I coloni israeliani attaccano i loro vicini palestinesi

Mar 16, 2024 | Notizie

di Shane Bauer,

The New Yorker, 26 febbraio 2024. 

Con l’attenzione del mondo su Gaza, i coloni hanno usato il caos bellico come copertura per fare violenze ed espropri.

La famiglia di Bilal Saleh, ucciso mentre raccoglieva olive. Dal 7 ottobre, le Nazioni Unite hanno registrato quasi seicento attacchi da parte dei coloni in Cisgiordania. Tutte le foto sono di Tanya Habjouqa / NOOR per il New Yorker

I rumori della distruzione attraversavano la valle. Era il 28 ottobre e mi trovavo su un pendio roccioso in Cisgiordania con Bashar Ma’amar, un palestinese che registra le aggressioni dei coloni israeliani. Ma’amar puntava la telecamera su un gruppo che stava saccheggiando una casa sotto di noi. Un paio di giorni prima, i coloni avevano dato fuoco alla casa; il proprietario si era rivolto alla polizia, che però non era intervenuta. Mentre guardavamo, un colono ha preso a calci la porta d’ingresso e un altro ha cercato di penetrare attraverso le pareti carbonizzate rompendole con una tavola. Altri hanno fatto un buco nel tetto e si sono infilati dentro. Sulla collina di fronte a noi, tre soldati israeliani e un uomo con un fucile stavano a guardare. Alla fine, i coloni si sono uniti ai soldati per tornare a Eli, il loro insediamento, dove le madri spingevano i passeggini lungo isolati alberati di case dai tetti rossi, la gente giocava a tennis su campi con vista sui terreni agricoli palestinesi e uomini e donne che portavano M16 e Uzi facevano acquisti nei centri commerciali.

“Per loro, questo è il momento di attuare i loro obiettivi”, mi ha detto Ma’amar. “Ora tutta l’attenzione è rivolta a Gaza”. Ma’amar ha quarantun’anni, è alto e allampanato. Ha guidato la sua auto sgangherata fino a Qaryut, il suo villaggio di tremila persone, con vicoli tortuosi e uliveti che si estendono in ogni direzione. Qaryut, a venti miglia a nord di Ramallah, si trova nei fertili altipiani centrali della Cisgiordania, il territorio di 57 chilometri quadrati occupato da Israele nel 1967. Dopo la vittoria nella Guerra dei Sei Giorni, combattuta contro Egitto, Giordania e Siria, Israele ha conquistato un territorio che comprendeva la Cisgiordania, che la maggior parte degli israeliani chiama Giudea e Samaria. Oggi in Cisgiordania vivono circa mezzo milione di coloni, uno ogni sei palestinesi. L’Autorità Palestinese, che governa nominalmente il territorio, controlla la sicurezza – spesso con l’assistenza israeliana – solo nei centri urbani. Nel restante 82% del territorio è Israele a comandare. A Qaryut, Ma’amar gestisce una sezione della Mezzaluna Rossa e amministra scambi di messaggi tra gruppi che monitorano le azioni dei coloni e dell’esercito israeliano (IDF). È anche un volontario di B’tselem, un gruppo israeliano per i diritti umani.

Un giorno in cui ero andato a trovarlo, Ma’amar, ha ammassato sulla sua scrivania una dozzina di macchine fotografiche, vecchie videocamere mini-DV, macchine ‘inquadra e scatta’ da 35 mm, alcune rotte dai coloni. Una collezione accumulata in quasi vent’anni di attività di documentazione della violenza dei coloni e dell’invasione della terra palestinese. “Le mie macchine fotografiche sono le mie armi”, ha detto. “Probabilmente sono la persona di Qaryut che ha presentato più denunce alla polizia e alla Corte Suprema”. Ci sono stati alcuni momenti di successo. Ha aiutato un uomo a recuperare metà dei settanta ettari che i coloni gli avevano sequestrato. Nella maggior parte dei casi, però, i suoi casi non sono andati a buon fine. “Il sistema legale israeliano non funziona a favore dei palestinesi”, ha detto.

La sua ossessione per la documentazione è stata ereditata dal nonno Ahmed Odeh, che è stato per circa trent’anni sindaco di Qaryut. Ma’amar conserva atti fondiari vecchi di un secolo e mappe amministrative a brandelli, in cui si vede che gli insediamenti circostanti sono stati costruiti su terreni privati.

Quando Ma’amar è nato, nel 1982, il suo villaggio si trovava accanto a un solo insediamento, Shilo, costruito su terreni confiscati a suo nonno. Poi è stato fondato Eli quando Ma’amar aveva cinque anni, prendendo altra terra da Qaryut. Eli e Shilo, che contano quasi cinquemila abitanti ciascuno, hanno incamerato tre delle cinque sorgenti di Qaryut. Il villaggio ha dovuto acquistare l’acqua da Mekorot, la compagnia idrica nazionale di Israele.

La prima volta che Ma’amar è stato testimone della violenza dei coloni era il 1996. Fu all’indomani della prima elezione a Primo Ministro di Benjamin Netanyahu, che era intenzionato a bloccare qualsiasi progresso verso una soluzione a due stati. Shilo prese ancora più terra da Qaryut, per farne un vigneto. Il villaggio inscenò una protesta, che Ma’amar riprese in un film. L’esercito e i coloni si precipitarono sul posto, sparando colpi in aria, i coloni picchiarono le persone e cercarono di sottrarre le telecamere a chiunque stesse documentando la scena. Un tribunale israeliano stabilì che la terra dovesse essere restituita a Qaryut, ma Ma’amar racconta che i coloni continuarono ad attaccare le persone che si avvicinavano, così la terra è stata effettivamente persa.

Negli anni successivi, i coloni costruirono tende e poi case mobili sulla cima delle colline. Gli insediamenti sono per lo più considerati illegali dal diritto internazionale, ma questi avamposti erano illegali anche per la legge israeliana. Tuttavia, il governo fece ben poco per dissuadere i coloni delle colline, che si consideravano dei pionieri. Gli avamposti furono rapidamente collegati agli insediamenti più grandi da sistemi idrici, linee elettriche e strade asfaltate. Col tempo, un corridoio di insediamenti prese forma, attraversando tutta la Cisgiordania fino a quando la mappa assomigliò sempre di più a quella immaginata da molti coloni e leader politici, in cui i palestinesi avrebbero vissuto in territori piccoli e scollegati all’interno di un Israele ingrandito. Qaryut si trovava proprio nel percorso del corridoio; ora ci sono otto insediamenti ufficiali e almeno undici avamposti più piccoli nel raggio di cinque miglia dal villaggio. “Senza una pressione internazionale e legale sugli israeliani, Qaryut scomparirà”, ha detto Ma’amar.

Nel novembre 2022, Netanyahu ha vinto la rielezione per la sesta volta. Per formare una coalizione di governo, si è alleato con i leader dei partiti di estrema destra, tra cui Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, che sostengono l’annessione della Cisgiordania a Israele. Da allora, la situazione è drammaticamente peggiorata. Nei primi nove mesi del 2023, Ma’amar ha presentato una settantina di rapporti di polizia sulla violenza dei coloni. A febbraio, mentre era alla guida di un’ambulanza per raccogliere i feriti di un attacco, i coloni gli hanno spaccato i finestrini e hanno cercato di bruciare il veicolo. A giugno, uomini armati palestinesi hanno ucciso quattro coloni vicino a Eli; il giorno dopo, centinaia di coloni sono scesi a Turmus Aya, un villaggio vicino, sparando ai residenti e bruciando auto e case, alcune con persone all’interno. A settembre 2023, le Nazioni Unite avevano documentato circa tre incidenti al giorno legati ai coloni, il numero più alto da quando avevano iniziato a monitorare la tendenza, nel 2006, e 1.100 palestinesi erano stati sfollati in Cisgiordania.

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Dal 7 ottobre, quando i combattenti guidati da Hamas hanno sfondato la recinzione al confine di Gaza con Israele, uccidendo circa 1.200 persone e prendendo circa 250 ostaggi, gli attacchi nei pressi di Qaryut sono diventati una routine. I coloni hanno bruciato auto e case, bloccato strade, danneggiato reti elettriche, sequestrato terreni agricoli, interrotto linee di irrigazione, attaccato e ucciso persone nei loro campi e nei loro oliveti, tutto senza subirne conseguenze. Ma’amar mi ha detto che a Qaryut sono stati sottratti mille ettari di terreno. Le Nazioni Unite hanno registrato 573 attacchi da parte dei coloni in Cisgiordania dall’inizio della guerra, con le forze israeliane che li accompagnavano almeno la metà delle volte. Almeno 9 persone sono state uccise dai coloni e 382 dalle forze israeliane. Cinque israeliani sono stati uccisi in Cisgiordania, di cui almeno uno era un civile.

Il 9 ottobre, i coloni hanno inviato su Facebook una foto agli abitanti di Qusra, a pochi chilometri da Qaryut, di uomini mascherati che tenevano in mano asce, bastoni, una bombola di gas e una motosega, con un testo che recitava: “A tutti i topi delle fogne del villaggio di Qusra: vi stiamo aspettando e non avremo compassione per voi. Il giorno della vendetta sta arrivando”. Due giorni dopo, ai margini del villaggio, i coloni hanno dato fuoco ai pali della luce e hanno cercato di entrare in una casa. Per mezz’ora una famiglia si è rannicchiata all’interno; poi sono arrivati dei giovani del villaggio e hanno lanciato sassi contro gli israeliani. Ma’amar si è recato sul posto con la sua ambulanza. A quel punto i coloni hanno iniziato a sparare. Un uomo ha consegnato a Ma’amar una bambina di sei anni che era stata colpita. Mentre l’uomo si allontanava, è stato colpito e ucciso. Quando Ma’amar è ripartito, i coloni hanno sparato sulla sua ambulanza. Tre palestinesi sono stati uccisi, uno di loro era il figlio di un uomo che era stato ucciso dai coloni nel 2017. Poi l’esercito israeliano ha fatto irruzione nel villaggio e ha ucciso un ragazzo di tredici anni.

Il giorno dopo, Hani Odeh, il sindaco di Qusra, ha organizzato una processione per trasportare i corpi dall’ospedale al villaggio. Ma’amar ne ha portato uno nella sua ambulanza. L’IDF ha dettato il percorso, poi ha detto alle persone in lutto di cambiare strada per evitare i coloni. Ma i coloni a decine hanno bloccato la strada e preso a sassate il corteo. “Sono sceso e ho parlato con il comandante israeliano, pregandolo di far andare via i coloni”, ha raccontato Odeh. “Mi ha detto di tornare indietro”. I coloni hanno ucciso un uomo di 62 anni e suo figlio di 25 anni.

Bashar Ma’amar, attivista palestinese, filma mentre i coloni israeliani si impadroniscono di una sorgente che forniva acqua al suo villaggio di Qaryut.

“Non possono continuare a scatenare i coloni contro di noi in questo modo”, mi ha detto Odeh. “La mia generazione ha sempre cercato di far ragionare i nostri giovani, ma loro non ce la fanno più, quindi cosa devo fare? Persone come me, che hanno sostenuto la pace per tutta la vita, non sono più rispettate. Dicono: che cosa ha mai fatto Abu Mazen” –Mahmoud Abbas, il presidente dell’Autorità Palestinese– “per noi? E hanno ragione. Continua a chiedere alla gente di protestare pacificamente. Pacificamente? Non c’è nulla di pacifico nella situazione in cui ci troviamo”.

Il 29 ottobre, i coloni si sono presentati a una delle due sorgenti rimaste a Qaryut. Hanno appeso una bandiera israeliana e, alla presenza di soldati, hanno demolito uno dei grandi bacini d’acqua in cemento che gli abitanti del villaggio utilizzavano da generazioni per irrigare i campi. Poi l’esercito ha chiuso la strada di accesso da Qaryut alla sorgente. La strada separava Shilo da Eli e Ma’amar ha intuito che l’obiettivo dei coloni e dell’esercito era quello di riunire i due insediamenti.

Per le due settimane successive, i coloni sono venuti spesso alla sorgente, accompagnati da soldati. Alcuni indossavano magliette con il logo di Artzenu (“La nostra terra”), una filiale di un’organizzazione finanziata dal governo che si dedica alla coltivazione di terre in Cisgiordania prima che lo facciano “entità non ebraiche”. (Un portavoce di Artzenu ha dichiarato: “Non tutti coloro che indossano la maglietta nel tempo libero rappresentano i valori dell’organizzazione”). Un giorno, Ma’amar ha filmato due soldati in uniforme da cecchino sulla collina sopra la sorgente e giovani coloni che bruciavano pneumatici sulla strada di accesso. Un soldato, sdraiato in posizione prona con il fucile installato su un treppiede, ha mirato dritto a Ma’amar.

Quel giorno sono sceso alla sorgente con Ariel Elmaliach, il sindaco di Eli. Una decina di ragazzi e uomini stavano lavorando per trasformare uno dei bacini di cemento in una piscina. “Vieni un’altra settimana con i pantaloncini e potrai divertirti”, mi ha detto Elmaliach.

Ha chiesto al gruppo perché stavano facendo quel lavoro.

“Per avere più spazio intorno all’insediamento”, ha detto un ragazzo di circa quindici anni.

“Per la nostra patria”, ha detto Nadav Levy, un uomo barbuto di poco più di vent’anni. Ha aggiunto che non capiva perché la gente di Qaryut fosse arrabbiata per il loro progetto: “Dal mio punto di vista, tutta questa è terra nostra “.

Ory Shimon, vent’anni, ha detto di ritenere che Israele veniva criticato ingiustamente: “L’America è arrivata con le navi, ha ucciso tutti gli indiani e li ha resi schiavi. È terribile, ma ora l’America non dice: ‘Ci dispiace, riprendetevi la terra.’”

Il sindaco Elmaliach mi ha detto che non potevo fare foto, ma poi ci ha ripensato. “Facciamo un patto”, mi ha detto. “Se scrivi nei tuoi media che gli ebrei prendono un posto e poi lo migliorano, ti do il permesso di fare una foto”. Ha raccolto un paio di bottiglie gettate via e mi ha detto: “Vedi, gli arabi sono come queste”.

La sorgente, ha detto Elmaliach, apparteneva a loro, non a Qaryut. Gli ho mostrato una mappa dell’Amministrazione Civile, l’organo di governo israeliano in Cisgiordania, in cui si vedeva che la sorgente era ben al di fuori dei confini degli insediamenti. Alla fine mi ha detto: “Ti dirò come stanno le cose. Se arrivi in una nuova terra, e ora sei il proprietario di quella terra, allora metti su quella terra tutte le regole che vuoi”.

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Nel febbraio 2023, Netanyahu ha nominato Smotrich, il ministro delle Finanze e capo del Partito Sionismo Religioso, a una posizione governativa che gli ha conferito ampi poteri sugli insediamenti in Cisgiordania. Nel 2005, Smotrich fu arrestato perché faceva parte di un piccolo gruppo che era stato trovato in possesso di settecento litri di carburante. L’ex vice capo dello Shin Bet, l’agenzia di sicurezza interna israeliana, lo accusò di aver complottato per far esplodere delle auto su un’autostrada per protestare contro il ritiro di Israele dagli insediamenti a Gaza. (Smotrich negò l’accusa e non fu incriminato.) Ora Smotrich ha l’autorità di legalizzare gli avamposti non autorizzati, di impedire l’applicazione della legge contro le costruzioni ebraiche illegali, di ostacolare i progetti di sviluppo palestinesi e di assegnare terreni ai coloni.

All’epoca della nomina di Smotrich, un palestinese ha sparato e ucciso due coloni. Smotrich ha detto che l’esercito dovrebbe “colpire senza pietà le città del terrore e i suoi istigatori, usando carri armati ed elicotteri”. Israele, ha aggiunto, dovrebbe agire “in modo da trasmettere l’idea che il padrone di casa è impazzito”. Mentre l’esercito restava a guardare, centinaia di coloni si sono scatenati a Hawara, un villaggio a sud di Nablus, uccidendo una persona e ferendone un centinaio, bruciando una trentina di case e un centinaio di auto. È stata la peggiore esplosione di violenza dei coloni da decenni. (L’IDF non ha risposto a una richiesta di commento).

Smotrich, che vive in un insediamento, è diventato uno dei più importanti ideologi dei coloni. Nel 2017 ha pubblicato il suo “Piano decisivo” per il conflitto israelo-palestinese. Il primo passo, ha scritto, era quello di rendere “l’ambizione di uno stato ebraico dal fiume al mare … un fatto compiuto” “stabilendo nuove città e insediamenti in profondità nel territorio e portando centinaia di migliaia di coloni a vivere lì”. Una volta ottenuta la “vittoria per insediamento”, continuava Smotrich, i palestinesi avrebbero avuto due opzioni: rimanere in Israele, senza il diritto di voto alle elezioni nazionali, o emigrare. “Il sionismo”, ha scritto, “è stato costruito sulla base dello scambio di popolazione, ad esempio l’aliyah di massa degli ebrei dai paesi arabi e dall’Europa verso la Terra d’Israele, volenti o nolenti, e l’uscita di masse di arabi che vivevano qui, volenti o nolenti, verso le aree arabe circostanti. Questo schema storico sembra richiedere ora un coronamento conclusivo”.

I piani di espulsione risalgono al 1937, quando la Gran Bretagna propose la divisione della Palestina in due stati e il trasferimento di circa 200.000 arabi fuori dal territorio destinato allo stato ebraico. I pionieri sionisti cercarono di espandere il loro territorio costruendo insediamenti al di fuori dei confini proposti. David Ben-Gurion, il futuro Primo Ministro di Israele, scrisse in una lettera al figlio sedicenne a proposito dell’insediamento nel deserto del Negev: “Dobbiamo espellere gli arabi e prendere il loro posto”. Alla fine Ben-Gurion accettò un piano di spartizione dell’ONU che non richiedeva l’espulsione degli arabi da Gaza e dalla Cisgiordania, ma iniziò subito a prendere provvedimenti tattici per espandere il territorio. Insieme ad altri leader elaborò una strategia militare chiamata Piano Dalet, che mirava a “ottenere il controllo delle aree dello stato ebraico” e “delle aree di insediamento ebraico … situate al di fuori dei confini” attraverso “operazioni contro i centri abitati nemici”, “controllo delle posizioni nemiche in prima linea” e “distruzione dei villaggi”. In caso di resistenza con le armi, “la forza armata deve essere distrutta e la popolazione deve essere espulsa fuori dai confini dello Stato”. L’Haganah (il predecessore dell’IDF) distrusse i villaggi palestinesi e compì massacri. Trecentomila arabi furono espulsi o fuggirono prima che gli inglesi si ritirassero, nel maggio 1948. Poi Israele dichiarò l’indipendenza, l’Egitto e la Siria invasero il territorio e altri 400.000 arabi furono cacciati. Nel 1949, circa l’80% della popolazione araba era stata rimossa dal territorio rivendicato da Israele, ora più grande di quello delineato dal piano di spartizione delle Nazioni Unite, mai attuato, e centinaia di villaggi furono cancellati. I palestinesi ricordano questo evento come la Nakba, o “catastrofe”.

Il desiderio di Smotrich di rivendicare a Israele tutta la Palestina era condiviso da molte persone nel 1948, ma la sua idea che tale colonizzazione fosse un comandamento divino era marginale. Il sionismo era in gran parte un movimento laico e la maggior parte degli ebrei ortodossi lo considerava una ribellione contro Dio: se Egli aveva esiliato gli israeliti, allora solo Lui poteva stabilire quando la punizione dovesse finire. Smotrich, come un terzo dei coloni della Cisgiordania di oggi, segue gli insegnamenti di un rabbino di nome Tzvi Yehuda Kook, secondo il quale gli ebrei avrebbero dovuto svolgere un ruolo attivo per ottenere il perdono di Dio, entrando in possesso dell’intera Terra dell’Israele biblica. Creando uno stato, gli ebrei secolari –”buoni peccatori”, li chiamava– avevano involontariamente creato un trampolino di lancio per la “fondazione del trono di Dio nel mondo”. Quando Israele occupò la Cisgiordania, nel 1967, i devoti di Kook credettero che si fosse successo un miracolo.

I funzionari governativi non erano d’accordo su cosa fare della Cisgiordania. I massimalisti, come Yigal Allon, ex comandante delle forze speciali, erano stati trattenuti dal conquistare il territorio prima che venissero stabiliti i confini, nel 1949, e volevano portare a termine il lavoro; altri funzionari temevano che incorporare 900.000 palestinesi in Israele avrebbe messo in crisi la maggioranza ebraica del paese. Levi Eshkol, il Primo Ministro dell’epoca, disse: “Abbiamo una bella dote. Il problema è che insieme alla dote arriva anche la moglie”. Allon propose un compromesso: annettere le regioni meno popolate, un terzo del territorio, e restituire il resto alla Giordania. Propose di creare insediamenti finché l’annessione non fosse stata completata.

La difficoltà consisteva nel trovare persone che vi abitassero: la giovane generazione di israeliani laici non aveva la nostalgia del pionierismo che avevano i sionisti più anziani. Ma i seguaci di Kook erano più intraprendenti. Mentre il governo discuteva, i kookisti annunciarono che si sarebbero insediati a Hebron. Allon, un tempo socialista, fece causa comune con i coloni di destra, garantendo loro immediatamente dei posti di lavoro e cercando di procurare loro delle armi. Poi convinse il Gabinetto di governo a concedere l’autorizzazione all’insediamento.

I kookisti impararono una lezione importante: se avessero intrapreso un’azione diretta e trovato funzionari comprensivi, lo stato li avrebbe seguiti. Formarono un movimento, Gush Emunim, che cercò di creare insediamenti sulla dorsale montuosa densamente popolata a sud di Nablus, dove si trova Qaryut. Tuttavia, il governo, che, secondo il piano di Allon, aveva iniziato a costruire insediamenti in aree meno popolate, li sfrattò ripetutamente.

Nel 1977, il Partito Laburista, che aveva detenuto il potere fin dalla fondazione dello stato, fu sconfitto dal Partito Likud. Come il Gush Emunim, il Likud sosteneva la completa sovranità israeliana “tra il mare e il Giordano”. Il governo iniziò a costruire insediamenti in tutta la Cisgiordania, ponendoli sotto la gestione di Gush Emunim, che aveva finanziato. Lo Stato incoraggiò gli israeliani a trasferirsi, offrendo sussidi per gli alloggi, tasse sul reddito più basse e sovvenzioni statali per le imprese. All’inizio degli anni Novanta, circa 100.000 israeliani vivevano in 120 insediamenti in Cisgiordania.

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Il 28 ottobre 2023, Bilal Saleh si svegliò presto per prepararsi alla raccolta delle olive nel villaggio di al-Sawiya. Sapeva che era rischioso. Un paio di giorni prima, i contadini erano tornati dai loro uliveti nel vicino villaggio di Deir Istiya e avevano trovato sulle loro auto dei volantini che recitavano: “Avete voluto la guerra, ora aspettate la grande Nakba. … Questa è la vostra ultima possibilità di fuggire in Giordania in modo sicuro, prima che vi espelliamo con la forza dalle nostre terre sante, che ci sono state date da Dio”. Dal 7 ottobre, i messaggi nei gruppi di chat dei coloni hanno dipinto i raccoglitori di olive come agenti di Hamas sotto copertura e come nazisti. Elmaliach, il sindaco di Eli, che si trova a un chilometro e mezzo da al-Sawiya, ha inviato un foglio di raccolta firme per chiedere la “piena mobilitazione” dei suoi residenti “per opporsi agli arabi che cercano di raccogliere olive intorno ai nostri insediamenti”.

Saleh, che aveva quarant’anni, teneva per sé le sue opinioni ed evitava le proteste. Ma la terra apparteneva alla sua famiglia da generazioni. Di recente aveva lasciato il suo lavoro in un hotel di Tel Aviv e vendeva erbe per le strade di Ramallah. Senza la raccolta delle olive, si sarebbe ridotto quasi in miseria. Lui e i suoi amici e parenti scelsero un sabato per raccogliere le olive, perché era il sabato ebraico, un giorno in cui i coloni ortodossi erano probabilmente in sinagoga o a riposo.

Saleh caricò l’asino della sua famiglia e camminò con la moglie e i figli attraverso il suo villaggio, di fronte alla strada dove gli autobus per soli israeliani portavano i coloni al lavoro, fino al suo appezzamento di olivi. Dall’insediamento di Rehelim li guardavano da meno di mezzo miglio di distanza. Loro misero un telo sotto un albero e cominciarono a raccogliere.

Verso le 10:30, Sami Kafineh, un amico di Saleh, stava tornando ad al-Sawiya da Nablus. Poco prima di raggiungere il villaggio, ha visto quattro uomini, vestiti di bianco, che camminavano da Rehelim verso l’uliveto. Ha fermato la sua auto e ha gridato che i coloni si stavano avvicinando.

Le persone che si trovavano nell’uliveto mi hanno raccontato che, non appena Bilal Saleh si è reso conto dell’arrivo dei coloni, si è affrettato a mettere al sicuro la moglie e i figli, lasciando indietro ogni cosa. Mentre si avviavano verso la strada, Saleh, rendendosi conto di aver lasciato il telefono, è tornato indietro. È tornato all’uliveto e mentre prendeva il suo telefono gli hanno sparato.

L’amico Kafineh si trovava ancora sulla strada vicino a lui. Non appena ha sentito il colpo di fucile, ha iniziato a filmare. I quattro coloni si trovavano in una radura; uno aveva un M16 e camminava lungo il bordo dell’uliveto terrazzato. Il colono ha sparato di nuovo e si è allontanato. Un video mostra Saleh disteso in terra, con il petto e la bocca insanguinati.

Poi i coloni hanno riscritto la storia. In una dichiarazione, Yossi Dagan, capo del consiglio regionale dei coloni, la cui area di competenza comprende Rehelim, ha affermato che un soldato in licenza era stato “attaccato da decine di Hamasnik“. Il raccolto intorno agli insediamenti israeliani deve essere fermato, ha detto, perché “viene usato come piattaforma per il terrorismo”. I coloni hanno poi condiviso un’immagine del funerale di Saleh, in cui il fratello Hisham sventola una bandiera di Hamas. Poco dopo, la polizia israeliana ha arrestato Hisham. I sondaggi mostrano che il sostegno ad Hamas in Cisgiordania, dove l’insoddisfazione nei confronti dell’Autorità Palestinese è molto diffusa, è salito dal 12 al 44% negli ultimi mesi. Il 72% dei palestinesi intervistati ha dichiarato di ritenere “corretto” l’attacco del 7 ottobre. (Il 94% degli israeliani ritiene che l’IDF stia usando una quantità di forza appropriata o insufficiente a Gaza).

“Non abbiamo alcuna speranza”, mi ha detto Hazem Saleh, cugino di Bilal. Ha indicato alcune nuove case nel villaggio. I proprietari non vogliono certo “che siano demolite o bombardate”, ha detto. “Non chiedono di combattere, di uccidere o di fare la guerra. Ma quando hanno paura di uscire, quando non hanno il minimo standard di vita, quando si sentono oppressi, la loro reazione si trasformerà in azione”.

Hisham Saleh ha trascorso tre mesi in carcere, senza accuse, per aver sventolato la bandiera di Hamas. Il colono che ha sparato a Bilal è stato arrestato e rilasciato pochi giorni dopo. “Siamo felici che il tribunale abbia deciso fin dall’inizio che si trattava di legittima difesa”, mi ha detto il suo avvocato, Nati Rom. Il giudice aveva citato gli eventi del 7 ottobre, scrivendo: “La vigilanza a cui siamo comandati dal sangue dei nostri fratelli e sorelle caduti per la santità della terra e la difesa della patria è un vero obbligo”.

Rom ha dichiarato che, a sua conoscenza, nessun altro colono è stato accusato dopo il 7 ottobre. La violenza dei coloni è una “fake news”, ha detto.

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L’uccisore di Saleh era tornato nell’esercito, così ho fatto visita a uno dei suoi vicini, una donna di quarantasei anni di nome Reuma Harari. All’entrata di Rehelim, i soldati hanno preso il mio passaporto, poi il servizio di sicurezza mi ha scortato a casa di Harari. Il suo giardino sul retro era un idillio suburbano: un’altalena su un prato in AstroTurf, una quercia, un cagnolino; Tel Aviv era a soli quaranta minuti di distanza, con un traffico moderato. La donna mi ha offerto un posto a sedere sotto un ulivo. “Ironica coincidenza”, ha detto ridacchiando.

Harari era ansiosa di raccontarmi l’origine del suo insediamento. “Non è una storia di vittime”, ha detto. “È esattamente il contrario”. Nel 1991, i coloni erano su un autobus diretto a Tel Aviv per protestare contro i colloqui di pace in corso a Madrid. I palestinesi attaccarono l’autobus, uccidendo l’autista e una colona di Shilo di nome Rachel Drouk. Dopo il funerale di Drouk, venticinque donne montarono una tenda a lutto sul luogo dell’uccisione. Dopo tre settimane, pubblicarono il loro Manifesto Femminista. “Rimaniamo in questo luogo chiedendo di fondare un insediamento, perché questa è l’unica risposta sionista a questo omicidio criminale”, si leggeva. Sotto la protezione dell’esercito, i coloni si sono impadroniti di terreni appartenenti al villaggio di Saleh e vi hanno installato case mobili.

Due anni dopo, il Primo Ministro Yitzhak Rabin e Yasser Arafat, leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, conclusero la prima fase degli Accordi di Oslo. Israele e l’OLP si riconobbero reciprocamente e i palestinesi ottennero una limitata autonomia a Gaza e in parte della Cisgiordania, sotto l’amministrazione della neonata Autorità Palestinese. Ma le questioni più importanti – il futuro di Gerusalemme, la possibilità di ritorno dei rifugiati palestinesi, gli insediamenti e il confine – furono lasciate a un accordo finale da raggiungere entro cinque anni. Quell’accordo non è mai stato raggiunto e la speranza di una soluzione a due stati è progressivamente svanita.

Giovani coloni alla sorgente di Qaryut.

Sotto la pressione internazionale, il governo ha per lo più interrotto la costruzione di nuovi insediamenti, ma nel 1998, prima dei colloqui sullo status finale di Oslo, Ariel Sharon, allora ministro degli Esteri, esortò i coloni a occupare loro stessi il territorio. Alla radio disse che avrebbero dovuto “correre, prendere altre colline, espandere il territorio. Tutto ciò che verrà preso sarà nelle nostre mani. Tutto ciò che non prenderemo sarà nelle loro mani”. Nei nove anni successivi furono creati circa un centinaio di avamposti illegali.

Nel 2001, durante la seconda Intifada, una rivolta popolare palestinese contro l’occupazione, Harari e la sua famiglia decisero di trasferirsi da Gerusalemme a Rehelim. Si era chiesta: “Cosa posso fare per questo Paese?”. Sapeva che, ovunque vadano i coloni, “arriverà l’esercito”, ha detto. “Per me il sionismo è sognare e fare”. Quattro anni dopo, un rapporto governativo ha rivelato che l’Organizzazione Sionista Mondiale e alcuni ministeri hanno dirottato segretamente milioni di dollari verso gli avamposti dei coloni, con la collusione attiva dell’esercito e della polizia. “Sembra che la violazione della legge sia ormai istituzionalizzata”, si legge nel rapporto. Il governo aveva dichiarato che tali avamposti sarebbero stati evacuati, ma negli anni ’20 Netanyahu ha legalizzato retroattivamente molti di essi, tra cui Rehelim.

Harari ha affermato che la posizione di Rehelim nei confronti dei vicini palestinesi è sempre stata: “Se voi vivete in pace e tranquillità, noi vivremo in pace e tranquillità”.

Quando ho menzionato i vari attacchi perpetrati dagli abitanti del suo insediamento nel corso degli anni, Harari ha risposto facendo esempi di coloni uccisi in altre parti della Cisgiordania, oppure parlando del 7 ottobre. “I miei vicini, se ne hanno la possibilità, verranno a massacrarmi nel mio letto”, ha detto. Ha paragonato gli attacchi di Hamas ad Auschwitz, ma ha anche detto che le hanno portato un “briciolo di gioia”, perché “ora abbiamo riconquistato la nostra unità. Ora è di nuovo come il ’48”.

Harari può capire perché i palestinesi provino risentimento nei confronti dei coloni. “Israele è un territorio occupato dal fiume al mare”, ha detto. “Se io fossi palestinese”, ha proseguito, “probabilmente penserei che gli ebrei non dovrebbero essere qui e che dovrebbero andarsene”. A volte si chiede: “Ne vale la pena? I bambini soffrono? È normale?”. Poi si è ripresa. “Non stiamo andando da nessuna parte”, ha detto. ‘Patria’ non è solo un modo di dire”.

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A dieci miglia a est di Rehelim, gli uliveti e gli affollati insediamenti e villaggi palestinesi lasciano il posto alla distesa color caramello della Valle del Giordano. La valle si estende per 10 km in larghezza, dal fiume Giordano alle colline dell’altopiano centrale, e per 80 km in lunghezza, dal Mar Morto alla città israeliana di Beit She’an. Israele ha puntato all’annessione della regione fin dal piano Allon del 1967. Scarsamente popolata, costituisce circa un quarto della superficie della Cisgiordania. Dal 2012, Israele sta costruendo quello che Dror Etkes, un’autorità in materia di insediamenti, ha definito il suo “progetto infrastrutturale più grande e costoso” in Cisgiordania, convogliando l’acqua da Gerusalemme alle piantagioni di datteri dei coloni in tutta la valle. “Stanno costruendo un progetto che costa una fortuna”, ha detto Etkes. “Dal loro punto di vista, rimarranno qui per sempre”. A ogni famiglia ebrea che si trasferisce nella Valle del Giordano vengono concessi 8 ettari di terreno agricolo.

I residenti degli oltre venti insediamenti della valle sono un mix di ebrei ortodossi e discendenti laici dei primi coloni del Partito Laburista. Nell’”insediamento ecologico” di Rotem, le aziende offrono agopuntura, cosmetici naturali e “terapia olistica”. La gente vive in yurte, edifici fatti di canapa e veicoli riconvertiti. Un giorno mi sono seduta sotto un tetto di paglia in un caffè dove cameriere scalze servivano pasti vegani. Tuttavia, come in altre parti della Cisgiordania, la violenza è intessuta nel tessuto della vita. Una famiglia ha posato per una fotografia guardando la valle, con l’uomo che alzava in aria un M16. Sul fondo della valle si trovava una piccola comunità di pastori palestinesi. Di recente i coloni di Rotem si erano presentati di notte, chiedendo ai palestinesi di evacuare.

Molti dei 65.000 palestinesi della Valle del Giordano sono i discendenti dei beduini fuggiti dall’attuale Israele nel 1948. Israele ha a lungo limitato il loro accesso all’acqua e demolito i loro edifici. Nei cinque mesi precedenti il 7 ottobre, centinaia di palestinesi, residenti in tre comunità, sono andati via. Il loro esodo è stato spinto da un tipo di colono relativamente nuovo: il pastore ebreo ortodosso.

Nella parte settentrionale della valle, ho incontrato Moshe e Moriah Sharvit, il cui allevamento di pecore funge da bed-and-breakfast, con offerte che includono tende in stile beduino con aria condizionata e conferenze sul “sionismo, l’importanza di insediarsi nelle fattorie e la confisca della terra”.

Moriah, che ha ventotto anni, indossava un abito stampato a margherite e un foulard verde scuro, e aveva un neonato biondo legato alla sua schiena. Le montagne si ergevano a ovest e all’orizzonte orientale, oltre i villaggi palestinesi, si delineavano debolmente gli altopiani del Giordano. Tutto questo, credeva, le era stato dato da Dio.

Moriah è nata nel New Jersey ed è cresciuta negli insediamenti della Cisgiordania. Dopo essersi sposati, a diciannove anni, lei e Moshe volevano una vita diversa. Gli insediamenti, con le loro recinzioni, le telecamere e la sicurezza, erano come “ghetti”, ha detto Moriah. Mi ha invitato a entrare nella loro casa mobile. Un paio di M16 giacevano su una stufa a legna. Moshe, un uomo dalla pelle olivastra con una corta barba nera, mangiava in cucina. L’ho riconosciuto. Gli attivisti israeliani contro l’occupazione lo avevano documentato mentre disperdeva le pecore dei palestinesi con il suo fuoristrada, mandando i suoi cani a inseguirle e seguendole poi con un drone.

Moshe aveva una vigna e un uliveto, mi ha detto Moriah, ma questo non gli permetteva di controllare molta terra, così si è dedicato alla pastorizia. “Quando hai delle pecore, vai qui, vai là, ovunque ci sia del terreno in cui pascolare”, mi ha detto. “Puoi proteggere più terra”.

Moriah e Moshe hanno creato l’avamposto nel 2020. “Non è che abbiamo comprato la terra da qualcuno”, ha detto. “Non ci appartiene”. Eppure ha descritto la loro missione come una prevenzione del furto di terra. Ha indicato da una finestra alcune case coloniche palestinesi a mezzo miglio di distanza. “Tutte quelle case che si vedono laggiù sono di arabi che sono venuti dall’Area A all’Area C e hanno rubato la terra”, ha detto. “Se ora non fossimo qui, qui ci sarebbero loro “.

Gli accordi di Oslo hanno suddiviso la Cisgiordania in tre Aree, A, B e C. Le città palestinesi sono state designate come Area A e poste sotto il pieno controllo dell’Autorità Palestinese. I villaggi principali – l’Area B – sono stati lasciati sotto l’amministrazione civile palestinese, con Israele responsabile della sicurezza. Insieme, le Aree A e B costituiscono il quaranta per cento della Cisgiordania, ma sono suddivise in 165 isole. Il mare in cui galleggiano – l’Area C – rimane sotto il pieno controllo israeliano e comprende non solo gli insediamenti ma anche la maggior parte dei terreni agricoli della Cisgiordania. Gli accordi dicevano che l’Area C, che oggi ospita 500.000 coloni e circa 300.000 palestinesi, doveva essere “gradualmente trasferita alla giurisdizione palestinese”, ma Israele l’ha sempre trattata come propria.

Israele richiede ai palestinesi di ottenere un permesso per qualsiasi nuova costruzione nell’Area C, ma respinge il 98% delle richieste. Le strutture non autorizzate vengono regolarmente demolite dall’esercito, ma i coloni ritengono che il governo non faccia abbastanza. Regavim, un’organizzazione co-fondata da Bezalel Smotrich, scatta due volte l’anno fotografie aeree della Cisgiordania per identificare le strutture non autorizzate e fa causa al governo se non le demolisce. Naomi Kahn, direttore internazionale di Regavim, mi ha detto: “L’Area C dovrebbe essere annessa”. Un sondaggio del 2020 ha mostrato che la metà degli israeliani è favorevole a questa idea.

La strategia della pastorizia ha iniziato a prendere piede intorno al 2018, sostenuta da un’organizzazione di coloni chiamata Amana. In una conferenza del 2021 intitolata “La battaglia per le terre dello stato”, il segretario generale di Amana, Ze’ev Hever, membro condannato dell’organizzazione terroristica Jewish Underground, ha spiegato che gli insediamenti tradizionali sono stati un modo inefficiente per appropriarsi della terra. “Ci sono voluti più di cinquant’anni per ottenere 100 chilometri quadrati”, ha detto. Gli allevamenti di pecore, invece, controllano “più del doppio dell’area in cui sono costruiti gli insediamenti “.

Avi Naim, ex direttrice generale del Ministero degli Affari degli Insediamenti, ha affermato che gli avamposti di pastorizia aiutano a “prevenire le invasioni palestinesi” dell’Area C: “Si prendono persone che credono in questo obiettivo come missione pionieristica, e si lascia che siano loro a guidare il lavoro per mantenere il controllo delle riserve di terra”. Secondo Dror Etkes, oggi ci sono circa 90 avamposti di pastorizia in Cisgiordania. Egli ha stimato che insieme controllano circa 350 km quadrati, circa il 10% dell’Area C.

Tutti gli avamposti di questo tipo sono considerati illegali dalla legge israeliana, ma Moriah ha detto che lei e Moshe hanno ricevuto molta assistenza dallo Stato. Hanno avuto “una miriade di incontri”, ha detto, con l’Amministrazione Civile, l’Esercito, il Consiglio Regionale della Valle del Giordano e altri enti governativi. Amana li ha collegati all’acqua corrente.

“Moriah!” ha gridato Moshe dalla cucina. Le ha detto di stare attenta a ciò che diceva.

Prima delle elezioni del 2019, Netanyahu ha annunciato un piano di annessione del 22% della Cisgiordania, la maggior parte della quale si trova nell’Area C, compresa quasi tutta la Valle del Giordano. Gli Sharvit hanno stabilito il loro avamposto all’interno dell’area destinata all’annessione, che non è ancora avvenuta.

“Credo che tutto sia nostro, ma c’è la legge”, ha detto Moriah. “Seguiamo la legge, quello che ci è permesso e quello che non ci è permesso”. Gli edifici del loro avamposto sono stati oggetto di ordini di demolizione da due anni, ma Moriah ha detto che nessuno ha fatto loro pressione per andarsene: “Israele capisce: o noi stiamo qui o la terra ci verrà tolta”.

Sulla parete del soggiorno, un monitor mostrava le riprese in diretta delle telecamere che sorvegliano l’area circostante. La loro fattoria funge da “occhi” per l’esercito, mi ha detto Moriah. “Possiamo riferire di edifici illegali, di caccia illegale … Lavoriamo insieme”. Sullo schermo, l’angolazione di una delle telecamere cambiava; Moriah ha detto che, come le telecamere di altri avamposti nella valle, era controllata da un soldato in un centro di comando.

Dopo il 7 ottobre, un’unità dell’esercito è rimasta nel loro avamposto per un mese. Moriah ha raccontato che l’esercito ha detto loro che ogni avamposto di pastorizia aveva bisogno di almeno tre fucili lunghi, così le ha dato un M16. “Li stanno distribuendo come matti”, ha detto. L’esercito ha distribuito circa 7.000 armi ai coloni dal 7 ottobre, oltre alle 10.000 che il Ministero della Sicurezza Nazionale ha ordinato di distribuire agli ebrei in tutto Israele e in Cisgiordania. Come altri 55 coloni, Moshe e suo fratello David sono stati arruolati nei battaglioni di “difesa regionale” dell’esercito, i cui ranghi sono quintuplicati dall’inizio della guerra.

Moriah ha detto che il loro problema non era solo con Hamas, ma con i palestinesi in generale. Non sono “persone normali”, ha detto. La violenza è nel “loro DNA”. Gli attacchi del 7 ottobre sono avvenuti perché gli israeliani “sono stati troppo gentili”, ha detto. “Penso che dobbiamo fare quello che dobbiamo fare per fermare tutto questo. Penso che dobbiamo dare un’alternativa agli arabi che vivono qui. … C’è la Giordania, c’è l’Egitto, c’è la Siria”.

Moriah mi ha portato in auto lungo una strada sterrata fino al terreno sottostante l’avamposto, dove i palestinesi coltivano grano e patate. Mi ha indicato alcune case. “Questa qui è tutta in area C”, mi ha detto. (Secondo le mappe dell’Amministrazione Civile, la maggior parte delle case si trova nell’Area B) Poco dopo il 7 ottobre, ha detto, è successa una cosa curiosa: “Abbiamo visto che tutti se ne andavano”. Ha continuato a guidare lungo la strada sterrata. “Se ne sono andati”, ha detto. “Se ne sono andati tutti”.

***

Cinque giorni dopo, ho parlato con David Elhayani, il governatore del Consiglio Regionale della Valle del Giordano. In Cisgiordania ci sono sei consigli eletti di questo tipo che forniscono servizi ai coloni. Pur essendo fuori da Israele, sono sotto l’autorità del Ministero degli Interni.

Elhayani ritiene che Netanyahu non sia stato abbastanza deciso nell’annessione del territorio. “Non abbiamo più una leadership in questo Paese”, mi ha detto Elhayani. Se l’annessione venisse messa ai voti, ha detto, è sicuro che i due terzi della Knesset l’approverebbero.

Nel frattempo, era grato che pastori coloni come Moshe Sharvit si stessero “prendendo cura dell’area”. Quando gli ho chiesto perché gli ordini di demolizione della proprietà degli Sharvit non fossero stati eseguiti, mi ha risposto: “Non è compito mio”.

Elhayani ha detto che, se potesse rivendicare un territorio per Israele, lo farebbe, “anche se non è legale”. Ha aggiunto: “La lotta del 1948 è la stessa lotta [oggi] in tutta la Giudea e Samaria” – la lotta per la terra. “Sapete cos’è l’homa u’migdal?”, ha chiesto.

Significa “muro e torre”. Durante la dominazione britannica, il governo limitava la creazione di insediamenti ebraici, ma durante la rivolta araba del 1936-39 ne furono fondati più di cinquanta, allo scopo di appropriarsi di territorio per un futuro stato. Gli inglesi li lasciarono in piedi, in virtù di una legge ottomana che prevedeva che le autorità non potessero demolire una struttura una volta costruito il tetto. I sionisti “arrivarono di notte, costruirono un muro, una torre e dissero: “Siamo qui”, ha detto Elhayani. Gli avamposti di pastorizia, ha osservato, “sono la stessa cosa”.

Ho detto a Elhayani che ero andato con alcuni palestinesi nelle loro case ormai vuote, vicino all’avamposto degli Sharvit. Un uomo anziano mi ha detto che, pochi giorni dopo il 7 ottobre, Moshe lo aveva picchiato, aveva saccheggiato la sua casa e gli aveva detto di andarsene. Altri hanno detto che aveva minacciato di ucciderli. (Moriah Sharvit ha detto: “Nessuno in questa fattoria ha commesso alcun reato”) Dodici famiglie sono state evacuate.

“Stanno mentendo”, ha detto Elhayani.

“Posso portarti subito in quelle case”, dissi.

“Non ti credo”.

“Ti posso far vedere”.

“Non voglio che tu me lo faccia vedere”.

Il giorno successivo, la fotografa Tanya Habjouqa e io ci siamo recati a Wadi al-Seeq, una comunità recentemente spopolata sulle colline sopra la Valle del Giordano. Il sole tramontava lentamente, illuminando gli scheletri delle baracche ammassate nella valle poco profonda. Quaranta famiglie vivevano qui dagli anni Novanta, ma le ultime erano fuggite un mese prima. All’interno di una scuola, i banchi rovesciati giacevano sul pavimento; le lezioni erano rimaste sulle lavagne.

Mentre percorrevamo una strada sterrata, un pick-up ci ha bloccato il passaggio. Ne è uscito un uomo abbronzato con una lunga barba bruna e i capelli a spazzola. Era Neria Ben-Pazi, un pastore colono che presiedeva una manciata di avamposti e aveva organizzato l’espulsione delle famiglie palestinesi. Ho cercato più volte di intervistare Ben-Pazi, ma non mi ha mai risposto. Quando appaiono i pastori coloni, i loro amici sono spesso vicini, così ho girato la macchina e siamo andati via.

Ben-Pazi è cresciuto a Kohav HaShahar, sei miglia a nord di Wadi al-Seeq. Nel 2015 aveva fondato nelle vicinanze un robusto avamposto chiamato Baladim. Lo Shin Bet lo considerava un centro di terrorismo; alcuni dei suoi residenti si dedicavano alla caduta dello Stato di Israele e alla sua sostituzione con il Regno di Giudea. Almeno due di loro sono stati condannati per crimini d’odio legati a incendi dolosi, tra cui l’incendio di una casa palestinese, nel 2015, che ha ucciso un bambino di diciotto mesi e i suoi genitori. Dopo quell’attacco, Baladim è stata evacuata dall’esercito. Ben-Pazi è stato arrestato per aver fondato l’avamposto in una zona militare, ma è stato presto rilasciato. Poi l’accampamento è stato ristabilito.

Nel 2019, dopo che Netanyahu ha annunciato il suo piano di annessione di parte della Cisgiordania, il rapporto di Ben-Pazi con il governo è cambiato. Nel giro di poche settimane, ha fondato un nuovo avamposto di pastorizia fuori Rimonim, un insediamento laico che probabilmente rientrava nell’area destinata all’annessione. Un documento dell’Amministrazione Civile mostra che a Ben-Pazi è stato assegnato un terreno di 55 ettari. Il Ministero dell’Agricoltura gli ha anche concesso dei fondi per pagare le persone che avrebbero dovuto sorvegliare l’avamposto. In breve tempo, Ben-Pazi e i suoi uomini avevano conquistato 500 ettari di terra palestinese. Secondo una pubblicazione dei coloni, alti ufficiali dell’IDF e personalità politiche, tra cui Yoav Gallant, il ministro della Difesa, visitavano regolarmente la sua fattoria.

Uno dei gestori di Rimonim, un uomo laico tatuato e motociclista di nome Oz Shraibom, mi ha detto: “Quei fanatici religiosi sono pazzi. Vengono per combattere”. Dal 7 ottobre, “ci sono persone che pensano che questo sia il momento di far accadere tutto”. Ma, ha aggiunto, “stanno almeno tenendo lontani gli arabi. E questo è davvero conveniente per me”.

Ben-Pazi aveva fondato il suo avamposto di Wadi al-Seeq nel febbraio 2023, subito dopo che Netanyahu aveva dato a Smotrich la giurisdizione sull’Amministrazione Civile e sui coloni della Cisgiordania. Quasi immediatamente, i giovani coloni hanno iniziato a far pascolare il loro bestiame nei campi palestinesi. In breve tempo, quasi tutti i pozzi di Wadi al-Seeq erano nelle mani dei coloni, per cui i palestinesi dovevano trasportare l’acqua da altre fonti. Non potendo accedere ai loro terreni agricoli in modo sicuro, hanno smesso di piantare. Non potevano più far pascolare i loro animali nella maggior parte delle colline circostanti, quindi dovevano comprare il mangime. Alcune famiglie se ne sono andate.

Un uomo che chiamerò Suheil, la cui casa si trovava a poche centinaia di metri dall’avamposto, mi ha detto che i coloni avevano iniziato a passare da casa sua di notte. Uno è apparso sulla porta di casa una mattina presto e ha guardato lui e la sua famiglia mentre dormivano. Ad agosto, i coloni vicini al villaggio hanno cercato di rubare le pecore di due giovani. Gli uomini del villaggio sono accorsi per difenderli e ne è nata una lotta. Sono arrivati decine di poliziotti e soldati che hanno confiscato tre auto e arrestato tre palestinesi.

La scuola di Wadi al-Seeq, dove fino a poco tempo fa vivevano una quarantina di famiglie palestinesi.

Quel giorno, sui social media è circolato un video in cui Suheil implorava Ben-Pazi. Un canale WhatsApp dei coloni ha ripostato il video, definendolo “l’ultimo sussulto” della comunità palestinese e facendo riferimento in modo criptico all’”effetto Deir Yassin”. (Deir Yassin è stato il luogo del più famoso massacro di palestinesi nel 1948; per molti rappresenta l’uso della violenza per istigare un esodo più ampio). Gli arabi di Wadi al-Seeq, secondo il canale WhatsApp, sono stati “costretti a lasciare i loro accampamenti perché non possono resistere agli ebrei”.

Le famiglie rimaste a Wadi al-Seeq hanno chiesto ad attivisti israeliani di rimanere nel villaggio, sperando che la loro presenza possa scoraggiare i coloni. La Commissione di Resistenza al Muro e agli Insediamenti dell’Autorità Palestinese ha organizzato anche dei volontari palestinesi per rimanere. Il responsabile era Mohammed Matar, meglio conosciuto come Abu Hassan, un attivista quarantaseienne diventato funzionario con una lunga storia di disobbedienza civile contro le forze di occupazione.

Dopo il 7 ottobre, i coloni hanno iniziato ad attraversare Wadi al-Seeq più spesso, ora vestiti in uniforme e con fucili d’assalto. Hanno istituito posti di blocco improvvisati all’ingresso del villaggio, picchiato le persone, rubato i loro telefoni e visitato le famiglie nelle loro case di notte.

La maggior parte degli abitanti del villaggio ha deciso che non poteva restare. Il 12 ottobre hanno iniziato a caricare sui camion materassi, abbeveratoi per le pecore e i tetti di latta delle loro case. Quella mattina sono arrivati sei pick-up di coloni. Abu Hassan, il suo collega Mohammed Khaled, cinque attivisti israeliani e alcuni abitanti del villaggio sono rimasti fermi e hanno chiamato l’esercito per chiedere aiuto. I coloni hanno legato Abu Hassan e Khaled e hanno iniziato a picchiarli. A un certo punto, hanno ricordato i due uomini, è arrivato un ufficiale dell’Amministrazione Civile. Dopo aver parlato con i coloni, ha fatto l’atto di andarsene.

“Dove stai andando?” ha chiesto Abu Hassan.

“Questi uomini sono dell’esercito”, ha detto l’ufficiale, indicando gli uomini che li avevano picchiati.

Tre attivisti israeliani erano nascosti con una famiglia palestinese in una baracca parzialmente smantellata. Hanno visto Ben-Pazi parlare urgentemente al telefono; poi è arrivato un furgone dell’esercito. Sono emersi i soldati dell’unità Desert Frontier, in gran parte giovani reclutati negli avamposti dei pastori.

Dopo che gli attivisti sono comparsi, un soldato ha dato un pugno in faccia a uno di loro; sono stati legati con fascette di plastica e sono stati portati via i loro telefoni e le loro macchine fotografiche. “Perché non siete a Gaza?”, ha gridato un altro soldato. “Siete in arresto per aver aiutato il nemico durante la guerra”. I soldati li hanno lasciati in un’altra baracca, sorvegliata da coloni, e si sono diretti verso il luogo in cui erano detenuti Abu Hassan e Mohammed Khaled.

Mentre Abu Hassan era sdraiato a faccia in giù, uno dei coloni lo ha tirato su per i capelli. “Ti ricordi di me?”, gli ha chiesto. “Sono il pastore di Biddya, vicino a Salfit. Un paio di mesi fa avete inscenato una protesta lì”.

“Non ero io”, ha detto Abu Hassan.

In seguito ha identificato l’uomo come Eden Levi, che stava creando una catena di avamposti per la pastorizia con l’obiettivo, ha dichiarato l’estate scorsa a una pubblicazione dei coloni, di “creare un’importante continuità territoriale nell’intera regione della Samaria occidentale”. Lo scorso febbraio, i media arabi hanno pubblicato una fotografia di Levi, riferendo che i residenti nei pressi dei suoi avamposti avevano detto che aveva sparato e ucciso un ventisettenne palestinese. (Secondo Haaretz, la polizia israeliana non ha interrogato alcun testimone.

Abu Hassan e Khaled hanno raccontato di essere stati torturati per ore: picchiati con bastoni, bruciati con sigarette, aggrediti sessualmente, urinati addosso, costretti a mangiare sterco di pecora. Qualcuno ha scattato una foto di loro, spogliati fino alla biancheria intima, che è stata pubblicata su Facebook. “I terroristi hanno cercato di infiltrarsi nella fattoria Ben-Pazi vicino a Kochav Hashachar”, si legge nel post. “Le nostre forze hanno catturato i terroristi”. Hanno trascorso due giorni in ospedale.

Poco dopo lo spopolamento di Wadi al-Seeq, è stata costruita una nuova strada sterrata per l’avamposto di Ben-Pazi. La polizia israeliana non ha interrogato nessuno dei palestinesi o degli attivisti israeliani presenti. Eden Levi ha poi fatto un’altra incursione nei pressi del suo avamposto, durante la quale i coloni hanno bruciato auto e sparato ai palestinesi, uccidendone uno.

***

Il 5 dicembre, il Dipartimento di Stato americano ha annunciato l’imposizione di restrizioni sui visti per i “coloni estremisti” che hanno commesso atti di violenza o hanno limitato l’accesso dei civili ai beni di prima necessità. L’IDF ha emesso un’ordinanza restrittiva che impedisce a Ben-Pazi di entrare in Cisgiordania, ad eccezione dell’insediamento di Ariel, per tre mesi. In un appello, il suo avvocato, Nati Rom, ha scritto che “gli ampi legami di Ben-Pazi con le forze di sicurezza sono la prova migliore che l’ordinanza restrittiva non può essere emessa”.

In apparente spregio all’ordine, Ben-Pazi ha ospitato per Hanukkah rabbini anziani e centinaia di fedeli nel suo avamposto di Wadi al-Seeq. Amichai Eliyahu, ministro del Patrimonio, che un mese prima aveva detto che il governo avrebbe dovuto prendere in considerazione l’idea di lanciare una bomba nucleare su Gaza, ha trascorso la notte nell’avamposto. (Ha poi affermato che il suo discorso era “metaforico”). Ben-Pazi, ha twittato Eliyahu, era “la prima linea di difesa contro il nemico”.

Il 1° febbraio, il Presidente Biden ha ordinato sanzioni finanziarie contro quattro coloni israeliani. Abu Hassan ha affermato che la pressione politica è importante, ma che le sanzioni dovrebbero “includere le istituzioni politiche e finanziarie che sostengono [i coloni], così come i capi della polizia e gli ufficiali dell’esercito che cospirano con loro”.

A fine dicembre, Moshe Feiglin, presidente del partito di estrema destra Zehut, ha visitato la fattoria di Ben-Pazi. “Quindi lei è il mostro violento che è riuscito a scacciare una moltitudine di arabi?”, gli ha chiesto. Feiglin si è guardato intorno, osservando il paesaggio. “Siete seduti qui su un’area che è tre volte la superficie comunale di Tel Aviv”.

“Alla fine, è il legame con la terra”, ha detto Ben-Pazi. “Se vogliamo la terra, la otterremo”.

Shane Bauer, autrice di “American Prison“, sta lavorando a un libro sugli americani nella guerra siriana.

https://www.newyorker.com/magazine/2024/03/04/israel-west-bank-settlers-attacks-palestinians

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