Oggi 25 febbraio sono esattamente 30 anni dal massacro alla Moschea di Abramo di Hebron, dove un estremista ebreo uccise 29 palestinesi nel 1994.

di AssopacePalestina,

25 febbraio 2025. 

Questa è un’occasione per ricordare le tragiche condizioni di apartheid e oppressione in cui si trovano oggi gli abitanti palestinesi di Hebron, come esemplificato dallo squallore di quella che era una delle più vivaci strade della città: Shuhada Street.

La campagna “Open Shuhada Street” nasce in solidarietà alla resistenza popolare nonviolenta palestinese ad Hebron, la città più grande della Cisgiordania, ad oggi divisa in due zone, H-1 e H-2, sotto controllo rispettivamente dell’Autorità Nazionale Palestinese e dell’esercito israeliano.

La campagna si svolge ogni anno nei giorni a cavallo tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo per ricordare l’evento che portò alla divisione in due della città, consumato proprio nel suindicato periodo: il 25 febbraio 1994 Baruck Goldstein, un ebreo estremista originario di Brooklyn, irruppe nella Moschea di Abramo con un fucile d’assalto sparando e provocando la morte di 29 palestinesi raccolti in preghiera durante il Ramadan e ferendone altri 125. A fine giornata le vittime totali erano 60: altri 26 palestinesi vennero uccisi dall’esercito israeliano, 5 israeliani furono uccisi dalla folla, così come lo stesso Goldstein, colpito da un palestinese con un estintore mentre continuava a sparare nella moschea.

Il sangue delle vittime del massacro alla Moschea di Abramo, Hebron 25 febbraio 1994.

Dopo questo evento, modificando gli accordi di Oslo che prevedevano Hebron città amministrata dall’Autorità Palestinese, Israele e OLP diedero vita nel 1997 al “Protocollo di Hebron”, che sanciva di fatto la divisione della città in due aree: H-1, avente un’estensione di 18 km2 e  una popolazione di circa 115.000 residenti palestinesi, controllata ufficialmente dall’Autorità Nazionale  Palestinese, ed H2, un  territorio di 4,3 km2 comprendenti oltre il 20% della superficie urbana totale compresa la città vecchia, sotto il diretto controllo israeliano.

La strategia israeliana ad Hebron segue regole di apartheid e chiusura a danno dei palestinesi ben precise: H-2 infatti comprende tutti i nodi nevralgici della città: la Città Vecchia, ospitante la Tomba dei Patriarchi, luogo sacro per tutte e tre le religioni monoteiste e ad oggi divisa in due – una parte moschea e l’altra sinagoga – il centro commerciale cittadino, l’arteria di traffico Nord-Sud.

In tale zona circa 800 coloni israeliani vivono in mezzo a circa 40mila palestinesi, e la forte presenza dell’esercito (in un rapporto di 4 soldati per colono) ha trasformato Hebron in una città di fatto militarizzata e, con il passare del tempo, “fantasma”.

Gli attacchi e le molestie di coloni e soldati nei confronti dei palestinesi sono sempre più persistenti: peculiare il caso dei checkpoint, 17 dei quali sono posti lungo i confini dell’area H-2, mentre altri 14 non sono fissi.

Qui spesso i palestinesi vengono trattenuti anche per diverse ore e il fermo è in genere giustificato da “motivi di sicurezza”; durante tal lasso temporale si può essere soggetti a umiliazioni fisiche e verbali, come ad esempio il caso in cui viene chiesto dai soldati di spogliarsi per strada prima di ottenere il permesso per passare.

Spesso si viene arrestati, compresi i bambini, e innumerevoli sono le esecuzioni sommarie di palestinesi da parte dell’esercito.

Negli anni sono moltiplicati gli attacchi dei coloni, gli investimenti in strada, i roghi di ulivi, i lanci di spazzatura dai piani alti delle abitazioni, che i coloni sono andati ad occupare.

Ad oggi gli insediamenti coloniali nel cuore della città sono quattro: Beit Hadassah al-Babbuya, Beit Romano, Avraham Avinu e Tel Rumeida. Quanto più ci si avvicina ad essi, tanto più è palpabile e ingombrante la presenza dei soldati dell’IDF: la condotta dei coloni è in realtà responsabilità della polizia, ma questa spesso decide di non intervenire durante i loro violenti attacchi, per complicità con i coloni. I soldati, nelle regole d’ingaggio, non possono fermare i coloni che commettono atti di aggressione, in quanto sono lì a loro protezione.

Shuhada Street è diventata il simbolo di questa dolorosa e ingiusta occupazione: un tempo cuore del commercio cittadino, suolo sul quale moltissimi palestinesi esercitavano la professione del venditore ambulante o avevano negozi, ad oggi la strada è un vialone deserto con pesanti lucchetti affissi ad ogni porta sbarrata delle attività, apposti dall’esercito.

Molti palestinesi sono stati costretti a chiudere e ad andarsene dopo i pesanti e continui attacchi e intimidazioni dei coloni ma anche dal fatto che la popolazione dell’area H-1, per non subire il passaggio dai check point e i pericoli di aggressione, non si reca più nella città vecchia dove solo pochissimi coraggiosi negozianti tengono aperti i negozi. Ai palestinesi viene anche impedito l’ingresso alle proprie case che si trovano lungo questa strada, per cui si è iniziato a usare porte secondarie e buchi nei muri che collegano una casa all’altra e così via.

Emblematico il balcone di un’abitazione che dà su questa strada, contornato da una rete che lo fa sembrare una gabbia.

Un’abitazione a Shuhada Street, Hebron.

Shuhada Street ad oggi è un nodo strategico troppo prezioso per gli israeliani, perché di fatto collega tutte e quattro le colonie presenti in città e rende facile raggiungere anche Quiryat Arba, colonia poco distante dalla città che ad oggi ospita circa altri 7500 coloni israeliani.

La strategia israeliana qui gioca quindi anche sul piano psicologico, facendo sentire l’altro “distante”, in una diversità che non si incastra in alcun profilo di integrazione, anzi: la sensazione di “paura verso l’altro” e disprezzo verso quest’ultimo è tramandata dai coloni ai propri figli di generazione in generazione; non capita di rado di vedere giovani famiglie recarsi in sinagoga con kalashnikov dietro le spalle, pronti a sparare, aprire il fuoco su palestinesi inermi che, pacificamente e seguendo con estrema dignità il concetto di “resilienza” continuano a resistere su quella che è la propria terra, a difendere le proprie strade, le proprie case, a far sentire la loro voce.

Ci sono giovani che combattono l’occupazione in città, riuniti nell’associazione YAS (Young Against Settlements) con la quale AssopacePalestina condivide l’iniziativa della Campagna Open Shuhada Street. L’associazione che ha sede nella zona H-2, difende e racconta attraverso i video e le foto la storia quotidiana di una vita sotto occupazione, vissuta con dignità e tanta speranza: quella che spinge i palestinesi a proseguire la loro lotta ogni giorno, a non abbandonare la città, a regalare sorrisi a chiunque metta piede ad Hebron per la prima volta.

Ed è proprio questa loro speranza, questa loro forza di volontà che spinge noi a continuare, a portare avanti questa campagna per far giungere alle orecchie di tutti la loro storia, per dire “basta” a un’occupazione e colonizzazione sempre più illegale, violenta e disumana. 

Per ulteriori informazioni, potete consultare il seguente riassunto:

HEBRON,
città fantasma

Un opuscolo realizzato da:
Youth Against Settlements e KURVE Wurstrow
Traduzione italiana a cura di: AssopacePalestina

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