La pace tra israeliani e palestinesi è ancora possibile

Gen 26, 2024 | Notizie, Riflessioni

di Natan Sachs,

Foreign Affairs, 19 gennaio 2024. 

Ma per arrivarci, entrambe le parti – e l’America – devono essere realistiche su ciò che è possibile ottenere ora.

Un veicolo militare israeliano esce da Gaza, gennaio 2024. Amir Cohen / Reuters

L’orribile attacco di Hamas del 7 ottobre e la devastante guerra che ne è seguita hanno confermato il disastroso fallimento della strategia di “resistenza” di Hamas attuata con il massacro di civili israeliani, che non ha portato alla liberazione della Palestina ma alla rovina della Striscia di Gaza. Ma l’attacco ha anche messo a nudo il fallimento della strategia di contenimento del conflitto con i palestinesi, a lungo perseguita da Israele dopo il fallimento del processo di pace nei primi anni 2000. L’attacco del 7 ottobre e la guerra di oggi hanno anche messo a nudo la logica fallace e sconsiderata delle proposte di uno stato unico che vorrebbero ignorare l’estremismo che alimenta il conflitto e la paura esistenziale che lo anima. Tuttavia, questi eventi hanno anche reso una soluzione a due tati in tempi brevi ancora meno probabile di quanto non fosse prima del 7 ottobre, con gli israeliani terrorizzati da qualsiasi sovranità palestinese e dal potenziale ripetersi del massacro di quel giorno e i palestinesi molto meno pronti a un compromesso storico con Israele dopo la sua devastazione della Striscia di Gaza.

Anche se a prima vista non ci sono soluzioni, l’amministrazione Biden e gli stessi israeliani e palestinesi devono e possono trovare un percorso verso un futuro meno terribile. Non devono tornare alle stesse strategie di contenimento del conflitto che hanno preparato il terreno per il 7 ottobre, né alle idee avventate ora in voga in Occidente di una soluzione con un solo Stato, in sostanza un cambio di regime nella cosiddetta Palestina/Israele. Tutte le parti devono invece essere chiare sia sull’obiettivo strategico sia, cosa non meno importante, sul lungo percorso per raggiungerlo. Devono riaffermare un orizzonte politico, per quanto probabilmente lontano, di indipendenza israeliana e palestinese – anche se non assomiglia esattamente alla soluzione a due stati di un tempo – accompagnato da una solida politica per gestire il lungo periodo intermedio prima che la risoluzione del conflitto sia possibile. Deve essere chiaro che la scelta non è tra la piena pace con immediata riconciliazione -che non è possibile- e il ritorno a un sanguinoso allontanamento da essa, che porterebbe solo ulteriore rovina.

Invece, fino a quando non sarà possibile una risoluzione del conflitto, le migliori possibilità risiedono in una spinta vigorosa verso una maggiore indipendenza dei palestinesi negli affari civili, affrontando al contempo le fonti di paura da entrambe le parti. Questo approccio prenderebbe sul serio le preoccupazioni israeliane per la sicurezza aumentate dopo il 7 ottobre e porrebbe un limite all’autorità di sicurezza che potrebbe essere trasferita al controllo palestinese in questo momento. Inoltre, richiederebbe agli Stati Uniti di usare la loro influenza su Israele per contenere la violenza contro i civili palestinesi in Cisgiordania e l’espansione dell’attività di insediamento, entrambe fonti di insicurezza per i palestinesi. Non da ultimo, richiederebbe uno sforzo massiccio a Gaza, con gli Stati Uniti che userebbero la loro influenza con Israele, l’Egitto, l’Autorità Palestinese e gli Stati del Golfo per iniziare a ricostruire e ricostituire un futuro per Gaza governato da attori palestinesi laici.

Gli attuali leader israeliani e palestinesi sono ostili o incapaci di perseguire seriamente tali strategie. Il 18 gennaio, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato pubblicamente di rifiutare la spinta degli Stati Uniti per la creazione di uno Stato palestinese una volta terminato il conflitto a Gaza. Ma questo non dovrebbe impedire agli Stati Uniti o ad altre parti interessate di spingere per ottenere ciò che è nell’interesse di tutte le parti. Anche se il conflitto potrebbe non essere risolto per il momento, gli Stati Uniti possono ancora contribuire a trasformare la realtà sul campo in modo che israeliani e palestinesi si muovano verso una soluzione reale, piuttosto che allontanarsene.

Fallimento di un paradigma

Mentre si svolgeva l’orribile attacco del 7 ottobre nel sud di Israele, gli israeliani scioccati cercavano di dare un senso al fallimento dell’intelligence che ha permesso l’invasione a sorpresa di migliaia di terroristi di Hamas. Si sono immediatamente rivolti al ricordo del 6 ottobre 1973, 50 anni e un giorno prima, quando Egitto e Siria lanciarono un attacco a sorpresa contro Israele, rompendo le sue linee difensive nel Sinai e sulle alture del Golan. L’attacco a sorpresa del 1973 è generalmente attribuito al fatto che gli analisti israeliani divennero prigionieri del loro stesso quadro concettuale – la vantata Conceptzia, in ebraico – che li portò a valutare nuove e potenzialmente contraddittorie prove sulle intenzioni e sulle capacità egiziane e siriane come una mera conferma delle ipotesi errate esistenti.

Nel 2023, Israele ha sofferto nuovamente di una forma simile di creduta conferma. I leader israeliani e gli analisti dell’intelligence erano convinti che Hamas fosse concentrato sul miglioramento della vita a Gaza e sul rafforzamento della sua posizione politica nella società palestinese. Questo pensiero era sostenuto da quello che Israele riteneva fosse un efficace approccio del tipo “bastone e carota”: Hamas era scoraggiato, secondo i funzionari israeliani, ed era sempre più incentivato a evitare il conflitto dal graduale allentamento del blocco israelo-egiziano di Gaza. Le prove del contrario venivano reinterpretate o scartate di fronte a questa visione preconcetta del mondo.

Tuttavia, il massacro del 7 ottobre non rappresenta solo un fallimento operativo per Israele, ma anche strategico. Per anni, Israele ha affrontato la questione palestinese, e molto altro, con una strategia “anti-soluzionista“, come l’ho definita in Foreign Affairs nel 2015. Gli israeliani erano giunti a credere che non esistessero soluzioni fondamentali al conflitto con i palestinesi e che quindi fosse meglio costruire muri, investire nel proprio futuro e imparare a convivere con un basso livello di violenza cronica. Volendo conservare la situazione, gli israeliani hanno evitato qualsiasi grande progetto di riorganizzazione della realtà. Molti sono arrivati a credere che il “soluzionismo” che ha animato il processo di pace abbia prodotto solo la violentissima seconda intifada, iniziata nel 2000. E che il ritiro unilaterale di Israele da Gaza nel 2005 abbia portato solo all’ascesa di Hamas e al sanguinoso stallo di dieci anni e mezzo con il gruppo terroristico.

Per questo motivo Netanyahu e molti israeliani hanno optato per il contenimento del conflitto: la strategia di dare un calcio al barattolo che rotola giù per la strada, cioè di rinviare ogni decisione. Sotto Netanyahu, Israele ha rinunciato a rovesciare il regime di Hamas a Gaza, cercando invece un modus vivendi con il gruppo. Israele ha mescolato la deterrenza (occasionalmente “tagliando l’erba del prato” con attacchi alle strutture di Hamas in caso di provocazione) con la disponibilità ad accogliere ampiamente il governo di Hamas nel suo staterello di Gaza, a pochi chilometri dalle case dei civili israeliani. Israele non cercava la pace – che comunque Hamas non avrebbe mai accettato – ma uno stallo con cui Israele avrebbe potuto convivere.

Questo approccio ha anche rafforzato quella divisione politica e fisica tra i palestinesi che aveva tenuto fuori da Gaza l’Autorità Palestinese insediata in Cisgiordania. Sebbene i palestinesi fossero i principali artefici della loro stessa disfunzione politica, questa divisione tra i palestinesi si adattava all’interesse di Netanyahu di avere un’Autorità Palestinese indebolita. Se lui o qualsiasi altro leader israeliano avesse potuto far scomparire Hamas con uno schiocco di dita, l’avrebbe fatto: Hamas ha ucciso civili israeliani per decenni e ha lanciato regolarmente migliaia di razzi sulle città israeliane dal 2001. Tuttavia, la sua indipendenza dall’Autorità Palestinese ha favorito gli obiettivi di Netanyahu, che disse esplicitamente ai suoi alleati politici nel 2019: “Chiunque voglia ostacolare la creazione di uno stato palestinese deve sostenere il rafforzamento di Hamas e il trasferimento di denaro ad Hamas… Questo fa parte della nostra strategia: isolare i palestinesi di Gaza dai palestinesi della Cisgiordania”. Se Hamas non può essere sradicato facilmente, meglio trovare un modo per convivere con il gruppo e persino trarne vantaggio, sosteneva.

Se si fosse trattato di un approccio genuinamente conservativo, non sarebbe stato assurdo. Evitare il rischio può essere saggio in tempi volatili, e rinviare le scelte difficili può essere intelligente se il tempo è dalla propria parte. Nel decennio che ha preceduto l’ottobre 2023, la strategia israeliana ha dato i suoi frutti. Quando i governi arabi si sono stancati di aspettare una soluzione che non arrivava mai alla questione palestinese e sono diventati desiderosi di perseguire i propri interessi nazionali, la normalizzazione tra diversi stati arabi e Israele è diventata una gradita realtà. Nel perseguire questi accordi, entrambe le parti hanno eluso la questione palestinese. Gli Accordi di Abramo, risultato di questo processo, sembravano la prova del successo dell’approccio di Netanyahu. Era quello che la destra israeliana aveva promesso da tempo: “pace in cambio di pace” invece di “terra in cambio di pace”.

Tuttavia, l’approccio di Israele non era veramente conservatore. Invece di adottare realmente un cauto modello di mantenimento che gli avrebbe garantito flessibilità strategica in futuro e arrestato tendenze dannose nel breve termine, Israele stava semplicemente precludendo le sue opzioni future – e quelle dei palestinesi – attraverso un’annessione strisciante della Cisgiordania e l’erosione dell’autorità dell’Autorità Palestinese. Netanyahu stava gestendo una realtà drammaticamente peggiorata sul campo, anche se i vantaggi diplomatici della normalizzazione erano significativi.

Nel frattempo, nella Striscia di Gaza, invece di rassegnarsi alla realtà dell’esistenza e della superiorità di Israele, Hamas si è trincerata e si è armata, preparandosi a un’opportunità di attacco, anche mentre una generazione di gazawi cresceva in una realtà impossibile. Mentre Hamas portava avanti una guerra intermittente con il suo vicino più potente, i gazawi hanno sopportato gran parte del peso. Hanno dovuto affrontare un blocco israelo-egiziano di Gaza volto a contenere Hamas, ma che ha causato enormi danni anche a tutti i cittadini. Hamas stesso è stato l’agente chiave nel creare queste condizioni, ma la strategia di Israele ha dato il suo contributo a crearle. Hamas si stava rafforzando, mentre l’Autorità Palestinese in Cisgiordania si stava spegnendo sotto il peso della sua stessa inettitudine e corruzione.

Il tempo, in altre parole, non era dalla parte di nessuno. Più che qualcuno a gestire il conflitto, era il conflitto a gestire israeliani e palestinesi.

Guidati dalla paura

Il 7 ottobre ha messo in luce il pericolo dell’anti-soluzionismo. Ma agli occhi degli israeliani ha anche screditato la maggior parte delle soluzioni proposte per il conflitto. Il trauma e la paura che l’attacco ha instillato sono ancora poco apprezzati da molti al di fuori di Israele. Oggi una cosa è chiara agli israeliani: non permetteranno mai più che una cosa del genere accada. Qualunque sia il biasimo internazionale che dovranno affrontare, gli israeliani non permetteranno che un gruppo radicale governi alla porta accanto e sia libero di addestrarsi e prepararsi a conquistare villaggi e città israeliane per poter massacrare, stuprare e rapire sistematicamente i civili israeliani.

Anche se molti israeliani incolpano Netanyahu per il fallimento, sono diventati ancora più diffidenti nei confronti del potere palestinese in qualsiasi forma. E sebbene i palestinesi possano arrivare a biasimare Hamas per ciò che ha prodotto per il suo popolo, non sono ora più propensi a perdonare gli israeliani per la devastazione odierna di Gaza o a cercare una riconciliazione fondamentale e storica con gli israeliani di quanto non lo fossero il 6 ottobre.

Gli eventi degli ultimi tre mesi hanno confermato le peggiori paure di israeliani e palestinesi nei confronti dell’altro. Motivato da obiettivi e rancori nazionali, religiosi e personali allo stesso tempo, il conflitto diventa esistenziale, nel senso letterale del termine. Le parti credono di non poter sopravvivere se l’altro ha il potere, il che significa che qualsiasi concessione potrebbe portare alla catastrofe. Questa convinzione incoraggia l’azione preventiva, per evitare che il nemico acquisisca più potere nel tempo. Questa strategia da una parte rende razionale la paura dell’altra parte, che ora deve correttamente ritenere di non potersi permettere di perdere, qualunque cosa accada. Il risultato è un dilemma di sicurezza etnica, in cui ciascuna parte ritiene di dover sopraffare l’altra per evitare di essere a sua volta sopraffatta e decimata nel tempo.

Questa paura non produce un ciclo di violenza, né una riproduzione di antichi odi. Non rappresenta un’irrazionalità o una tendenza alla vendetta unica di questi particolari popoli. Si tratta invece di un equilibrio di paura razionale, comune a molti conflitti etnici ma reso più acuto dalle circostanze di questo. È stato questo tipo di equilibrio ad alimentare la violenza diffusa nell’unico stato che esisteva nella Palestina mandataria dai primi anni Venti fino alla fondazione di Israele nel 1948. Ha continuato ad animare il conflitto per decenni e oggi è molto più grave di quanto non fosse solo tre mesi fa.

Questa paura rende molto più difficile il raggiungimento di una soluzione a due stati. Gli israeliani sono restii a concedere alla sicurezza palestinese il controllo di un solo centimetro di terra. La preoccupazione di Israele ora è che ciò che è accaduto nel sud di Israele il 7 ottobre possa accadere al suo centro densamente popolato, confinante con la Cisgiordania, proprio come potrebbe accadere lungo il confine settentrionale di Israele con il Libano dominato da Hezbollah. Prima del 7 ottobre, alcuni dirigenti israeliani avrebbero potuto prendere in considerazione la possibilità di ampliare il territorio sotto il controllo di sicurezza dell’Autorità Palestinese. Ora non è più così.

Fori di proiettili in una finestra rotta vicino a Jenin, nella Cisgiordania occupata da Israele, gennaio 2024. Raneen Sawafta / Reuters

Le sfide che si pongono a una soluzione a due stati, tuttavia, non hanno in alcun modo creato un sostegno per una soluzione a uno stato. L’idea di uno stato unico, ora sostenuta da molti ambienti all’estero, è spesso descritta come un unico stato che comprende tutto Israele, la Cisgiordania e Gaza, dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo. Esso includerebbe apparentemente tutti gli israeliani e i palestinesi e i discendenti dei rifugiati palestinesi del 1948 che scelgono di tornare. Sarebbe governato, si sostiene, da una democrazia laica e liberale in stile occidentale, presumibilmente in pace.

Tuttavia, le possibilità di pace in uno stato di questo tipo sarebbero estremamente ridotte. I sostenitori di uno stato unico partono dal presupposto che in questo nuovo stato, gli estremisti di tutte le parti e la paura che ha spinto anche molti moderati a combattere, svaniranno di fronte a una nozione secolare di giustizia. Spariranno le esigenze religiose degli estremisti e i profondi sogni nazionali di molti, così che non ci sarà una minoranza abbastanza significativa da rovinare la pace e riaccendere quella paura totalizzante. Non solo i belligeranti di oggi deporranno le armi, ma tutti gli altri avranno abbastanza fiducia da non riprenderle, per evitare di tornare al dilemma della sicurezza etnica. La verità è che se la riconciliazione attraverso una soluzione a due stati è impossibile, come spesso sostengono i sostenitori di uno stato, un pacifico stato unico è ancora meno fattibile.

È possibile che la riconciliazione tra israeliani e palestinesi si riveli impossibile a breve. I traumi che entrambe le società hanno affrontato, e quelli che questi recenti eventi hanno fatto riemergere, hanno un immenso potere di disturbare i migliori sforzi diplomatici. Ma il fatto che una grande “pace” sia fuori portata non suggerisce che la pace, con la p minuscola, di per sé trasformativa, non possa o non debba essere perseguita con forza, contrariamente a ciò che hanno sempre ipotizzato gli anti-soluzionisti. In realtà, c’è una varietà di scelte tra la perfetta riconciliazione e gli orrori della guerra. Ci sono anche esiti che permetterebbero a entrambi i popoli di perseguire la propria dignità e il proprio benessere.

Un orizzonte di indipendenza politica per entrambe le parti non include necessariamente la piena riconciliazione e la giustizia. Deve semplicemente creare le condizioni perché le persone possano avere opinioni diverse e costruiscano il proprio futuro migliore, garantito, almeno in parte, da un confine. Allo stesso modo, la gestione dei conflitti ha ricevuto una cattiva fama quando è stata confusa con l’anti-soluzionismo, ma merita una considerazione molto migliore nel contesto di un percorso verso la risoluzione dei conflitti. È tempo di accantonare le visioni utopiche, come sostengono da tempo i cinici, ma, contrariamente a questi ultimi, è anche tempo di sostituirle non con i calci alla lattina o con la passività politica di fronte alla guerra e all’occupazione in corso. È tempo, piuttosto, di abbinare un orizzonte politico con una gestione dei conflitti seria, trasformativa, orientata alla soluzione ma con il pugno di ferro: imperfetta, disordinata, discontinua, insoddisfacente per tutti, ma di gran lunga preferibile alla realtà attuale.

Un futuro meno terribile

Una politica sana deve tracciare un orizzonte politico di indipendenza significativa per entrambe le parti, anche se il linguaggio stanco di una soluzione a due stati aiuta poco in questo momento. Gli Stati Uniti devono impegnarsi chiaramente a favore dell’indipendenza palestinese accanto a Israele, anche se gli aspetti relativi alla sicurezza devono essere rimandati a un futuro lontano. Anche se questo lontano orizzonte deve pur essere previsto, gli Stati Uniti devono stabilire le regole di base per il lungo periodo che passerà prima che sia possibile una vera risoluzione del conflitto e far rispettare con forza queste regole.

Tali regole includerebbero il confronto con il jihadismo radicale, piuttosto che sperare che in qualche modo si moderi da solo. Hamas e la Jihad Islamica palestinese, in veste di vere e proprie organizzazioni, non possono avere un ruolo significativo dopo la guerra se si vuole avviare una diplomazia credibile con Israele. La tolleranza verso il finanziamento di questi gruppi o dei loro rifugi in altri Paesi dovrebbe finire. Se i palestinesi vogliono avere una seria autorità in futuro, non possono operare attraverso due fazioni armate in contrasto tra loro.

Il rovescio della medaglia di questa politica non è meno cruciale: la marginalizzazione dell’Autorità Palestinese e il rapido deterioramento delle condizioni in Cisgiordania devono essere arrestati. L’AP, profondamente impopolare e percepita come corrotta, ha bisogno di essere riformata, ma rimane l’unico veicolo che potrebbe essere utilizzato per ottenere una gestione palestinese produttiva sui propri affari che non comporti una guerra più devastante con Israele. Con una riforma e un rinnovamento politico, un rinnovato orizzonte diplomatico, un ampliamento dell’autorità civile e una seria riduzione della violenza contro i civili palestinesi in Cisgiordania, l’Autorità Palestinese ha la possibilità di riguadagnare la sua importanza nella società palestinese.

Sebbene la maggior parte dell’élite israeliana sappia che l’Autorità Palestinese, se riformata e rivitalizzata, rappresenta la migliore possibilità per un futuro meno violento a Gaza, l’opinione pubblica israeliana è naturalmente diffidente nei confronti dell’idea. La paura di oggi è opprimente e le forze secolari palestinesi che sono state al centro della seconda intifada e degli orrori di quegli anni sono viste dagli israeliani come parte del problema piuttosto che della soluzione. I politici israeliani, Netanyahu in primis, hanno letto correttamente l’umore dell’opinione pubblica e hanno espresso la loro opposizione a un ruolo dell’Autorità Palestinese, almeno per ora, a Gaza. Ma questa logica non deve prevalere, e va affrontata in modo efficace.

Prendendo sul serio la paura che oggi domina la vita di israeliani e palestinesi, le parti non devono correre rischi su nuove strutture di sicurezza complesse. Israele non accetterà, a breve termine, un ruolo di sicurezza palestinese più ampio in Cisgiordania e lo accetterà a Gaza solo se Israele manterrà una notevole libertà d’azione. Non ci sarà un allargamento a breve termine di quella che gli accordi di Oslo II hanno definito Area A, una sezione della Cisgiordania in cui nominalmente esiste una piena autorità di sicurezza palestinese. Tuttavia, potrebbe esserci un significativo rafforzamento dell’autonomia civile palestinese nella cosiddetta Area B della Cisgiordania, dove Israele mantiene libertà d’azione dal punto di vista della sicurezza, ma dove la sua impronta potrebbe essere ridotta.

Sforzarsi di concedere ai palestinesi un controllo civile di gran lunga maggiore potrebbe trasformare la vita dei palestinesi, ma solo se si trattasse di un cambiamento significativo. Ciò richiederebbe non solo più denaro o posti di lavoro temporanei, ma una vera e propria autorità palestinese sulla zonizzazione legale dell’uso del territorio, delle risorse, della pianificazione urbana e dello sviluppo economico. Per raggiungere questo obiettivo, l’Area B in Cisgiordania dovrebbe essere ampliata in modo considerevole, creando una contiguità molto maggiore del controllo civile palestinese in Cisgiordania, che attualmente consiste in oltre 160 enclavi separate, senza alcuna modifica dell’autorità di sicurezza. L’allargamento dell’Area B escluderebbe anche la costruzione di insediamenti, che è limitata all’Area C, sotto il pieno controllo israeliano.

Lavorando per espandere l’autorità civile palestinese, gli Stati Uniti dovrebbero stare alla larga dalle vuote nozioni di “pace economica“, il nome in codice di Netanyahu per migliorare il benessere dei palestinesi, bloccando al contempo qualsiasi orizzonte per un’effettiva governance palestinese dei propri affari. Lo sviluppo economico dovrebbe essere legato a un orizzonte politico e a un vero controllo civile palestinese sul territorio e sulle risorse, anche se l’autorità di sicurezza generale rimane israeliana.

L’allargamento dell’Area B sarebbe molto difficile, dati gli attuali vincoli politici israeliani, ma è una sfida che vale la pena affrontare nei prossimi anni. Affinché tale piano possa ottenere il sostegno di Israele, gli Stati Uniti, gli israeliani e i palestinesi interessati a un futuro migliore devono lavorare con costanza per creare un cuneo nella mente degli israeliani tra le loro legittime preoccupazioni per la sicurezza e la logica alla base dell’espansione degli insediamenti israeliani, che gode di un sostegno più forte rispetto al passato, ma non è ancora la motivazione dell’elettore israeliano medio.

Sebbene Israele sia diventato molto più falco in materia di sicurezza, una tendenza che non è destinata a diminuire rapidamente, non ne consegue che Israele debba diventare più falco sugli insediamenti o sull’ideologia dell'”intera terra di Israele”. La svolta israeliana verso l’atteggiamento da falco negli ultimi decenni è iniziata con la seconda intifada, è stata galvanizzata dall’ascesa di Hamas dopo il disimpegno israeliano da Gaza e ora è stata rimessa fortemente in moto dall’attacco del 7 ottobre. L’accanimento israeliano è motivato, più che altro, dalla paura, non dall’ideologia.

Il disimpegno israeliano da Gaza nel 2005 è significativo a questo proposito. Considerato in Israele come un fallimento per aver aperto nel 2007 la porta alla presa di controllo della Striscia da parte di Hamas, il ritiro di Israele da Gaza aveva due componenti diverse che dovrebbero essere separate anche nella politica odierna. Il ritiro militare di Israele da Gaza ha permesso la creazione di uno staterello governato da Hamas confinante con città e villaggi israeliani, ma la rimozione degli insediamenti israeliani da Gaza è stata un successo perché ha allontanato i civili israeliani da Gaza, di per sé un incubo per la sicurezza.

Prendendo sul serio le preoccupazioni di Israele in materia di sicurezza, la politica statunitense dovrebbe perseguire con maggior vigore gli sforzi per contrastare la violenza dei coloni contro i civili palestinesi in Cisgiordania. Allo stesso modo, gli Stati Uniti dovrebbero raddoppiare gli sforzi per impedire l’espansione degli insediamenti e delle loro strutture. Gli Stati Uniti dovrebbero porsi l’obiettivo a lungo termine, al momento impossibile, di ridurre gli insediamenti nelle zone più remote della Cisgiordania, anche se l’autorità di sicurezza rimane nelle mani di Israele. Gli Stati Uniti hanno già preso in considerazione la possibilità di sanzionare i coloni violenti e possono usare la loro considerevole influenza sul governo israeliano in modo molto più incisivo per limitare l’espansione degli insediamenti. Il 7 ottobre e la guerra che ne è seguita hanno dimostrato quanto sia vitale il sostegno degli Stati Uniti a Israele, sia in termini di equipaggiamenti che di copertura diplomatica, e gli Stati Uniti possono chiarire che il prezzo per tale sostegno è l’adesione alla visione statunitense di un futuro migliore.

Un ritorno alle dispute con Israele sugli insediamenti potrebbe sembrare politicamente poco attraente per un’amministrazione americana, visti i precedenti. Ma sarebbe essenziale per fornire un orizzonte politico ai palestinesi. La pressione degli Stati Uniti su questo tema ridurrebbe anche la paura dei palestinesi, esacerbata dalla violenza dei coloni e dall’apparente impunità di cui godono. La paura di base dei palestinesi è una minaccia per gli israeliani, così come le paure degli israeliani sono una minaccia per i palestinesi, nonostante tutto il tifo contrario di quelli che combattono in poltrona.

Gaza in rovine

A Gaza, la sfida è particolarmente ardua, dato il bilancio delle vittime e delle devastazioni. La guerra ha ucciso decine di migliaia di palestinesi e ne ha sfollati almeno centinaia di migliaia. Secondo il Wall Street Journal, circa la metà degli edifici è stata danneggiata o distrutta. Un percorso di avanzamento a Gaza richiederebbe la creazione di un ruolo di governo solido e significativo per l’Autorità Palestinese, senza rinnovare l’impasse di sicurezza con Israele. Questo approccio richiederebbe di trovare i mezzi per mettere in sicurezza e governare Gaza e, cosa non meno difficile, finanziare la sua ricostruzione. Il compito a Gaza è immenso e scoraggiante, ma esistono strumenti che offrono almeno qualche via d’uscita, se sfruttati tempestivamente ed efficacemente.

Prima del 7 ottobre, l’amministrazione Biden era fortemente impegnata a perseguire la normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele, con impegni controversi per la sicurezza degli Stati Uniti e il sostegno a un programma nucleare civile saudita inclusi nell’accordo. A settembre 2023, una questione chiave che l’amministrazione doveva affrontare era quale componente palestinese avrebbe potuto far parte del pacchetto. Sarebbe stato simile agli Accordi di Abramo, che rinviavano l’annessione ufficiale di parti della Cisgiordania da parte di Israele ma non facevano nient’altro per promuovere l’autogoverno palestinese? Oppure avrebbe incluso cambiamenti significativi in Cisgiordania che, per la prima volta dal ritiro israeliano da Gaza nel 2005, avrebbero rafforzato l’autonomia palestinese in modo significativo?

Una potenziale normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita offre ancora l’opportunità di fare progressi nel conflitto israelo-palestinese e, in una Gaza post-bellica, di offrire almeno una speranza per Gaza. L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, in consorzio o in parallelo, potrebbero sostenere gli attori palestinesi nella costruzione di un futuro diverso a Gaza, se Hamas non vi regnerà più. Hanno il peso arabo e islamico per sostenere gli attori palestinesi laici, e alla fine la stessa AP, che entrerebbero a Gaza per governarla.

Bambini palestinesi in attesa di cibo a Gaza, gennaio 2024. Ibraheem Abu Mustafa / Reuters

Se questi Paesi vedessero un percorso significativo verso l’indipendenza palestinese – un ritorno politicamente significativo per i loro investimenti – potrebbero contribuire a un massiccio sforzo di ricostruzione in cambio di una voce in capitolo sulla direzione di Gaza. Ottenere influenza politica a Gaza – e fornire alcuni finanziamenti – consentirebbe loro di contrastare l’influenza iraniana, qatariota e turca a Gaza e di fornire un autentico guadagno palestinese, che sarebbe politicamente importante per loro se l’Arabia Saudita si unisse agli Emirati Arabi Uniti nella normalizzazione con Israele. Il loro coinvolgimento non sarebbe certo una panacea per la devastazione della Striscia di Gaza, ma l’ipotesi offre una delle migliori strade che vale la pena tentare al momento.

Gli Stati Uniti non dovrebbero illudersi che truppe arabe o di altro genere possano o vogliano impegnarsi nel tipo di campagna controinsurrezionale che, purtroppo, sarà probabilmente necessaria a Gaza per gli anni a venire. Se ci fosse una presenza di sicurezza araba, questa avrebbe una funzione limitata e per lo più simbolica. Nessuna forza araba cercherebbe di fornire un solido ruolo di sicurezza sul terreno, né Israele si fiderebbe di loro per perseguirlo appieno. Tuttavia, gli Stati arabi potrebbero operare in modo pragmatico a Gaza il giorno dopo la fine di Hamas – se tale giorno arrivasse – per ridurre e infine terminare la presenza militare israeliana permanente con l’ingresso di autorità palestinesi credibili. Risolvere questa parte del conflitto potrebbe essere molto più attraente per l’Arabia Saudita rispetto a quelle che sarebbero le modifiche tecniche all’autorità dell’Autorità Palestinese in Cisgiordania, data la visibilità globale e l’estrema necessità di un cambiamento a Gaza, e il guadagno di immagine che lavorare per salvare e ricostruire Gaza potrebbe permettere. Questo tipo di impresa, con tutti i rischi connessi e le possibilità di fallimento, sarebbe un obiettivo degno di un accordo regionale di trasformazione.

La ricostruzione di Gaza, sia fisica che politica, richiederebbe il coinvolgimento di tutti gli attori positivi disponibili. L’Egitto, che teme che la guerra possa addossargli la responsabilità di Gaza – un timore fondamentale per un Paese che ha occupato la Striscia tra il 1948 e il 1967 – o un afflusso di rifugiati palestinesi, avrebbe bisogno di garanzie da parte di Israele per svolgere un ruolo positivo a Gaza in futuro. Tuttavia, con le dovute garanzie, l’Egitto potrebbe essere coinvolto in una coalizione araba più ampia con voci palestinesi laiche, e i suoi servizi di intelligence potrebbero anche fornire un’influenza unica su ciò che accade a Gaza, dove hanno ancora influenza, anche tra i resti di Hamas. Uno sforzo arabo-israeliano completo non può avanzare nel breve termine, poiché Israele è impantanato nella sua guerra e nel risolvere il suo puzzle politico interno. Tuttavia, la costruzione di questa intesa Golfo-Egitto-Palestina-Israele dovrebbe iniziare prima della fine della guerra, anche se è ben lontana da un completo riallineamento regionale.

Occhi sul premio

Anche se una soluzione al conflitto non è al momento disponibile, non è una strategia ragionevole quella di tirare calci alla lattina. Questo approccio non è una gestione del conflitto, ma una strategia che permette al conflitto di gestire entrambe le parti. Una gestione dei conflitti efficace e orientata alla soluzione può avere un aspetto molto diverso. Si tratterebbe di fissare un chiaro orizzonte di indipendenza politica per entrambe le parti – qualcosa di simile a una soluzione a due stati – verso il quale tutti dovrebbero lavorare, e di produrre uno sforzo genuino per indirizzare le cose verso una minore violenza e un minor numero di lamentele in futuro. Sarebbe estremamente difficile, ma molto più facile e meno sanguinoso di qualsiasi alternativa.

Una gestione del conflitto orientata alla soluzione prenderebbe molto sul serio i timori degli israeliani per la sicurezza, esacerbati il 7 ottobre, assumendo al contempo una posizione dura nei confronti delle attività di insediamento israeliane in Cisgiordania che alimentano i timori dei palestinesi. L’obiettivo di questo approccio sarebbe quello di riunire gradualmente Gaza e la Cisgiordania sotto un’Autorità Palestinese costruttiva e dotata di una reale autorità civile, compresa una maggiore contiguità territoriale dell’Area B senza ulteriori capacità di minacciare Israele.

Per anni, i negoziatori, compresi i palestinesi, hanno discusso di uno stato palestinese smilitarizzato come componente di una soluzione a due stati. È tempo di prendere la smilitarizzazione più seriamente, anche mentre tutte le parti lavorano seriamente per rilanciare la prospettiva dell’indipendenza palestinese.

Nessuno di questi passi produrrebbe visioni elevate di una pace duratura. In effetti, gli Stati Uniti dovrebbero essere cauti nel promettere di raggiungere presto soluzioni ambiziose, quando così poche persone credono che siano possibili. Tuttavia, le grandiose nozioni di pace non dovrebbero essere nemiche del miglioramento, di cui c’è estremo bisogno in questo momento. Gli Stati Uniti sono naturalmente, e forse giustamente, stanchi di gestire questo conflitto. Hanno anche questioni e regioni veramente più importanti da considerare. Ma se il 2023 è indicativo, sarebbe molto meglio per i politici americani pragmatici usare il potere americano per cambiare il corso degli eventi in Terra Santa piuttosto che consegnare la situazione agli estremisti e alle dinamiche sanguinose che essi incoraggiano.

Natan Sachs è Senior Fellow presso il programma di politica estera della Brookings Institution e direttore del Centro per la politica del Medio Oriente.

https://www.foreignaffairs.com/israel/peace-between-israelis-and-palestinians-remains-possible?utm_medium=newsletters&utm_source=twofa&utm_campaign=Ukraine%20Is%20Losing%20the%20Drone%20War&utm_content=20240126&utm_term=FA%20This%20Week%20-%20112017

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

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