Parlare di colonialismo d’insediamento non è una “moda accademica”.

Feb 6, 2024 | Notizie, Riflessioni

di Somdeep Sen,

Al Jazeera, 6 febbraio 2024. 

È un progetto politico reale che ha segnato il passato e il presente delle comunità indigene di tutto il mondo.

Soldati israeliani lavorano su veicoli militari blindati vicino alla Striscia di Gaza, lunedì 20 novembre 2023 [AP Photo/Ohad Zwigenberg].

Gli attivisti per la solidarietà con la Palestina hanno rivendicato il loro spazio nella politica mainstream e hanno chiesto lo smantellamento del progetto d’insediamento coloniale israeliano. Ma questo ha sollevato una domanda molto elementare: “Che cos’è il colonialismo d’insediamento?”.

Alcuni commentatori si sono affrettati a liquidare l’accusa di colonialismo d’insediamento contro Israele come “solo un’altra forma di antisemitismo”. Altri hanno insinuato che il “colonialismo d’insediamento” non è altro che una teoria accademica alla moda evocata da accademici e attivisti di sinistra.

Ma il colonialismo d’insediamento non è solo una moda accademica. È un progetto politico reale che ha segnato il passato e il presente delle comunità indigene di tutto il mondo.

Una caratteristica centrale di questo progetto è cercare di cancellare la popolazione indigena per far posto alla creazione di una società di coloni. Ideologicamente, questa cancellazione è vista come giustificata e inevitabile perché, per il colonizzatore, gli indigeni non hanno le caratteristiche di un vero popolo o una rivendicazione storica sulla terra che abitano. Quindi, di fronte alla superiorità civile, tecnologica e militare dello stato colonizzatore, ci si aspetta che la “barbara” società indigena semplicemente capitoli e “se ne vada”.

Lo vediamo nelle rappresentazioni degli scontri tra coloni occidentali e comunità indigene nel folklore americano. Di solito si concludono con la scomparsa degli indigeni. Ho visto una narrazione simile nel Voortrekker Monument dell’epoca dell’apartheid, dedicato alla frontiera boera, fuori Pretoria, Sudafrica. Le esposizioni che vi si tengono celebrano il colono bianco come colui che ha portato la “luce della civiltà” nell’indomito entroterra dell’Africa meridionale.

Israele-Palestina non è una cosa diversa. L’ideologia della cancellazione è stata scritta nel mito di fondazione dello Stato di Israele – il mito secondo cui Israele è stato costruito su “una terra senza popolo per un popolo senza terra”. Uno slogan popolare tra i sionisti, che ha contribuito a perpetuare l’assunto che la “Terra Santa” fosse un territorio vergine e a caratterizzare i palestinesi non come “un popolo” con un’identità distinta, e considerarli quindi privi di qualsiasi rivendicazione legittima sulla terra.

Il padre del sionismo politico, Theodor Herzl, delineò la sua visione utopica di un moderno Stato Ebraico nel suo romanzo Altneuland (La vecchia-nuova terra), dove scrisse: “Se voglio sostituire un nuovo edificio a uno vecchio, devo demolire prima di costruire”. Anche in questo caso, l’insinuazione era che i palestinesi e qualsiasi segno della loro esistenza sulla terra e del loro legame con essa sarebbero stati inevitabilmente cancellati dallo stato dei coloni.

Quando i geografi israeliani hanno elaborato la loro mappa della Palestina, hanno basato il loro lavoro sull’idea che i palestinesi “non sono un popolo”. Erano convinti del loro incontrovertibile diritto alla “terra ancestrale” e hanno rimappato la Palestina in modo da cancellare completamente ogni prova della presenza indigena palestinese.

Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, abbiamo sentito i politici israeliani chiamare i palestinesi “animali umani”. Hanno anche chiesto che i palestinesi “vadano via” da Gaza e si stabiliscano altrove. Evidentemente, l’ideologia coloniale della cancellazione è viva e vegeta ancora oggi.

Ma il colonialismo d’insediamento non è solo una forza ideologica. Questa ideologia di cancellazione spesso motiva gli sforzi per distruggere materialmente tutti i pilastri della vita e dell’esistenza indigena.

Ne siamo testimoni oggi a Gaza, e non solo in termini di perdita catastrofica di vite umane. L’urgenza di cancellare è evidente nel modo in cui tutte le istituzioni, comprese le università e gli ospedali, vengono prese di mira. La guerra di Israele contro Gaza sembra essere uno sforzo per rendere impossibile ai palestinesi mantenere la loro esistenza nella Striscia.

I paralleli con la Nakba del 1948 sono inequivocabili. Storie orali e documenti governativi israeliani declassificati hanno rivelato che c’è stato uno sforzo sistematico per cancellare tutte le testimonianze dell’esistenza palestinese. Il leader militare e politico israeliano Moshe Dayan lo confermò quando disse: “Al posto dei villaggi arabi sono stati costruiti villaggi ebraici. Non conoscete nemmeno i nomi di questi villaggi arabi, e non vi biasimo perché i libri di geografia non esistono più: non solo non esistono i libri, ma non esistono nemmeno i villaggi arabi”. Naturalmente, questo tipo di violenza genocida è comune nei contesti d’insediamento coloniale e rappresenta una causa significativa del declino della popolazione indigena in stati colonizzatori come l’Australia e il Canada.

Tuttavia, la capitolazione delle comunità indigene è anche una conseguenza di un processo di genocidio culturale. Ad esempio, negli stati colonizzatori la Chiesa ha giocato un ruolo attivo nella cancellazione dell’identità e del patrimonio culturale indigeno attraverso la cristianizzazione della popolazione nativa o attraverso l’allontanamento dei bambini indigeni dalle loro famiglie in Canada e in Australia. Lo scopo apparente era la “protezione” di questi bambini. In pratica, però, si trattava di una missione “civilizzatrice” volta ad annientare l’identità culturale di generazioni di bambini indigeni.

Anche i palestinesi si trovano di fronte a un progetto d’insediamento che mira ad annientare il loro patrimonio culturale. Basta vedere la deliberata presa di mira dei siti archeologici nella Striscia di Gaza. Le organizzazioni della società civile hanno sostenuto che non si tratta di un “gesto privo di significato”. Si tratta piuttosto di un tentativo di privare i palestinesi della “sostanza stessa [cioè la cultura] che costituisce la spina dorsale del loro diritto all’autodeterminazione”. Allo stesso modo, l’appropriazione di massa della cucina palestinese ribattezzata come israeliana cancella le prove chiave del patrimonio culturale palestinese. E quando le forze israeliane distruggono o rubano gli ulivi, non stanno solo attaccando un’importante fonte di reddito. Stanno anche rubando un importante simbolo della resilienza palestinese. Proprio come l’ulivo che porta frutti nonostante la crescita in condizioni difficili, anche la lotta nazionale palestinese persiste nonostante le dure condizioni dell’occupazione e dell’assedio.

In definitiva, è importante pensare al colonialismo d’insediamento come uno strumento, per comprendere meglio ciò che sta accadendo oggi a Gaza e in tutta la Palestina. Da una parte, ci dice che ciò a cui stiamo assistendo è strutturale, in quanto sono le strutture e le istituzioni profondamente radicate di uno stato coloniale a giustificare e razionalizzare le varie forme di cancellazione a cui stiamo assistendo a Gaza. Ma aiuta anche a collegare la Palestina alla storia globale del colonialismo d’insediamento, una storia che potrebbe spiegare perché le comunità indigene di tutto il mondo hanno solidarizzato con i palestinesi, mentre gli stati colonizzatori come gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia sembrano perennemente esitanti nel loro sostegno ai diritti dei palestinesi.

Somdeep Sen è professore associato di Studi Internazionali sullo Sviluppo presso l’Università Roskilde in Danimarca. È autore di Decolonizing Palestine: Hamas between the Anticolonial and the Postcolonial (Cornell University Press, 2020).

https://www.aljazeera.com/opinions/2024/2/6/settler-colonialism-is-not-an-academic

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

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