di Mahmoud Mushtaha,
+972 Magazine, 27 maggio 2024.
Mio nonno ricorda i rapporti di vicinato con gli ebrei prima del 1948. Per i palestinesi di oggi, una simile prospettiva sembra quasi impossibile.
“Eravamo liberi. Era la vita più bella possibile. Avevamo tutto: il nostro patrimonio, il nostro commercio e il nostro mare”. Mio nonno, che oggi ha 85 anni, ricorda ancora la vita in Palestina prima del 1948. Non c’erano restrizioni agli spostamenti, né posti di blocco, né assedi, né coprifuoco. Lui è cresciuto in un piccolo villaggio a Jaffa, dove la vita era piena di attività durante il giorno e piena di incontri sociali la sera. La sua era una comunità ricca di cultura e di legami.
Ma questa vita è stata bruscamente sconvolta dagli eventi della Nakba. Conseguenza necessaria del sionismo, la Nakba del 1948 segnò l’inizio di una ferita non rimarginata che da allora ha continuato ad aggravarsi. Il profondo senso di perdita e il dolore duraturo dello sfollamento sono sentimenti che molti palestinesi, come mio nonno, continuano a sopportare – un dolore che ora viene terribilmente inflitto a una nuova generazione.
Insieme a decine di migliaia di altri palestinesi, i miei nonni furono costretti a lasciare Jaffa nel 1948. Inizialmente si recarono a Hebron, sperando di tornare presto alla loro casa. Nel giro di una settimana, tuttavia, divenne chiaro che un ritorno così rapido sarebbe stato impossibile. Si trasferirono quindi a Gaza, dove il fratello di mio nonno lavorava nel commercio. Da allora hanno vissuto lì.
Durante la guerra israeliana in corso contro Gaza, mio nonno ha ripensato alla sua infanzia. Gli echi della Nakba sono inconfondibili, ma ha anche pensato alla vita in Palestina prima del 1948. Rievoca la piccola casa della sua famiglia a Jaffa, cita spesso le famiglie palestinesi che ricorda nel suo quartiere. Alcune, come le famiglie Masoud, Husseini e Khalidi, si sono trasferite a Gaza nel 1948. Altre, come le famiglie Dajani, Muzafar e Levan, non sono più in contatto con mio nonno da 76 anni, ma lui le ricorda ancora con affetto.
La famiglia Levan, con il suo cognome non arabo, ha attirato la mia attenzione. “Erano una famiglia ebrea”, mi ha spiegato mio nonno. “Erano i nostri vicini di casa a Jaffa e le nostre madri erano molto amiche”. Le madri palestinesi condividevano così tanto cibo con i loro vicini ebrei che la signora Levan scherzava sul fatto di non avere mai l’opportunità di cucinare.
“A quei tempi”, ha proseguito, “non importava chi eri, da dove venivi o qual’era la tua religione. L’importante era volersi bene”. La famiglia Levan celebrava le nostre feste con noi e noi facevamo lo stesso con loro”. Questo era lo spaccato di un tempo, quando la vita era più stabile in questa terra e le persone potevano accettarsi più facilmente, che fossero musulmane, cristiane o ebree – lo spaccato di un tempo prima che tragici eventi politici spezzassero questi legami.
“È il soldato colui che uccide e opprime”
Riflettendo sulle storie di mio nonno, mi ritrovo spesso a chiedermi quando finirà la nostra lotta. Per quanto tempo questa terra, sacra a musulmani, cristiani ed ebrei, continuerà a essere intrisa di sangue?
Molte persone, soprattutto giovani palestinesi, vedono la storia sanguinosa del conflitto e si chiedono: “Come possiamo vivere con loro dopo tutto quello che ci hanno fatto?”. È un sentimento che quasi certamente sta crescendo di fronte all’attuale assalto.
Non sono molti i palestinesi che possono ricordare una vita diversa. La maggior parte di noi ha vissuto solo le ingiustizie degli ultimi 76 anni: una crisi dei rifugiati lunga decenni, l’occupazione, le guerre, l’assedio, l’apartheid, l’ingiustizia e la privazione dei diritti fondamentali. Queste forme di oppressione fanno sembrare impossibile l’idea di una riconciliazione, di una condivisione della terra o di una convivenza pacifica.
Ma è anche vero che ci sono stati piccoli momenti che hanno rivelato la possibilità di una riconciliazione, a patto che la violenza e la disuguaglianza vengano messe da parte. Mio zio, ad esempio, è un forte sostenitore della resistenza. Nonostante i suoi 66 anni, crede ancora che un giorno tornerà nella terra da cui suo padre è stato costretto a fuggire con la forza. Mi ha raccontato storie sulla Palestina degli anni ’90 e ’80, sulle città occupate e sulla Cisgiordania, dove una volta lavorava per un padrone israeliano. Gli ho chiesto come poteva lavorare in una fabbrica israeliana dopo essere stato arrestato e torturato per aver lanciato pietre contro le jeep militari israeliane – e mentre i soldati israeliani continuavano a molestarlo ai posti di blocco?
“Ho lavorato lì perché il governo israeliano esercitava una stretta sui palestinesi dal punto di vista economico, quindi dovevo guadagnare soldi e lavorare con un capo israeliano. Il nostro rapporto era quello di datore di lavoro e dipendente. Ma con i soldati israeliani era un rapporto di oppressore e oppresso”, ha spiegato. “I soldati sono occupanti; c’è una grande differenza”.
“Durante le intifade”, ha proseguito, “la maggior parte dei palestinesi che hanno combattuto contro i soldati israeliani, anche quelli disposti a sacrificarsi, lavoravano sotto padroni israeliani – perché è il soldato [a differenza del padrone] colui che uccide e opprime”.
Verso una “mentalità dell’universale”
Io stesso ho molti amici ebrei israeliani che rifiutano la politica sempre più di estrema destra del governo israeliano e la maggior parte dei quali ha lasciato il Paese. Uno di questi amici è un’ebrea britannica nata in Israele, soprannominata Gelleh, che ho conosciuto grazie al nostro lavoro presso We Are Not Numbers, un progetto che promuove la narrativa palestinese. Abbiamo parlato di quanto sia strano che noi, un’israeliana e un palestinese, ci parliamo amabilmente, mentre altrove gli israeliani commettono crimini di guerra contro i palestinesi semplicemente perché non riescono ad accettare la loro esistenza come popolo.
Gelleh e la sua famiglia hanno lasciato Israele-Palestina nel 2002 a causa della Seconda Intifada; le ho chiesto se palestinesi e israeliani avrebbero mai potuto vivere insieme sulla stessa terra. “So cosa vorrei rispondere: vorrei rispondere sì”, ha riflettuto. “Ma ora la realtà cambia la mia risposta”. Ci siamo trovati d’accordo sul fatto che, prima di poter pensare alla coesistenza, dobbiamo dare priorità alla crescita di generazioni di bambini che non subiscano traumi diretti.
Gelleh ha anche parlato dello scetticismo che gran parte della sua comunità prova di fronte alla prospettiva di una riconciliazione. “La riconciliazione non si otterrà solo attraverso un cambiamento politico, come una soluzione a uno o due stati. Da parte della mia comunità, è necessario trasformare la nostra mentalità di angustia – che ci sono poche persone al mondo che ci accettano come ebrei e solo una piccola terra dove possiamo vivere liberamente – in una mentalità di universale, cioè che l’amore e la paura che abbiamo per la nostra comunità può essere estesa a tutti coloro che sono oppressi”.
Questa trasformazione, ha detto, è un prerequisito per il cambiamento politico: “Il riconoscimento che la vera libertà arriverà solo con la libertà di tutti è una trasformazione che porterà un cambiamento sostenibile e la giustizia nella terra”.
Come attivista per i diritti umani, sono costantemente impegnato in conversazioni sulla coesistenza e la riconciliazione. Ma le azioni di Israele contro i palestinesi minano costantemente ciò che sostengo. Come posso convincere le persone di Gaza – che hanno vissuto e sono cresciute sotto il brutale assedio israeliano – a vivere insieme alle stesse persone che sono responsabili delle loro sofferenze? Come posso convincere un bambino che ha perso tutti i membri della sua famiglia ad accettare l’assassino come vicino di casa? Come posso convincere la mia generazione, umiliata e vessata dai soldati israeliani, ad accettarli come amici? Come posso convincere i giovani della Cisgiordania, uccisi dai soldati israeliani ai posti di blocco, ad accettare la coesistenza?
Abbiamo appena celebrato il 76° anniversario della Nakba, una triste pietra miliare che ha coinciso col momento in cui le forze israeliane stavano commettendo a Gaza quella che i membri del loro governo hanno definito una “seconda Nakba”. I territori palestinesi rimangono divisi e completamente controllati dall’esercito israeliano. Il muro di separazione della Cisgiordania – che si estende per 440 miglia e raggiunge un’altezza di 8 metri – penetra e confisca le terre palestinesi. Nessuno entra o esce senza il permesso di Israele.
Questa realtà equivale al rifiuto di Israele della riconciliazione e della coesistenza e fornisce terreno fertile per l’odio, il risentimento, il lavaggio del cervello e la paura dell’“altro”, che oggi si stanno intensificando. I politici israeliani lo sanno e lo sfruttano a proprio vantaggio, prolungando l’occupazione e mantenendo Israele-Palestina come uno stato a segregazione razziale che discrimina chiunque non sia ebreo.
Ebrei e palestinesi possono davvero coesistere nella Palestina storica? Questa è la domanda al centro del conflitto israelo-palestinese, la domanda che attraversa la nostra storia e il nostro presente. Nonostante i formidabili ostacoli e le divisioni radicate, esiste un percorso verso un futuro di riconciliazione pacifica? Sotto l’occupazione militare, la discriminazione, la pulizia etnica e l’apartheid, la risposta è no.
L’unico modo per raggiungere la riconciliazione è affrontare le cause profonde del conflitto. Per raggiungere una pace giusta, Israele deve aderire al diritto internazionale e alle risoluzioni delle Nazioni Unite – in particolare alla Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che chiede la fine dell’occupazione, e alla Risoluzione 194 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che riconosce il diritto al ritorno dei palestinesi. Le politiche e le azioni del governo israeliano sono la causa principale del conflitto; un’esistenza condivisa richiede la loro inversione. È l’unica strada che può condurci a una vita che assomigli ai ricordi cari ai nostri nonni – una vita di relativa pace.
Mahmoud Mushtaha è un giornalista freelance e attivista per i diritti umani con sede a Gaza.
https://www.972mag.com/israeli-palestinian-reconciliation-post-gaza
Traduzione a cura di AssoPacePalestina
Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
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