Israele chiude le cave palestinesi e apre quelle dei coloni

Cisgiordania. L’Esercito di occupazione ha sigillato decine di cave nella zona di Beit Fajar causando la perdita di 3.500 posti di lavoro. Human Rights Watch: nella stessa zona autorizzate 11 cave ad imprese che operano nelle colonie ebraiche

Una cava a Beit Fajjar © Said Derya
Una cava a Beit Fajjar © Said Derya

 

Michele Giorgio da GERUSALEMME

Il Manifesto 23.04.2016

Lo sviluppo, anche dell’economia, delle colonie ebraiche e il sostegno, ad ogni livello, che esse ricevono dalle autorità militari e politiche di Israele sono tra i problemi centrali nella vita dei palestinesi sotto occupazione. Eppure l’Autorità Nazionale (Anp) di Abu Mazen, non appena la Francia ha annunciato un “summit” a fine maggio per tentare di rilanciare il negoziato israelo-palestinese, ha prontamente congelato la bozza di risoluzione che aveva presentato al Consiglio di Sicurezza dell’Onu di condanna della colonizzazione in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Un passo che ha lasciato senza parole gli abitanti di Beit Fajar, vicino Betlemme.

Nota come la “città della pietra”, Beit Fajar si è vista chiudere dall’Amministrazione Civile israeliana – che per conto dell’esercito gestisce gli affari civili nella “Zona C” (61% della Cisgiordania occupata) – dozzine di piccole cave che davano lavoro a 3500 palestinesi e redditi per 25 milioni di dollari. Il provvedimento – spiegato dall’Amministrazione Civile con “ragioni di sicurezza” e nel quadro della lotta alla “illegalità” – arriva mentre un rapporto diffuso dalla Banca Mondiale denuncia che a causa delle intese economiche (molto sfavorevoli) sottoscritte con Israele nel 1994 dopo la firma dei falliti Accordi di Oslo, l’Anp perde annualmente 285 milioni di dollari. Steen Lau Jorgensen, responsabile per la BM in Cisgiordania e a Gaza, spiega che ridurre queste perdite porterebbe a tagliare il deficit dell’Anp per il 2016 di un miliardo di dollari e a dimezzare il deficit previsto. Le entrate mancanti derivano principalmente dall’errata allocazione delle tasse per quanto riguarda gli scambi bilaterali tra Israele e Anp e dalla sottostima delle importazioni palestinesi da Paesi terzi.

I motivi offerti dalle autorità militari israeliane per spiegare la chiusura delle cave a Beit Fajar sono respinti non solo dalle migliaia di famiglie che non hanno più un reddito ¬– «Israele vuole colpire l’economia palestinese, vuole costringerci a lasciare la nostra terra per riempirla di coloni» ha protestato Subhi Thawabteh, capo dell’Associazione per al Pietra e il Marmo in Palestina – ma anche da Human Rights Watch. L’Ong americana a tutela dei diritti umani nota in un rapporto come dal 1994 Israele non abbia autorizzato alcuna cava palestinese a Beit Fajar. Al contrario ha rilasciato permessi a varie imprese che operano nelle colonie ebraiche della zona per l’apertura di ben 11 cave che producono – in un territorio occupato – il 25 per cento del fabbisogno di Israele. Oltre alla chiusura delle cave «illegali», le autorità militari a marzo hanno fatto scattare una serie di raid nelle sedi di varie imprese palestinesi dove sono stati confiscati macchinari per un valore di 21 milioni di dollari, restituiti solo dopo il pagamento di multe salatissime ai proprietari che in futuro dovranno rimborsare all’esercito di occupazione i costi che ha dovuto affrontare nelle operazioni di confisca, oltre a dover pagare i diritti retroattivi per l’estrazione di pietre.

Roni Salman, l’avvocato che rappresenta i proprietari delle cave palestinesi, sostiene che i raid sono stati anche «una punizione collettiva per tutta Beit Fajar» dopo gli attacchi compiuti da alcuni dei suoi abitanti a danno di israeliani, in particolare quello dello scorso novembre in cui fu uccisa una donna. Secondo Salman l’unica possibilità di fermare il provvedimento è presentare appello alla Corte Suprema israeliana. Tuttavia proprietari e lavoratori sono profondamente scettici sulla imparzialità dei massimi giudici israeliani quando si occupano di decisioni prese dalle forze armate per presunti motivi di sicurezza. Da parte sua Human Rights Watch riferisce che tre proprietari hanno cercato di dimostrare la proprietà della terra e chiesto più volte la licenza ma la loro documentazione è stata respinta.

Israele, 23 anni dopo la firma degli Accordi di Oslo, mantiene il controllo esclusivo della Zona C della Cisgiordania, dove le colonie si espandono senza problema mentre i palestinesi che vi abitano, anche solo per alzare un muretto, devono chiedere autorizzazioni all’Amministrazione Civile che raramente le concede. Nella Zona C Israele non esita ad eseguire demolizioni di edifici palestinesi “illegali” mentre, incurante di leggi e risoluzioni internazionali espande le colonie. «Questa è la nostra terra, è nel nostro paese, non in Israele», protesta il proprietario di una cava Abdel Moin al Taweel che qualche giorno fa ha visto i militari portarsi via due dei suoi bulldozer e altre attrezzature pesanti. «Israele afferma di voler sostenere lo sviluppo dell’economia palestinese poi però in uno stesso settore favorisce le colonie ebraiche e danneggia le imprese palestinesi», commenta Sari Bashi, direttore locale di HRW.

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