In un campus israeliano, studenti ebrei e palestinesi si ritagliano momenti di sanità mentale e di speranza

Giu 6, 2024 | Notizie

di Linda Dayan,

Haaretz, 5 giugno 2024.   

All’iniziativa MiddleMeets dell’Università di Tel Aviv, studenti arabi ed ebrei parlano tra loro dell’Olocausto, della Nakba, del 7 ottobre e del bombardamento di Gaza. L’obiettivo: non arrendersi. Potrebbe funzionare anche sul campo di battaglia dei campus statunitensi?

Partecipanti al programma. Uno studente si è detto sorpreso “della diversità di opinioni“. Linda Dayan

Un venerdì mattina di maggio, due studenti si sono seduti su delle sedie al centro di un cerchio, circondati dai loro coetanei in una sala studio della biblioteca dell’Università di Tel Aviv. I due si assomigliavano vagamente: avevano lo stesso colorito, gli stessi peli sul viso e lo stesso imbarazzante nervosismo di essere messi in discussione, anche se si erano offerti di condividere le loro esperienze.

Uno di loro ha parlato della sua partecipazione alla guerra: degli amici che ha perso durante il massacro al festival musicale di Nova, del suo periodo come riservista delle forze speciali a Gaza. Il secondo giovane ha parlato dei propri sentimenti: il senso di impotenza, il senso di colpa per essere al sicuro e in salute mentre sui social media si vedono filmati di famiglie distrutte a Gaza. Circa altre 16 persone erano sedute nel cerchio e sono state invitate a prendere la parola.

Una giovane donna araba si rivolge al riservista: “Posso chiederti se hai ucciso qualcuno?”.

Lui ha risposto di no; era un medico, ma ha visto molti morti. Lei ha chiesto cosa avrebbe pensato se fosse cresciuto a Gaza: avrebbe potuto vedere una versione di se stesso che combatteva per il suo popolo lì? Ha detto che gli è passato per la testa quando ha incontrato i combattenti nemici. “Mi sono chiesto: sono io il parallelo di questo dalla nostra parte?”.

UnUnUn giovane arabo ha detto di sentirsi insicuro dopo il 7 ottobre – un’affermazione che ha turbato un altro studente del circolo, che ha chiesto: “Se è stato il peggior massacro di ebrei dopo l’Olocausto, perché proprio tu dovevi sentirti insicuro?”. Il ragazzo ha riflettuto un attimo e ha detto che non era sicuro di come avrebbero reagito gli altri israeliani e se sarebbe stato preso di mira per vendetta. Gli studenti ebrei hanno riflettuto e hanno annuito in segno di comprensione.

Questo è stato il primo incontro ‘in presenza’ di MiddleMeets, un’iniziativa di studenti delle università israeliane per ampliare il dibattito sul conflitto israelo-palestinese, sia in patria che all’estero. Il programma è stato sviluppato a dicembre durante un hackathon [gara di esperti per produrre un nuovo progetto] dell’Università di Tel Aviv, una sessione di brainstorming di più giorni chiamata “The Day After” e incentrata sulla ricostruzione della società israeliana del dopoguerra. Vi hanno partecipato studenti di tutto il paese e un gruppo di studenti di materie umanistiche ha proposto un progetto per cambiare il dibattito divisivo su Israele-Palestina.

“La loro idea era quella di un incontro con studenti di altri paesi, soprattutto degli Stati Uniti, un’idea che c’era anche prima di questi tempi turbolenti”, ha detto Elitzur Bar-Asher Siegal, professore di lingua ebraica all’Università Ebraica di Gerusalemme e consulente del progetto. “C’era un senso di frustrazione per ciò che vedevano, e la sensazione che si dovesse andare al cuore delle argomentazioni o degli aspetti più impegnativi e tenere una discussione onesta e intellettuale su queste cose”.

Incontro in piccoli gruppi del progetto MiddleMeets. Neta Tsilov

Ma prima di poter portare il progetto in America, sono state necessarie alcune dure discussioni sul campo in Israele. “Con il tempo ci siamo resi conto che, prima ancora di incontrare gli studenti in America, dovevamo fare una sorta di esperimento pilota. Ci siamo anche resi conto che gli studenti israeliani non potevano appartenere a un solo gruppo nazionale”, ha detto Bar-Asher Siegal.

“Abbiamo bisogno di studenti ebrei, cristiani, musulmani, che si identifichino come sionisti o che non si identifichino necessariamente come tali, così come di altri che si identifichino come palestinesi. In caso contrario, ci saremmo persi qualcosa di fondamentale. Così abbiamo iniziato con il nostro dialogo interno, che è stato in realtà un incontro tra studenti di lingua ebraica [ebrei] e studenti di lingua araba”.

Prima che questi due gruppi si riunissero, un consulente che ha lavorato sugli aspetti emotivi di questi incontri ha consigliato ai partecipanti di iniziare come due gruppi omogenei separati – studenti arabi e studenti ebrei. Hanno tenuto due sessioni di questo tipo su Zoom prima dell’evento ‘in presenza’ del mese scorso.

“Abbiamo fatto una sorta di esperimento”, ha detto Bar-Asher Siegel. “Ogni gruppo doveva leggere e confrontarsi con uno di due testi, ambedue su un motivo simile, ma scegliendo quello proveniente dall’altra nazione”.

Il gruppo di lingua ebraica ha letto un’opera sulla Nakba di Mahmoud Darwish, considerato il poeta nazionale palestinese, intitolata “Perché hai lasciato il cavallo da solo?”. Il gruppo di lingua araba ha letto un’opera sull’Olocausto intitolata “Yizkor” di Abba Kovner, un poeta che ha combattuto i nazisti come partigiano.

“Volevamo che lo leggessero da due punti di vista: innanzitutto dire cosa si prova leggendo il testo dell’altra parte e così rafforzare i meccanismi dell’empatia e della simpatia – e poi pensare a cosa passa per la mente delle persone quando leggono l’autore della propria parte”, ha detto Bar-Asher Siegal.

“Ciò che questi due testi hanno in comune è che discutono di disastri storici che pongono una richiesta etica sul futuro: ricordare. Dovete ricordare e agire tenendo presente questa memoria”.

Sofferenza e paura

Per entrambi i gruppi è stato difficile confrontarsi con i testi, ma l’esperienza è stata fruttuosa, ha detto Bar-Asher Siegal. Per mantenere lo spazio sicuro, ha dato ampio spazio al gruppo di lingua araba, ma è rimasto impressionato da ciò che ha sentito in quello di lingua ebraica.

“È stato interessante leggere Mahmoud Darwish, perché lo hanno letto in modo molto ‘ebraico’. C’era questa sensazione di ‘Wow, non siamo completamente diversi’, ma non sono sicuro che abbiano afferrato completamente il senso della Nakba o dell’essere un rifugiato”.

Uno studente, tuttavia, ha dichiarato che non tornerà. “Sembra che abbia preso molto male il testo di Darwish, come se ci fosse qualcosa in esso che lo spaventava, suppongo”, ha detto Bar-Asher Siegal. “Ha detto che quando dirà alla gente che ha letto questo testo, lo vedranno come un traditore”.

Manifestanti all’Università di Tel Aviv nel giorno della Nakba, il mese scorso. Moti Milrod

Quello studente non era il solo. “Anche altre persone hanno detto che non sarebbero tornate, che dopo il primo incontro hanno capito che non era per loro. Non so se devo sentirmi in colpa per questo, o se stiamo semplicemente vedendo chi è in grado di partecipare a una discussione come questa”, ha detto Bar-Asher Siegal.

“Vogliamo davvero cercare di parlare di queste cose con delicatezza e con sensibilità intellettuale ed etica – con sensibilità umana verso la sofferenza, perché le persone arrivano con sofferenza e paura, quindi come possiamo farlo?”.

Prima dell’incontro, Bar-Asher Siegal temeva che gli studenti di lingua araba, sia che si identificassero come arabi israeliani, come palestinesi o come entrambi, non si sarebbero sentiti a proprio agio nell’esprimere pienamente le loro opinioni. “Penso che il gruppo di lingua araba sia molto più spaventato dall’incontro di persona, perché non sa quanto liberamente può parlare”, ha detto.

“Hanno la sensazione di non essere ascoltati e, naturalmente, sono preoccupati che ci sia una sorta di squilibrio di potere. Ci sono squilibri in riunioni come questa, malgrado tutti gli sforzi che uno fa affinché non ci siano”.

Hijab e spille Pride

Quel giorno di metà maggio, solo tre o quattro dei partecipanti di lingua araba si sono presentati. Su circa 18 persone, si trattava comunque di un campione rappresentativo della società israeliana, ma non era affatto una parità.

L’incontro era comunque eterogeneo. Una giovane donna con l’hijab sedeva di fronte a un ragazzo la cui borsa era ricoperta di spille dell’orgoglio LGBTQ. Durante una presentazione, un giovane con una kippa lavorata a maglia, con i riccioli laterali infilati dietro le orecchie, ha chiesto alla donna laica dietro di lui se poteva vedere comodamente. Un uomo religioso più anziano – un immigrato dagli Stati Uniti e laureato in Talmud – ha selezionato con cura le sue parole. Le opinioni erano basate sulla storia della propria famiglia: Ashkenazi, Mizrahi, palestinese, etiope.

I consiglieri e gli studenti leader hanno iniziato la discussione riconoscendo che questi spazi sono rari. Ci sono state ripercussioni sociali, legali e professionali per gli israeliani, in particolare per gli arabi israeliani, che hanno espresso opinioni sulla guerra considerate dissenzienti. Ma con la gentilezza di Bar-Asher Siegal e del suo co-consigliere, Khitam Abu Bader del gruppo no-profit Desert Stars per la leadership beduina, la conversazione è fluita abbastanza liberamente.

Durante quel primo circolo di discussione, una giovane donna araba ha espresso parte della sua frustrazione. “Quando gli ebrei ne parlano, è come se la storia fosse iniziata il 7 ottobre”, ha detto in ebraico. “Non è stato un attacco immotivato, è stata una risposta, e la gente deve capirlo”.

Uno studente ebreo ha replicato: “Mi dà fastidio che io posso condannare l’uccisione di [palestinesi] innocenti, mentre va bene che i miei amici palestinesi dicano che capiscono Hamas che ha attaccato”.

Un altro si è aggiunto: “Penso che anche se ogni gazawi fosse anti-Israele, questo non giustifica quello che l’IDF sta facendo lì”. Un quarto studente ha aggiunto: “C’è una ragione per cui questa guerra sta avvenendo, e questo paese deve distruggere Hamas. Stanno morendo degli innocenti ed è molto triste, ma non c’è scelta”.

“Abbiamo bisogno di studenti ebrei, cristiani, musulmani, che si identifichino come sionisti o che non si identifichino necessariamente come tali”, ha dichiarato il Prof. Elitzur A. Bar-Asher Siegal. Neta Tsilov

Niente urla o grida

Alla fine, i leader hanno chiuso la conversazione e hanno iniziato a preparare la sessione successiva.

Tom, dottorando presso la Hebrew University, si è limitato ad ascoltare attentamente la discussione. “Man mano che andava avanti, diventava sempre più onesta e coraggiosa”, ha detto. “Mi sentivo come se le parole mi sfuggissero – volevo parlare, ma credo che sia una di quelle cose a cui bisogna dare tempo”.

Dal 7 ottobre, Tim ha avuto la sensazione di non fare abbastanza, a parte i turni di guardia nella sua città, l’insediamento cisgiordano di Tekoa. “Come studente universitario di materie umanistiche, avevo bisogno di vedere come potevo fare qualcosa, anche se minimo”, ha detto. Così si è unito al programma.

Durante la sessione successiva, i consiglieri hanno distribuito un testo – in ebraico e arabo – sui cosiddetti riconoscimenti della terra (land acknowledgments), la pratica in Nord America di iniziare un evento dando riconoscimento alle tribù di nativi americani che un tempo vivevano lì. Poiché c’era un numero dispari di partecipanti, ho finito per partecipare anch’io. Ero in coppia con Bat-El, una studentessa di letteratura americana della città di Yavneh, a sud di Tel Aviv.

“Sento che manca una conversazione, sia nella società israeliana che in tutto il mondo: una conversazione complessa che includa molte opinioni espresse in modo rispettoso, non con urla e grida oppure con troppa correttezza politica, ma comunque con sensibilità verso l’altra parte”, ha detto quando le è stato chiesto perché era venuta. “Ho partecipato a gruppi simili in passato e ho sempre imparato cose, imparato a conoscere le persone, imparato ad ascoltare e ad esprimermi”.

Abbiamo discusso di come le nostre storie familiari di sfollamento – la sua dall’Etiopia, la mia dal Medio Oriente – influiscano sulla nostra percezione di questa pratica, e lei ha riso dicendo che prova ancora rancore nei confronti di Roma per la distruzione del Tempio ebraico, per non parlare dell’occupazione italiana dell’Etiopia. Ma ne è seguita una profonda discussione sull’indigeneità, sulla responsabilità, sull’appartenenza al popolo degli Stati Uniti rispetto a quella di Israele, sul razzismo e sul senso di colpa. Questi temi si sono riversati nella discussione di gruppo, dove la maggior parte degli studenti ha visto i riconoscimenti della terra come parole vuote se non seguite da azioni riparatrici.

Majdoulin, una studentessa di Gerusalemme, è rimasta per lo più in silenzio durante le sessioni. La sua lingua madre, l’arabo, è molto più forte dell’ebraico ed è stato difficile seguire e dare voce ai suoi pensieri.

“Dall’inizio degli eventi, anche prima di ottobre, ero titubante all’idea di venire qui come palestinese in un’istituzione ebraica o di lingua ebraica”, ha detto in un inglese fluente. “Soprattutto dopo gli eventi del 7 ottobre, sono diventata ancora più dubbiosa. Ho deciso comunque di venire qui per diversi motivi, ma il motivo principale è che ho sentito che questa è finalmente un’opportunità in cui posso esprimermi e parlarne in un ambiente più sicuro”.

Una manifestante con in mano una bandiera palestinese a Parigi a fine aprile. Gli incontri a Tel Aviv mirano a un approccio di riconciliazione. Michel Euler/AP

Quando le è stato chiesto se sentiva di aver trovato sicuro quell’ambiente, ha riflettuto un attimo. “Più o meno”, ha risposto. “Credo che ci fosse un po’ più di libertà di quanto immaginassi, ma molte opinioni erano un po’ estreme e radicali. Credo di poter dire che mi sono sentita sicura nell’esprimermi, anche se non ho potuto esprimermi molto liberamente a causa della barriera linguistica”.

Tuttavia l’incontro ha lasciato un segno. Parte delle conversazioni che ho avuto con altri partecipanti e studenti, diciamo dell'”altra parte” o con studenti ebrei, mi sono rimaste impresse perché non mi aspettavo di trovare tanta consapevolezza dell’altra parte e tanta, diciamo, compassione da parte di alcune persone”, ha detto. E altre cose: sono venuta con l’aspettativa dei pensieri stereotipati che gli israeliani hanno su di noi, e che sono stati comunque mostrati”.

“Ci sono stati momenti come quello in cui si dice che alla gente di Gaza o della Cisgiordania è stato fatto il lavaggio del cervello, o come quello in cui si dice che i gazawi meritano quello che gli è successo perché hanno comunque eletto il loro governo. C’era un tipo di supremazia molto evidente, in cui una vita vale più dell’altra, e questo veniva espresso – e non credo nemmeno che le persone che lo dicevano fossero consapevoli di dirlo. Hanno mostrato questo sentimento in quello che stavano dicendo. È una cosa che brucia”.

Ha detto che probabilmente parteciperà ancora agli altri incontri del gruppo, se il suo programma di esami lo permetterà.

Al termine della giornata, il gruppo si è riunito per una conversazione conclusiva. Un partecipante ha detto: “Me ne vado confuso”; un altro ha espresso sorpresa “per la diversità di opinioni”. Uno studente ha detto che “ci sono stati momenti di ottimismo, momenti di rabbia”, ma anche un senso di speranza.

Uno ha riconosciuto la mancanza di partecipanti arabi: “Mi è sembrato di ricadere nell’idea di ‘ho ragione e vi dico perché’, ed è difficile non farlo in un gruppo diseguale”. Ma un altro si è sentito sfidato. “Temevo che non sarebbe stato uno spazio senza censura, ma ci siamo riusciti. Qualcuno mi ha fatto sentire in errore e durante la pausa l’ho ringraziato per questo”.

Il programma dovrà essere leggermente modificato prima di essere portato in America, ha detto Bar-Asher Siegal. Ma negli incontri successivi a quello in persona, ci sono stati dei miglioramenti, ha aggiunto. Sono arrivati molti più studenti arabi e tre sono entrati a far parte del team di leadership, che ha così un numero quasi uguale di membri arabi ed ebrei. Le successive sessioni di Zoom si sono concentrate sul senso di colpa e sulla vergogna, oltre che sulla simpatia e sull’empatia. Anche queste sono state conversazioni difficili, ma Bar-Asher Siegal le considera un successo.

“Per gli ebrei non è stato facile sentirsi accusare di genocidio”, ha detto. “Ma le persone hanno parlato in modo molto diretto, onesto e autentico di come si sentono. Ci è sembrato di essere riusciti a creare uno spazio sicuro per parlare”.

Non è nuovo ai campus statunitensi divisi, che hanno visto il discorso su Israele-Palestina degenerare in violenza fisica. Infatti Bar-Asher Siegal è tornato a dicembre dopo un anno e mezzo di insegnamento a Yale e all’Università di Chicago, dove era il 7 ottobre.

“Stiamo cercando di scrollarci di dosso lo stigma degli ebrei che vengono a fare hasbara“, ha detto, usando la parola ebraica per indicare la diplomazia pubblica israeliana cioè le cosiddette PR. “Vogliamo raggiungere le persone che sono arrabbiate con Israele. Questo è l’obiettivo in questo momento”.

Ma questi studenti sono pronti ad ascoltare? “È più difficile mettere d’accordo uno studente che ha combattuto a Gaza con uno studente che ha una famiglia a Gaza, no? È quello che è successo nel primo incontro”, ha detto Bar-Asher Siegal. “Quindi penso che ci sia qualcosa nel formato che ha funzionato. In qualche modo, parlare in termini analitici ha permesso una conversazione sincera e onesta. Sembrava sollevare gli animi che questa cosa stesse accadendo, che le persone stessero parlando apertamente e onestamente”.

“È difficile, fa male ed è triste, ma tra l’altro si ride anche di tante cose. In questo caos, è un momento di sanità mentale, di speranza che sia possibile continuare a provare e non rinunciare a discutere di tutto e ad ascoltarsi a vicenda”.

https://www.haaretz.com/israel-news/2024-06-05/ty-article-magazine/.premium/on-an-israeli-campus-jewish-and-palestinian-students-carve-out-moments-of-sanity-and-hope/0000018f-e805-d0ea-a1bf-fb45d2c60000?utm_source=App_Share&utm_medium=iOS_Native

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

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