Una visione del conflitto e del dilemma palestinese

di Jamal Zaqout

Al-Quds, 3 aprile 2025.  

Jamal Zaqout

La crisi che attanaglia Israele e il conflitto tra fazioni all’interno del suo sistema politico sulla cosiddetta “identità e carattere democratico dello stato” hanno raggiunto una fase in cui potrebbero andare fuori controllo, scivolando potenzialmente in una guerra civile, come ha avvertito l’ex presidente della Corte Suprema Aharon Barak. Il governo di Tel Aviv, guidato da Netanyahu, ritiene di essere sul punto di realizzare il sogno sionista di risolvere quello che considera un conflitto esistenziale liquidando la questione palestinese. Vede l’opportunità di estendere non solo la sua sovranità sulla Cisgiordania e la pulizia etnica della popolazione di Gaza e della Cisgiordania, ma anche di estendere le sue leggi all’intero sistema politico israeliano. Entrambe le cose sono due facce della stessa medaglia per la creazione di un Grande Israele, non solo in tutta la Palestina storica, ma anche sottomettendo l’intera regione.

Scene dalla Nakba del 1948

La spinta razzista a completare la pulizia etnica estesa che il movimento sionista non è riuscito a realizzare durante la Nakba del 1948 si sta intensificando in modo significativo dopo che l’estrema destra è riuscita a distruggere il processo di pace, soprattutto dopo essere riuscita ad assassinare Rabin. Questa mossa aveva lo scopo di porre fine alle questioni fondamentali di quel processo, alle quali nemmeno Rabin e il suo governo avevano osato rispondere, e che riguardano il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione e alla creazione di uno stato indipendente sulla terra occupata dal giugno 1967.

Il dilemma, e forse l’intrattabilità, della crisi del regime israeliano risiede nella natura razzista del pensiero sionista, in base al quale esiste in Israele un consenso al rifiuto dei diritti nazionali del popolo palestinese, ed esiste l’illusione che sia possibile costruire e preservare un sistema democratico su basi razziste, in conformità con la legge della nazione. Questa illusione è alimentata dalla debolezza del movimento nazionale palestinese, che è quasi completamente scomparso. Ciò consentirebbe la risoluzione del conflitto e l’allontanamento forzato dei palestinesi, questione che ha sempre costituito la pietra angolare del progetto sionista fin dalla creazione dello stato sulle rovine del popolo palestinese e dei suoi diritti nazionali. Ciò non esclude il punto di vista di alcune delle sue tendenze “moderate”, che hanno visto l’insediamento come solo uno sforzo per affrontare la minaccia demografica palestinese al futuro di Israele.

Ciò conferma che questa crisi, e la cosiddetta lotta sull’identità dello stato, continuerà a girare in un circolo vizioso, molto probabilmente a favore del neofascismo, a meno che le altre tendenze in questo conflitto non risolvano la loro posizione sulla questione dell’occupazione, riconoscano il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione e si impegnino in un duplice processo la cui essenza è porre fine all’occupazione ed eliminare il carattere razzista dello stato. Ciò aprirebbe la porta a una soluzione storica di questo cronico conflitto, sia nel quadro di uno stato palestinese indipendente con piena sovranità entro i confini del 1967, sia in uno stato democratico che rifiuti la discriminazione razziale su qualsiasi base.

Al contrario, mentre Israele possiede gli strumenti del gioco democratico e la capacità di fare appello all’opinione pubblica, che possono limitare lo scivolamento verso la minaccia della sopravvivenza dello stato – primi fra questi strumenti sono le elezioni periodiche e l’adesione ai loro risultati – la situazione palestinese sta vivendo uno stato di disintegrazione senza precedenti, che non fa che aumentare la voglia della nascente destra fascista di perseguire i suoi piani, nutrendosi di questa realtà in erosione. La prima Intifada, con il suo carattere profondamente democratico e popolare, è riuscita a creare una spaccatura all’interno della società israeliana sul costo della continuazione dell’occupazione e del controllo sul popolo palestinese, sollevando interrogativi sulla portata della democrazia israeliana e sul suo concetto di libertà, in un momento in cui la stragrande maggioranza della sua società è impegnata a confiscare e violare la libertà di un altro popolo. Da allora, Israele ha impiegato tutte le sue capacità per contenere questa trasformazione, invece di trarne insegnamento liberando entrambi i popoli dal peso dell’occupazione.

In questo contesto, nonostante il chiaro fallimento dell’insediamento e nonostante i veri obiettivi di Israele, che si limitavano a contenere le conquiste dell’Intifada, l’OLP ha continuato a rifiutarsi di condurre una revisione in grado di mobilitare tutte le energie palestinesi e unificarle nel quadro di istituzioni nazionali complete. Ha persistito nel suo approccio di acquiescenza e nell’offrire concessioni gratuite, senza prestare attenzione alla costruzione di istituzioni in grado di soddisfare i bisogni del popolo e di rafforzarne la resistenza. La divisione è stata la tragica conseguenza dell’assenza di una strategia di lavoro basata su denominatori comuni e sull’esigenza di collegare attentamente il compito di liberazione nazionale con quello della costruzione democratica. Tutto ciò ha finito per confluire nel corso della strategia israeliana di impedire la creazione di uno stato palestinese, sia isolando Gaza dall’entità nazionale in certi momenti, sia tentando in altri momenti di sterminare il suo popolo e distruggere gli elementi di vita al suo interno in preparazione del suo spostamento, come sta accadendo oggi.

I gazawi che tornano nel nord di Gaza alla fine di gennaio 2025

Negli ultimi anni di divisione, nel fiume sono scorse acque abbondanti e sangue prezioso. Dopo il fallimento di tutti i tentativi di ricucire la frattura e dopo i successivi piani di liquidazione e di genocidio continuo, le forze politiche sono riuscite a cristallizzare quella che è diventata nota come Dichiarazione di Pechino, che è stata ed è tuttora la pietra angolare per uscire dalla strettoia e porre fine al fallimento della scommessa sulla via della soluzione, da un lato, e al costo esorbitante e insopportabile derivante dall’esagerazione di alcune forme di azione militare, dall’altro.

Ci troviamo in un dilemma storico, mentre i piani di genocidio e di annessione continuano senza sosta. La soluzione di questo dilemma e il confronto con i suoi pericoli non si otterranno continuando a inseguire l’illusione e il miraggio di un insediamento che manca delle condizioni minime per raggiungere i suoi obiettivi, né aspettando che la società israeliana crolli spontaneamente a causa della sua crisi storica. La priorità assoluta è ricostruire e rinnovare il sangue del movimento nazionale palestinese e il suo sistema politico, senza monopoli, esclusioni o isolamenti. Il controllo del destino nazionale non è una proprietà privata e non c’è alternativa all’unità e alla democrazia consensuale finché non si terranno elezioni generali complete.

La domanda posta al popolo palestinese, con tutte le sue forze politiche e sociali, e le varie iniziative e movimenti popolari che sono ancora vivaci, e alla luce del continuo allontanamento dal consenso nazionale, è questa: qual è la responsabilità di ciascuno di noi nel serrare i ranghi in un ampio fronte nazionale che imponga un consenso nazionale e popolare per l’attuazione dell’Accordo di Pechino, tenendo conto che il successo in questa importante missione nazionale richiede l’esame delle ragioni del fallimento o dell’insuccesso della maggior parte delle iniziative che hanno tentato di intraprendere questa missione storica per ripristinare il ruolo e lo status dell’OLP come ampio fronte nazionale che include tutte le forze politiche e sociali e le figure nazionali, e che protegge gli sforzi intellettuali e il pluralismo politico, in modo che possa effettivamente essere l’unico rappresentante legittimo del nostro popolo e il leader della sua lotta nazionale e democratica, e un riferimento nazionale per un governo di unità transitoria il cui programma di lavoro fondamentale è quello di garantire la cessazione della guerra e la prevenzione dello sfollamento, e il cui primo slogan è che la sopravvivenza è la resistenza.

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Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

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