di Raja G. Khouri e Jeffrey J. Wilkinson,
The Walrus, 5 luglio 2024.
Ogni tentativo di spartizione della terra tra Israele e Palestina è fallito. Ma esistono altre opzioni.
“La posizione del Canada è chiarissima”, ha dichiarato lo scorso gennaio il Primo Ministro Justin Trudeau. “Crediamo che l’unica strada da percorrere per la regione, anzi l’unica strada da percorrere per un Israele sicuro e protetto, sia quella di avere uno stato palestinese anch’esso sicuro e protetto con confini riconosciuti a livello internazionale. Crediamo nella soluzione dei due stati”.
A seguito degli eventi calamitosi verificatisi a Gaza e in Israele dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, questa posizione è stata ripresa da molti leader mondiali, tra cui il presidente degli Stati Uniti Joe Biden e il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres. Gli interessi occidentali hanno spinto, senza successo, l’idea di due stati per due popoli, uno ebraico e uno palestinese, per più di settantacinque anni. Non è detto che questa volta l’esito sarà diverso.
Sebbene nelle ultime settimane si sia assistito a un crescente riconoscimento dello stato palestinese da parte della comunità internazionale, si tratta in gran parte di un gesto simbolico piuttosto che di un passo significativo verso una soluzione a due stati. La volontà politica di creare uno stato palestinese è assente in tutti i principali partiti politici israeliani e l’idea è impopolare sia tra i palestinesi che tra la popolazione ebraica israeliana. Anche se l’Autorità Palestinese sostiene l’idea di due stati, la sua struttura è stata fortemente screditata dalla corruzione, dall’incompetenza e dalla collaborazione con i servizi di sicurezza israeliani. È disprezzata dalla maggior parte dei palestinesi e ha perso la legittimità di rappresentarli. Hamas non ha ancora riconosciuto lo stato di Israele, anche se ha accettato l’idea di uno stato palestinese con i confini precedenti al 1967.
Alla luce di questi ostacoli e del fatto che i governi occidentali non hanno attuato politiche che dimostrassero il loro sostegno a due stati (come ad esempio sanzioni più aggressive contro l’espansione degli insediamenti in Cisgiordania), gli appelli odierni a favore di uno stato palestinese accanto a Israele sono essenzialmente vacui e insinceri.
Così come viene comunemente concepita, la soluzione dei due stati ignora gran parte della storia dei palestinesi. Come tutte le altre terre che per secoli e fino al 1918 appartennero all’Impero Ottomano, la Palestina non era un Paese. Il concetto westfaliano di Stato non era penetrato nelle mura dell’impero, che governava le province amministrative dal suo centro di potere a Istanbul. Ma per quasi 1.300 anni c’è stata una terra, una regione, conosciuta come Palestina, che si estendeva dal fiume Giordano a est al Mar Mediterraneo a ovest, e le persone che la abitavano – musulmani, cristiani, ebrei – si riconoscevano come palestinesi. (Le rivendicazioni ebraiche sulla terra si basano su una storia di circa 3.000 anni e sul fatto che la terra è stata, fin dall’antichità, il centro della vita e del desiderio degli ebrei).
Da qui il ritornello che si sente ripetutamente nei raduni pro-palestinesi in tutto il mondo: Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera. Per molti palestinesi, si tratta di un appello per un sistema di governo nella Palestina storica che sia veramente democratico e con uguali diritti per tutti i cittadini. Per molti ebrei, invece, è una richiesta di eliminazione del popolo ebraico che vive lì. Questo loro sentimento deriva probabilmente da un’incomprensione della storia, dallo statuto originale di Hamas che chiedeva la distruzione di Israele e, cosa forse più importante, dal trauma persistente dell’Olocausto.
Per i palestinesi, tuttavia, la richiesta di libertà riflette la consapevolezza che, a prescindere dal luogo in cui vivono, sono negati loro pari diritti e accesso alle loro terre ancestrali: I palestinesi in Cisgiordania hanno pochi diritti in quanto vivono sotto l’occupazione e il dominio militare; i palestinesi di Gaza vivono allo stesso modo sotto l’occupazione, l’assedio o l’invasione dal 1967; i palestinesi della diaspora hanno poche o nessuna possibilità di tornare a vivere in modo permanente in qualsiasi parte della Palestina storica; mentre gli ebrei di tutto il mondo possono immigrare in Israele praticamente quando vogliono. Anche in Israele, la legge sancisce i diritti dei cittadini ebrei che sono superiori a quelli dei palestinesi, spesso chiamati arabi israeliani.
La libertà che il ritornello Dal fiume al mare… chiede è che tutti questi quattro gruppi separati di palestinesi abbiano gli stessi diritti e libertà di cui godono attualmente gli ebrei. In altre parole, è una richiesta di equità e giustizia da realizzare in qualsiasi accordo di pace.
La soluzione dei due stati non offre questa equità. In base ad essa, i cittadini palestinesi di Israele rimarranno di seconda classe; i cittadini della Palestina vivranno in uno stato con una sovranità non completa e con una dipendenza perpetua da Israele (automatica); e solo a un numero limitato di palestinesi della diaspora sarà permesso di tornare in Palestina. Se i leader mondiali non abbandoneranno l’idea della spartizione, noi palestinesi continueremo a rifiutare altre possibili alternative per la condivisione della terra.
Molti hanno sostenuto che, per la maggior parte dei palestinesi, la soluzione dei due stati è solo un mezzo per promuovere gli interessi occidentali, tra cui l’accesso al petrolio, alle vie d’acqua e ai mercati del Medio Oriente. Il suo scopo principale è considerato quello di garantire la sicurezza di Israele e di ridurre le tensioni con gli stati arabi confinanti, piuttosto che soddisfare le esigenze e le aspirazioni politiche e dei diritti umani del popolo palestinese.
Questa influenza straniera risale a più di un secolo fa. Il trattato segreto Sykes-Picot del 1916 fu ideato da un diplomatico inglese e uno francese, in previsione della fine della Prima Guerra Mondiale e del crollo dell’Impero Ottomano. Il trattato divideva le terre arabe in entità separate che ricadevano sotto il controllo britannico o francese, con la Palestina internazionalizzata per tener conto delle varie rivendicazioni sulla Terra Santa. Il trattato pose le basi perché la Palestina diventasse parte del mandato britannico. Nella Dichiarazione Balfour dell’anno successivo, la Gran Bretagna dichiarò il proprio sostegno alla creazione di un “focolare nazionale per il popolo ebraico” in Palestina.
Se la Dichiarazione Balfour fu, in parte, una risposta alle pressioni del movimento sionista che cercava di stabilire una patria ebraica, essa fu anche il risultato dell’antisemitismo europeo, che sosteneva la necessità di risolvere la “questione ebraica”. Conosciuta anche come “problema ebraico”, si trattava di una discussione diffusa in Europa nel XIX e all’inizio del XX secolo, quando alcuni scrittori e studiosi sostenevano che gli ebrei appartenessero a una razza separata che non poteva assimilarsi alla società europea, una convinzione che alla fine avrebbe portato all’Olocausto.
Nel 1920, un gruppo di nazioni alleate accettò di concedere alla Gran Bretagna un mandato sulla Palestina, che fu poi approvato dalla Società delle Nazioni nel 1922. Il mandato, che includeva i principi della Dichiarazione Balfour, in particolare la creazione del focolare ebraico, fu contrastato dai palestinesi arabi. Questa resistenza prese la forma di uno sciopero generale durante quella che divenne nota come la Rivolta Araba del 1936-1939. In risposta, la Gran Bretagna formò la Commissione Peel, che stabilì che, con l’aumento dell’immigrazione ebraica, il conflitto con la popolazione araba locale era inevitabile e che quindi la terra doveva essere spartita. Il piano prevedeva l’assegnazione di ampie porzioni di terra agli ebrei e il trasferimento forzato degli arabi palestinesi in quella che oggi è conosciuta come Giordania. I sionisti erano generalmente d’accordo con il piano, ma i palestinesi arabi rifiutavano di essere allontanati da una terra che era stata loro per secoli. Una proposta della Gran Bretagna del 1939, che prevedeva la creazione di un unico stato governato da ebrei e arabi, fu respinta dall’Organizzazione Sionista. Anche diverse altre formule proposte negli anni successivi fallirono.
Nel 1947, la Gran Bretagna affidò quella che divenne nota come la questione della Palestina alle neonate Nazioni Unite che, dopo aver preso in considerazione varie opzioni, proposero di porre fine al mandato britannico e di dividere la Palestina in due stati indipendenti, uno arabo palestinese e l’altro ebraico (con Gerusalemme sotto controllo internazionale). I palestinesi arabi consideravano profondamente ingiuste le modalità della spartizione, che assegnava circa il 56% della terra agli ebrei, sebbene questi ultimi rappresentassero meno di un terzo della popolazione e possedessero meno del 7% della terra. Gli arabi sostenevano inoltre che il piano di spartizione violava la Carta delle Nazioni Unite. In un articolo del 2021 per lo Stanford Journal of International Law, lo studioso Ardi Imseis scrive che la risoluzione “fu guidata da obiettivi politici nettamente europei e da atteggiamenti condiscendenti che privilegiavano gli interessi europei”. Imseis sostiene che, al fine di risolvere la “questione ebraica” dell’Europa, l’insediamento ebraico in Palestina fu sostenuto senza tener conto del diritto internazionale che avrebbe dovuto essere applicato alla popolazione araba esistente.
La leadership sionista accettò il piano di spartizione, mentre gli arabi palestinesi e gli Stati Arabi circostanti lo rifiutarono e lanciarono un attacco armato. Ciò portò alla guerra, alla creazione di uno stato indipendente per gli ebrei e alla Nakba (che significa catastrofe in arabo), durante la quale circa 750.000 palestinesi fuggirono o furono portati via con la forza dalle milizie sioniste e non poterono tornare. L’accordo armistiziale del 1949, mediato dalle Nazioni Unite, tra Israele e Giordania, Egitto, Siria e Libano creò la Linea Verde, che costituì il confine del neonato Stato ebraico di Israele, conferendogli il 78% della terra della Palestina storica. L’accordo lasciava alla Giordania il controllo della Cisgiordania e di Gerusalemme Est e all’Egitto quello della Striscia di Gaza.
La Guerra dei Sei Giorni del giugno 1967 ha portato a molte delle sfide che esistono oggi. Israele conquistò ciò che restava della Palestina storica, ovvero la Cisgiordania, Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza, territori che continua a occupare. (Sebbene Israele abbia formalmente terminato la sua occupazione di Gaza nel 2005, controlla ancora effettivamente tutto e tutti coloro che entrano ed escono da Gaza, tanto che le Nazioni Unite, gli Stati Uniti e la maggior parte dei gruppi internazionali considerano ancora Gaza un territorio occupato).
Tutti i recenti tentativi di creare due stati si sono basati sulla nozione di un ritorno di Israele ai confini precedenti al 1967 (con alcuni aggiustamenti da negoziare) e della formazione di uno stato palestinese nelle aree evacuate. Questa idea è sostenuta, almeno in linea di principio, dalla maggior parte dei governi occidentali, dai gruppi sionisti progressisti – quelli che si preoccupano sinceramente dei palestinesi pur credendo che l’esistenza di Israele come stato ebraico sia necessaria per garantire la loro sicurezza – e dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina.
Gli sforzi più significativi per attuare questa visione sono stati gli accordi di Oslo del 1993 e Oslo II del 1995. Questi ultimi arrivarono sulla scia di una rivolta palestinese di base, nota come Prima Intifada, iniziata nel 1987 e proseguita fino al 1993. Le immagini di bambini palestinesi che lanciavano sassi contro le truppe israeliane dominavano i telegiornali di tutto il mondo e ampi segmenti della società palestinese partecipavano a scioperi, boicottaggi e altre tattiche di disobbedienza civile non violenta. L’Intifada, su cui l’OLP aveva scarso controllo, rese chiaro al mondo che i palestinesi erano decisi a resistere alla loro oppressione e che l’occupazione israeliana doveva finire.
Avvertendo un’opportunità, nel 1988 l’allora leader dell’OLP Yasser Arafat riconobbe pubblicamente il diritto all’esistenza di Israele e sancì l’avvio di negoziati “terra in cambio di pace” con Israele. Per quanto fosse difficile accettare una patria fortemente ridotta – la Cisgiordania e Gaza costituiscono solo il 22% della Palestina storica – per un’OLP sconfitta e minacciata dall’oblio era l’unico premio di consolazione disponibile. Sotto l’egida norvegese, si svolsero una serie di colloqui e negoziati segreti, con il tacito consenso dell’allora primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, che era visto da molti come un forte sostenitore della soluzione a due stati.
L’assassinio di Rabin, nel 1995, da parte di un estremista ebreo israeliano, è spesso indicato come una ragione chiave per la fine dei colloqui sui due stati. Tuttavia, lo stesso Rabin aveva detto all’inizio di quell’anno che ciò che offriva ai palestinesi non equivaleva a una completa autodeterminazione:
Vorremmo che si trattasse di un’entità inferiore a uno stato, che gestisca in modo indipendente la vita dei palestinesi sotto la sua autorità. I confini dello stato di Israele, durante la soluzione permanente, saranno oltre le linee che esistevano prima della Guerra dei Sei Giorni. Non torneremo alle linee del 4 giugno 1967.
È importante riconoscere che non solo questa soluzione del 22% non è più praticabile trentuno anni dopo Oslo, ma che non è mai stata equa per i palestinesi. Per quanto riguarda Israele, nessuna delle formule a due stati ha soddisfatto le sue apparentemente insaziabili esigenze di sicurezza, creando un ostacolo alla piena sovranità palestinese con richieste di controllo sui confini di un futuro stato palestinese e la sua completa smilitarizzazione.
Una narrazione comune è che Israele non ha mai avuto “un partner per la pace” o, come affermò notoriamente il diplomatico israeliano Abba Eban nel 1973, “gli arabi non hanno mai perso l’occasione di perdere un’opportunità”. La verità è molto più sfumata.
Si consideri il piano presentato dall’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump nel 2020, da lui definito “l’accordo del secolo”. Offriva ai palestinesi un territorio completamente circondato da Israele e dava agli israeliani un accesso privilegiato alle strade, enormi controlli di sicurezza e rivendicazioni su tutta Gerusalemme (offrendo contemporaneamente la città alla Palestina). Inoltre, non permetteva il ritorno dei rifugiati del 1948 o del 1967.
Trump è stato anche impegnato nella creazione degli Accordi di Abramo, che hanno normalizzato le relazioni tra Israele e quattro stati arabi. Sebbene molti in Occidente abbiano definito questi accordi come un passo importante verso la pace, i palestinesi hanno ritenuto che essi abbiano diluito il sostegno del mondo arabo alla loro causa. Un altro esempio di interessi occidentali che guidano la nave a spese dei palestinesi.
OGGI, l’abisso tra la speranza dichiarata di una soluzione a due stati e la possibilità che si realizzi è probabilmente più grande di quanto non sia mai stato, con 279 insediamenti e 700.000 coloni in Cisgiordania, secondo i rapporti ONU del 2023, l’annessione di Gerusalemme Est da parte di Israele e i tentativi in corso di annettere la valle del Giordano, l’erezione di una barriera di sicurezza che scava in profondità nella Cisgiordania, una vasta rete di strade vietate ai palestinesi che attraversano la Cisgiordania e governi israeliani sempre più di destra che sostengono l’espansione degli insediamenti e l’espropriazione dei palestinesi. Nel frattempo, gli atti di genocidio compiuti da Israele a Gaza dal 7 ottobre 2023 e l’aumento della violenza dei coloni in Cisgiordania difficilmente faranno crescere la voglia di coesistenza tra i palestinesi.
Questa realtà ci dovrebbe spingere a interrogarci sul perché le richieste di una soluzione a due stati siano aumentate così tanto negli ultimi mesi. Come ha sottolineato lo studioso di diritto Darryl Li in un recente episodio del podcast On the Nose di Jewish Currents, “la ‘soluzione a due stati’ è come esprimere i propri ‘pensieri e preghiere’ sulla questione della Palestina; è una frase mascherata al posto del vero pensiero e al posto della politica. È un sostituto del tutto bizzarro”. In un recente articolo di Foreign Affairs, Marc Lynch e Shibley Telhami descrivono i rinnovati appelli per una soluzione a due stati come un modo per “trovare un qualche filo d’argento [qualche aspetto positivo] nella carneficina”.
Ma cosa vogliono i palestinesi (non che molti in Occidente se lo chiedano)? Un recente sondaggio condotto dall’Institute for Social and Economic Progress tra il 3 e il 10 marzo 2024 a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est ci dice che circa il 72% della popolazione è disposto ad accettare una soluzione a due stati, mentre il 51% è a favore di una soluzione a uno stato in cui tutti i cittadini abbiano uguali diritti. Quest’ultima opzione implica la rinuncia all’autodeterminazione, ma fornirebbe anche una certa riparazione per la Nakba del 1948, dando ai palestinesi l’accesso a tutto ciò che un tempo era loro.
A tal fine sono state proposte varie formulazioni, tra cui uno stato con pari diritti per tutti, uno stato binazionale, un approccio confederale o qualche altro accordo politico creativo che garantisca parità di diritti, libertà e accesso.
Affinché una qualsiasi di queste iniziative abbia successo, il sionismo dovrà evolvere dalla sua rigida insistenza su uno stato a maggioranza ebraica all’accettazione di una casa in cui gli ebrei possano vivere in libertà e sicurezza, come immaginato da Peter Beinart in un saggio fondamentale del 2020 per Jewish Currents. “L’essenza del sionismo non è uno stato ebraico nella terra di Israele, ma una casa ebraica nella terra di Israele”, scrive. “È tempo di immaginare una casa ebraica che sia anche una casa palestinese”. È ragionevole credere che Theodor Herzl, uno dei fondatori del movimento sionista, condividesse questa visione di coesistenza. Un altro fondatore, Ze’ev Jabotinsky, riconobbe presto che la popolazione araba palestinese probabilmente non avrebbe accettato uno stato a maggioranza ebraica e che alla fine avrebbe dovuto essere reinsediata altrove.
La visione sionista originaria di condividere la terra non si dissolse del tutto. Con l’arrivo in Palestina di un numero sempre maggiore di ebrei, in particolare di quelli che sfuggivano ai pogrom in Russia alla fine del XIX secolo, che crearono tensioni crescenti con i palestinesi, il Dodicesimo Congresso Sionista del 1921 espresse il desiderio di “vivere in rapporti di armonia e rispetto reciproco con il popolo arabo” in Palestina e invitò l’esecutivo a raggiungere una “sincera comprensione con il popolo arabo”.
Le giovani generazioni di ebrei della diaspora sono consapevoli del trauma storico ebraico e riconoscono che i palestinesi meritano pari diritti e libertà. Lo abbiamo visto nella notevole partecipazione di giovani ebrei alle manifestazioni pro-palestinesi e agli accampamenti universitari e tra gli artisti ebrei che hanno preso posizione pubblica a sostegno della Palestina. Parallelamente, le giovani generazioni di palestinesi potrebbero presto abbandonare la lotta per l’autodeterminazione all’interno di uno stato palestinese. Nello scenario di uno stato unico, potrebbero invece cercare di ottenere pari diritti attraverso un approccio basato sui diritti civili.
Siamo rimasti bloccati in questo vortice dei due stati per troppo tempo. Forse è giunto il momento di ascoltare i giovani, sia ebrei che palestinesi, e lasciare che i valori di giustizia e dignità per tutti illuminino il nostro cammino.
Raja G. Khouriè un sostenitore dei diritti umani e un facilitatore interculturale. È coautore di The Wall Between: What Jews and Palestinians Don’t Want to Know about Each Other.
Jeffrey J. Wilkinsonè un educatore, ricercatore e facilitatore. È coautore di The Wall Between: What Jews and Palestinians Don’t Want to Know about Each Other.
https://thewalrus.ca/two-state-solution-mean/
Traduzione a cura di AssoPacePalestina
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