviolenta. A quell’epoca i palestinesi hanno capito la sconfitta e non hanno più atteso che i fedayyin dall’esterno li salvassero, ma hanno preso in mano il loro destino in un movimento popolare che permetteva la partecipazione diretta.

Rispetto a oggi c’era sicuramente una mobilitazione molto più vasta, dalle campagne e dalle città. Era una lotta di tutti e tutte.

In questo caso invece i Comitati Popolari si sono costituiti intorno ai villaggi interessati dalla costruzione del Muro, laddove questo porta via terra ai contadini che si organizzano e resistono. Non è certo la Prima Intifada.

I Comitati Popolari, per quanto siano un esempio di resistenza e lotta straordinario e si siano diffusi sul territorio, sono solo una parte della lotta. È fondamentale sottolinearlo.

 

 

Una delle questioni sollevate da Linah a questo proposito riguarda quella che lei chiama “l’apatia” nella quale è caduto il popolo palestinese, che non partecipa abbastanza delle lotte e che non viene efficacemente coinvolto dai Comitati. Da cosa dipende a tuo parere questa scarsa partecipazione popolare a una lotta che come ‘popolare’ si definisce?

 

Onestamente trovo miracoloso che ci siano ancora forme di resistenza rilevanti e importanti come quella dei Comitati Popolari in Palestina, per quanto la partecipazione della popolazione sia numericamente limitata. Così come miracolosa è anche la creatività che si sprigiona continuamente nelle iniziative culturali, dal Freedom Theatre, ai giovani musicisti, ai poeti.

Perché il prezzo pagato dai palestinesi in questi anni è enorme, in termini di vite, libertà, sofferenze, condizioni economiche. Non si può chiedere a un popolo di essere sempre eroico. I palestinesi scontano anche le forti illusioni del passato, l’aver creduto nella possibilità della pace mentre Israele continuava a rubare terra e occupare; pagano l’abbandono della Comunità Internazionale, la sua complicità con i crimini israeliani, l’impunità di Israele, una classe dirigente non sempre all’altezza della situazione … i fattori sono tantissimi.

Non credo che ci sia apatia  quanto piuttosto sfiducia, stanchezza, l’idea che non si riesca a farcela e la convinzione che Israele, nella sua potenza, sia riuscito a imporre la sua narrativa al mondo.

La gente è stanca, non ha voglia di soffrire ancora e probabilmente tanti – anche se non tutti – hanno paura di rischiare. Per queste ragioni è da considerare ancora più coraggiosa la resistenza dei Comitati, e il suo valore ancora più grande.

Una cosa su cui credo Linah abbia invece ragione è la scarsa attenzione a costruire maggiori relazioni con la popolazione palestinese, il lavoro di coinvolgimento delle “masse”, proprio perché sono pochi e dover essere sempre in azione è difficile.

Non credo spetti ai Comitati il lavoro sociale “alla Hamas”, come sostiene Linah, ma sicuramente è necessario lavorare per coinvolgere maggiormente le persone, soprattutto nei villaggi dove ci sono le lotte, nella consapevolezza che si tratta di una battaglia non sempre semplice.

Penso a Beit Ummar, dove ci sono le manifestazioni contro l’insediamento coloniale, ma dove non tutti gli abitanti sono contenti di questa resistenza perché in tanti lavorano nei cantieri della colonia. Sono componenti complesse e contraddizioni che è necessario tenere presente, guardando la gente nel realismo della sua carne, non attraverso il filtro dell’ideologia.

Ecco, mi sembra che queste contraddizioni a Linah sfuggano. Ripeto, sono contenta che abbia sollevato interrogativi importanti, ma vedo anche grande confusione, e proprio non riesco a capire come la nonviolenza possa in qualche modo danneggiare la causa palestinese. Non si tratta di far vedere agli internazionali o al mondo che i palestinesi sono buoni: è la conquista di aver compreso di essere diversi dal ‘nemico’.

Se subisci la violenza non necessariamente diventerai violento. È la scelta di una cultura che rifiuta la logica del ‘dente per dente’. Una smilitarizzazione anche della propria interiorità.

Inoltre, non possiamo considerare la nonviolenza un concetto occidentale: è vero che il mondo occidentale ne fa una bandiera di ipocrisia – rendendosi complice della violenza da una parte e pretendendo la nonviolenza dai palestinesi – ma è un pensiero che ha sempre attraversato il mondo e per noi nasce con Mandela, con Gandhi, con Martin Luther King. Che combattevano, ma contro il sistema coloniale proprio del mondo occidentale.

 

 

C’è però un punto che sembra difficile smentire nell’analisi proposta: quello della mancanza di una strategia di lungo periodo, di un obiettivo concreto che vada oltre la riappropriazione della terra sottratta dal Muro e dall’Occupazione. 

 

È vero, ma non si possono incolpare i Comitati popolari. È un’incapacità anche nostra quella di riflettere maggiormente e capire come muoversi, sul come non riusciamo a far cambiare politica ai nostri governi. Da soli i Comitati non possono distruggere la politica coloniale israeliana e, seppure con qualche piccola vittoria, non c’è dubbio che l’occupazione non finisce lì.

Non è un caso che alla Conferenza annuale del villaggio di Bil’in i Comitati invitino a partecipare partiti politici, l’Olp, organizzazioni sociali, gruppi della società civile, movimenti, israeliani e internazionali e la stessa ANP, per discutere di quali politiche portare avanti. Il tentativo è quello di dire ‘ noi siamo un pezzo della lotta di liberazione, ma da soli non possiamo farcela’.

Un problema che neanche Linah si pone, limitandosi al contesto dei Comitati popolari e dei fondi di Salam Fayyad. Sarò molto chiara su questo punto: ritengo che sia un preciso dovere dell’ANP quello di dare fondi in modo trasparente ai Comititati di lotta, per far fronte alle spese legali di centinaia di arresti, e farlo non con elargizioni saltuarie  o personali, ma con un piano governativo, perché l’Autorità non è il nemico: si può criticare naturalmente, ma senza dimenticare che anche lei subisce l’occupazione militare.

Non so se la resistenza nonviolenta avrà successo: di certo però è una strada che in molti vogliono percorrere perché sono stanchi della violenza anche al loro interno. Non è vero che le forme di lotta vanno bene tutte: non è così, e la storia lo ha dimostrato. E ci vuole davvero molto, molto coraggio ad affrontare da anni soldati e coloni armati in nome del proprio diritto alla vita e alla terra.

 

 

Eppure secondo Linah “non esiste nessuna lotta comune”, ne’ con gli israeliani che “dovrebbero lavorare sulla loro società” ne’ con gli internazionali, che sembrano voler imporre una qualche forma di simmetria. Quale deve essere a tuo parere il ruolo degli attivisti internazionali nella lotta di liberazione palestinese?

 

Io credo che per noi sia fondamentale cambiare le cose a livello internazionale, perché l’asimmetria delle forze è evidente ed è l’unica via per imporre a Israele il rispetto delle regole. È la ragione per cui ho scelto di non vivere in Palestina ma di andare e venire agendo sia qui che là.

Credo sia giusto sostenere che gli israeliani devono lavorare al loro interno, ma lo stesso vale per i palestinesi: anche loro devono conquistare una maggiore partecipazione alla resistenza.

Da internazionalista resto convinta che l’agenda non debba essere imposta da nessuno, ne’ dai palestinesi, ne’ dagli israeliani, ne’ tantomeno da noi. C’è bisogno piuttosto di costruire una partnership. Se agisco con i palestinesi voglio discutere insieme a loro di come agisco.

La lotta è comune: se combatto in Italia perché i palestinesi siano liberi non lo faccio ne’ per loro ne’ per solidarietà: ma perché credo che questo mondo debba essere basato sui valori comuni della libertà, della giustizia e della eguaglianza; lo faccio per la mia e per la nostra dignità.

Quando vado a manifestare a Bil’in o a Hebron non sono un foglio bianco: ci vado in base ai miei valori, alle mie idee, alla mia storia, porto non solo il mio corpo ma anche la mia testa.

È chiaro che sono i palestinesi a decidere e che l’egemonia, in senso gramsciano, resta loro: però voglio poter dire la mia. Credo che la strategia vincente sia quella di una discussione e di una base comune, una condivisione delle difficoltà e dei problemi, così come delle idee sul ‘che fare’ sia in Palestina che in Israele che nei nostri paesi.

Lo ripeto: ben venga questo articolo.. Come network internazionale all’ultima conferenza di Bil’in si è stabilito di incontrarci a Parigi, in settembre, proprio per ridefinire il nostro ruolo e discutere di strategie e visioni comuni ed alcuni dei temi sollevati da Lina erano già nel nostro ordine del giorno.

* Attivista di lunghissimo corso e figura istituzionale, in passato Vice Presidente del Parlamento Europeo.

www.osservatorioiraq.it

23 luglio 2012

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