Riflessioni sulla situazione in Palestina

di Michele Cantoni,

mic.cantoni, 3 febbraio 2024. 

Cari amici, care amiche,

Solitamente, i miei messaggi a questa mailing list si riferiscono ad attività musicali palestinesi, ma oggi, considerando la gravità delle atrocità attuali in Palestina, spero mi permettiate di condividere alcune riflessioni di altra natura, perché sono convinto che non si possa rimanere in silenzio, che ci si debba esprimere, ora più che mai, ed esigere che dagli orrori in corso emerga una realtà diversa, una realtà in cui siano aboliti una volta per tutte i privilegi e le discriminazioni, una realtà in cui i principi di libertà e uguaglianza si possano finalmente applicare a tutti.

Vivo in Palestina da ormai quasi vent’anni, come musicista, svolgendo attività che mi portano ad essere in costante contatto con le persone e le realtà del Paese, sempre in ascolto, sempre curioso e attento a ciò che accade intorno a me, sia nei territori occupati da Israele nel 1967 che nella parte della Palestina dove nel 1948 è stato creato lo Stato di Israele.

Da qui, la prospettiva sulla situazione degli ultimi mesi, così come sul contesto palestinese in generale, è probabilmente molto diversa da quella che si può avere dai paesi occidentali. Quando si vede –quando si vive–quotidianamente l’ingiustizia, l’oppressione, l’umiliazione, il razzismo e la violenza da parte di chi controlla ogni aspetto della vita palestinese da decenni, si capisce subito che non siamo nel contesto di un “conflitto” tra parti uguali, ma piuttosto in un contesto di dominio totale, da parte di uno stato coloniale molto potente, su una popolazione indigena indifesa.

Quando si è qui, ciò diventa immediatamente ovvio e sorprendentemente semplice.

Da qui, è difficile capire come atrocità come quelle perpetrate dallo Stato di Israele in questo momento possano durare così a lungo, sotto gli occhi di tutto il mondo, con l’avallo e l’aiuto di paesi che si definiscono “civilizzati”. È anche difficile accettare una logica che tenta di giustificare queste atrocità mediante una strumentalizzazione delle gravissime responsabilità storiche dell’Europa nei confronti delle sue comunità ebraiche.

È particolarmente scioccante che 80 anni dopo l’Olocausto nazista, alla Germania, tra tutti i paesi, possa essere permesso di sostenere azioni e dichiarazioni esplicitamente genocidarie, e di sopprimere qualsiasi espressione di opposizione non violenta a quelle dichiarazioni e azioni.

L’impressione che ne deriva è che l’Europa sia probabilmente accecata dal senso di colpa per secoli di antisemitismo e che abbia finito per sostituire una forma di razzismo con un’altra, passando dalla demonizzazione degli ebrei alla loro idealizzazione, forse a causa di un’incapacità di considerare che in realtà sono persone normali, come le altre. 

Ma mi chiedo anche se pochi decenni possano davvero bastare all’Europa per superare secoli di razzismo e di spirito coloniale. Forse è per questo che molti paesi europei continuano a sostenere il “Settler Colonialism” sionista in Palestina, e che, accanto all’antisemitismo, altre forme allarmanti di razzismo sono sempre più presenti in quei paesi.

Vivendo qui, si può costatare che nella società palestinese non c’è nulla che ricordi l’antisemitismo del mondo occidentale. I palestinesi, e i loro sostenitori, non denunciano ciò che Israele fa perché è uno stato che si autoproclama “ebraico”, ma perché è uno stato che è stato creato in Palestina nel 1948, attraverso un meticoloso e brutale processo di pulizia etnica che ha visto l’espulsione dell’80% della popolazione palestinese, e perché quello Stato ha poi occupato il resto della Palestina nel 1967 e ha perseguito, da allora, una politica implacabile di oppressione, colonizzazione e pulizia etnica. I trasferimenti forzati e i massacri a Gaza dal 7 ottobre, così come le azioni dell’esercito israeliano e dei coloni in Cisgiordania, sono solo una logica continuazione del processo di pulizia etnica su cui è fondato il progetto sionista in Palestina.

Spesso mi viene chiesto quale potrebbe essere la soluzione alla situazione in Palestina. Personalmente, ho rinunciato da diversi anni a pensare in termini di “soluzioni” (anche se la mia speranza è che un giorno si possa arrivare ad una realtà in cui la separazione e le disuguaglianze scompaiano, piuttosto che a un consolidamento dell’attuale separazione tra le persone). Sono giunto alla convinzione che sia fondamentale agire, e reagire, in base al presente, in base al quadro molto chiaro che si può osservare in qualunque momento. Il mio approccio è quello di guardare e analizzare uno “screenshot” della situazione, di pensare in termini di diritti umani e di diritto internazionale per denunciare e affrontare qualsiasi abuso.

Conosciamo gli eventi dal 7 ottobre in poi, quindi prenderò come esempio uno screenshot di un giorno qualsiasi prima di quella data, in tempi “normali”:

  • Israele ha il controllo totale sulla terra, le risorse e i confini palestinesi.

I palestinesi non controllano nessuna delle terre, delle risorse o dei confini di Israele.

  • Ne consegue che l’economia palestinese è interamente nelle mani di Israele (pieno controllo israeliano sulle importazioni e le esportazioni palestinesi).

Nessuna reciprocità.

  • Ne consegue anche che è Israele che decide se qualcuno può andare a vivere nei territori occupati (Gerusalemme Est, Cisgiordania, Alture del Golan, Gaza) o lavorare per le istituzioni palestinesi. I permessi e i visti sono quasi impossibili da ottenere, quindi è praticamente impossibile per queste istituzioni assumere, per esempio, cittadini stranieri.

Ho potuto costatare in prima persona l’effetto devastante che questo ha sulle istituzioni palestinesi di educazione musicale.

  • Israele ha uno stato armato con carri armati, aerei da combattimento, elicotteri, navi da guerra, un arsenale nucleare e uno degli eserciti meglio equipaggiati al mondo.

Con gli accordi di Oslo è stata creata un’Autorità Palestinese. Si tratta di un governo sotto occupazione militare, paragonabile a quello di Vichy, le cui forze di sicurezza sono responsabili solo del mantenimento dell’ordine nelle principali città palestinesi della Cisgiordania.

  • Le città palestinesi in Cisgiordania sono completamente circondate dall’esercito israeliano, il che le rende di fatto delle “riserve” di palestinesi (dall’8 ottobre, l’esercito ha anche chiuso la maggior parte degli ingressi a queste città e controlla i pochi valichi, che apre o chiude a piacimento).
  • Qualunque restrizione alla circolazione delle persone è imposta da Israele, non dai palestinesi: divieto di recarsi a Gerusalemme o in territorio israeliano per i palestinesi dei territori occupati non muniti di permessi speciali dell’amministrazione militare israeliana; divieto per i cittadini (ebrei) israeliani di entrare nelle città palestinesi in Cisgiordania, sulla base del fatto che è “contro le leggi militari israeliane e pericoloso per la vostra vita”, come si può leggere su cartelli rossi stile Jurassic Park.
  • L’esercito israeliano effettua incursioni quotidiane nelle città e nei campi profughi palestinesi, portando all’arresto o all’uccisione di palestinesi (più di 250 palestinesi uccisi in Cisgiordania nel 2023 prima del 7 ottobre, altri 380 da allora).

Le forze di sicurezza palestinesi sono tenute (dagli accordi di Oslo) a ritirarsi durante qualsiasi incursione dell’esercito israeliano.

  • Israele persegue una politica sistematica di punizione collettiva dei palestinesi, come la demolizione delle case familiari di coloro che Israele accusa di crimini, o l’arresto di familiari di persone ricercate, o le restrizioni alla circolazione dei palestinesi arbitrariamente e regolarmente imposte dall’esercito occupante.

Nessuna reciprocità nelle azioni dell’Autorità Palestinese.

  • Israele detiene circa 9.000 prigionieri politici palestinesi nelle sue prigioni militari (più di 5.000 al 6 ottobre e altri 4.000 da allora), tra cui centinaia di bambini, molti dei quali sono in detenzione amministrativa, spesso sottoposti a tortura.

Nessun israeliano è detenuto nelle carceri dell’Autorità Palestinese.

  • Israele ha preso in ostaggio la popolazione della Striscia di Gaza più di 16 anni fa, rinchiudendo di fatto più di due milioni di palestinesi, imponendo un blocco totale del territorio e bombardandolo regolarmente senza permettere ai residenti di fuggire (come nel 2008, 2012, 2014, 2021 e, su una scala senza precedenti, dal 7 ottobre del 2023).

Fino al 7 ottobre, non c’erano ostaggi israeliani in cattività palestinese.

  • Israele viola costantemente il diritto internazionale umanitario e dei diritti umani, nonché numerose risoluzioni delle Nazioni Unite (sin dal 1948).

Questo non è il caso dell’Autorità Palestinese.

  • Israele ha messo in atto, e continua a sviluppare, un sistema di leggi e politiche discriminatorie a favore della sua popolazione ebraica, sia in Israele che nei territori occupati (legge civile per i coloni ebrei, legge militare per i palestinesi).

Non c’è un equivalente da parte palestinese.

  • Nel territorio che lo Stato di Israele controlla da più di 56 anni (Israele, Gerusalemme Est, Cisgiordania, Alture del Golan e Gaza), solo la metà della popolazione (i cittadini israeliani) ha il diritto di voto nelle elezioni israeliane (che determinano la sorte di tutte le persone controllate da quello Stato).

Negli ultimi anni, questa realtà è stata sempre più riconosciuta e denunciata come una forma di “apartheid”, in conformità con la definizione di quel termine nel Diritto Internazionale.

Nonostante questo quadro chiarissimo, molti paesi vedono Israele come un amico, come un alleato, come uno stato “democratico”. Insistono a parlare in termini di “pace” piuttosto che ad agire in difesa delle persone oppresse, delle vittime di razzismo di Stato e di terrore di Stato.

Vorrei anche darvi due esempi molto semplici di come anche gli Stati europei discriminino in maniera diretta tra i sudditi dello Stato di Israele, a seconda che siano cittadini israeliani o meno:

  • I palestinesi che vivono nei territori occupati devono richiedere un visto se vogliono recarsi in Europa (visti costosi e spesso difficili da ottenere). I cittadini israeliani, compresi quelli che vivono nelle colonie (i “vicini” dei palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme Est) possono entrare in Europa senza visto.

Le numerose tournée in Europa che ho organizzato per insiemi musicali palestinesi sono state molto più costose e più difficili da organizzare che se quegli insiemi fossero stati israeliani.

  • I paesi europei permettono a Israele di discriminare anche tra i loro cittadini, a seconda che sposino un israeliano o un palestinese che risiede nei territori controllati da Israele. Nel secondo caso, è estremamente complicato per i cittadini europei ottenere un visto dalle autorità israeliane per trasferirsi con i propri i coniugi. Per i coniugi di israeliani, è automatico.

In questo periodo di orrori, dal 7 ottobre, vediamo anche altri esempi flagranti di come molti paesi occidentali discriminino tra le due “parti”: una ha il diritto di commettere crimini di guerra, di terrorizzare la popolazione dell’altra, ed è autorizzata ad avvalersi di un contesto per farlo.

Sia la tipologia che l’entità delle atrocità in corso sono spaventose, così come lo è l’atteggiamento di gran parte dell’Occidente. Mi riferisco al colossale sostegno politico, diplomatico e militare che molti paesi occidentali forniscono direttamente a Israele, ma anche alle loro politiche interne che prendono di mira ogni dissenso sotto la falsa copertura della lotta contro l’antisemitismo, secondo un’oscena e pericolosa equazione tra antisionismo e antisemitismo volta a cancellare ogni traccia dell’ingiustizia e dei traumi subiti da generazioni di palestinesi nel corso di 75 anni di inarrestabile colonizzazione, occupazione e espropriazione da parte di Israele.

I leader israeliani accusano Hamas di essere i “nuovi nazisti” perché la maggior parte delle vittime del 7 ottobre erano ebree.

Ragionare in termini della natura delle vittime, senza analizzare il contesto, è un approccio molto pericoloso.

Non dovremmo invece concentrarci sulle caratteristiche comuni delle politiche delle potenze che prendono di mira in maniera razzista milioni di persone? Con questo intendo le inquietanti analogie tra le ideologie di supremazia razziale al potere (in Germania allora come in Israele oggi) con il sostegno della maggioranza della popolazione, la violenza e il terrorismo di stato, la disumanizzazione delle vittime, il presentare le vittime come una “minaccia esistenziale”, le politiche abominevoli e la retorica esplicitamente genocidaria dei governi e degli alti ufficiali militari, le tendenze espansionistiche, i trasferimenti forzati di popolazione, gli appelli alla pulizia etnica, la reclusione di milioni di persone in campi di concentramento (in relazione a Gaza, questo termine è stato ampiamente usato negli ultimi anni, persino da storici, sociologi e giornalisti israeliani).

Ma la domanda più pressante è questa: alla luce di ciò che sta accadendo in questo momento a Gaza e in Cisgiordania, di fronte alle ripetute ed esplicite dichiarazioni genocidarie dei leader israeliani e dei loro appelli alla pulizia etnica, ci si può seriamente permettere di credere che il vero obiettivo del governo israeliano sia lo sradicamento di Hamas?

Penso che sia essenziale che suoni immediatamente un campanello d’allarme, per chiunque abbia una coscienza. Denunciare questa situazione è una necessità assoluta e urgente. Bisogna agire, intervenire per fermare i crimini, per garantire il rispetto del diritto internazionale e del diritto umanitario, anche al di là di questo periodo di “guerra”. Soprattutto, non ci si deve soffermare su interminabili (e disonesti) negoziati, come avviene ormai da 30 anni. Senza bisogno di imporre una soluzione, la comunità internazionale può almeno esigere il rispetto del diritto internazionale.

I tribunali internazionali, o i tribunali ad hoc, dovranno fare la loro parte, naturalmente, giudicando le responsabilità di tutte le parti coinvolte, comprese le responsabilità dei leader di paesi che avranno sostenuto –o armato –chi commette crimini di guerra, o che si saranno resi complici di punizione collettiva e di genocidio impedendo le azioni umanitarie delle agenzie delle Nazioni Unite.

Ci sono già dei segnali incoraggianti, sia dalla Corte Internazionale di Giustizia che dai milioni di persone in tutto il mondo che capiscono sempre più la situazione e si mobilitano per esprimere la loro indignazione e la loro solidarietà, milioni di persone che si rifiutano di accettare la violenza come soluzione e il razzismo come modo di pensare.

Una volta che qui saranno stabiliti i principi di libertà e di uguaglianza, sarà possibile un processo di riconciliazione, come in Europa dopo la seconda guerra mondiale o in Sudafrica alla fine dell’apartheid. La mia esperienza sul campo mi porta a credere che quel processo sarà molto più fluido di quanto si possa pensare dall’esterno.

Un caro saluto,

Michele

mic.cantoni@gmail.com

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