Abbiamo uno strumento per fermare i crimini di guerra di Israele: il BDS

di Naomi Klein,

The Guardian, 10 gennaio 2024.   

Nel 2005, i palestinesi hanno chiesto al mondo di boicottare Israele finché non avesse rispettato il diritto internazionale. E se avessimo ascoltato?

Esattamente 15 anni fa, questa settimana, ho pubblicato un articolo sul Guardian. Iniziava così:

Basta. È tempo di boicottaggio

Il momento è arrivato. Anzi, è passato da un pezzo. La strategia migliore per porre fine all’occupazione, sempre più sanguinosa, è che Israele diventi l’obiettivo di quel tipo di movimento globale che ha posto fine all’apartheid in Sudafrica. Nel luglio 2005, un’ampia coalizione di gruppi palestinesi ha presentato un piano per fare proprio questo. Hanno invitato “le persone di coscienza di tutto il mondo a imporre ampi boicottaggi e ad attuare iniziative di disinvestimento contro Israele simili a quelle applicate al Sudafrica nell’era dell’apartheid”. È nata la campagna Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS).

Nel gennaio 2009, Israele ha scatenato una nuova scioccante fase di uccisioni di massa nella Striscia di Gaza, chiamando la sua feroce campagna di bombardamenti operazione ‘Piombo Fuso’. L’operazione ha ucciso 1.400 palestinesi in 22 giorni; il numero di vittime da parte israeliana è stato pari a 13. È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso e, dopo anni di reticenza, mi sono schierata pubblicamente a favore dell’appello guidato dai palestinesi per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni contro Israele finché non rispetterà il diritto internazionale e i principi universali dei diritti umani, noto come BDS.

Sebbene il BDS godesse di un ampio sostegno da parte di oltre 170 organizzazioni della società civile palestinese, a livello internazionale il movimento è rimasto piccolo. Durante l’operazione ‘Piombo Fuso’, la situazione ha iniziato a cambiare e un numero crescente di gruppi studenteschi e sindacali al di fuori della Palestina ha aderito.

Tuttavia, molti non aderivano. Ho capito il motivo per cui la tattica proposta sembrava troppo difficile. Esiste infatti una lunga e dolorosa storia di imprese e istituzioni ebraiche prese di mira dagli antisemiti. I lobbysti esperti che esercitano pressioni a favore di Israele sanno come avvalersi di questo trauma, per cui invariabilmente presentano le campagne volte a contestare le politiche discriminatorie e violente di Israele come attacchi odiosi agli ebrei in generale.

Per due decenni, la paura diffusa derivante da questa falsa equiparazione ha protetto Israele dal dover affrontare il pieno potenziale del movimento BDS; ma ora, mentre la Corte Internazionale di Giustizia ascolta la devastante raccolta di prove secondo cui Israele commette il crimine di genocidio a Gaza, ce n’è davvero abbastanza.

Dal boicottaggio degli autobus al disinvestimento dai combustibili fossili, le tattiche BDS hanno una storia ben documentata come armi tra le più potenti dell’arsenale nonviolento. Riprenderle e usarle in questo momento di svolta per l’umanità è un obbligo morale.

La responsabilità è particolarmente forte per quelli di noi i cui governi continuano ad aiutare attivamente Israele con armi letali, accordi commerciali lucrativi e veti alle Nazioni Unite. Come ci ricorda il BDS, non dobbiamo lasciare che questi accordi sciagurati parlino a nome nostro senza essere contestati.

Gruppi di consumatori organizzati hanno il potere di boicottare le aziende che investono in insediamenti illegali o che producono armi israeliane. I sindacati possono spingere i loro fondi pensione a disinvestire da queste aziende. Le amministrazioni comunali possono selezionare gli appaltatori in base a criteri etici che vietino queste relazioni. Come ci ricorda Omar Barghouti, uno dei fondatori e leader del movimento BDS: “L’obbligo etico più profondo in questi tempi è quello di agire per porre fine alla complicità. Solo così possiamo davvero sperare di porre fine all’oppressione e alla violenza”.

In questo senso, il BDS merita di essere visto come una politica estera popolare, o una diplomazia dal basso; e se diventa abbastanza forte, finirà per costringere i governi a imporre sanzioni dall’alto, come sta cercando di fare il Sudafrica. E questa è chiaramente l’unica forza che può far uscire Israele dal suo attuale percorso.

Barghouti sottolinea che, proprio come alcuni sudafricani bianchi sostennero le campagne anti-apartheid durante quella lunga lotta, gli ebrei israeliani che si oppongono alle violazioni sistematiche del diritto internazionale da parte del loro Paese sono invitati a unirsi al BDS. Durante l’operazione ‘Piombo Fuso’, un gruppo di circa 500 israeliani, molti dei quali artisti e studiosi di spicco, ha fatto proprio questo, dando alla fine il nome di Boycott from Within al loro gruppo.

Nel mio articolo del 2009, citavo la loro prima lettera di pressione, che chiedeva “l’adozione di misure restrittive e sanzioni immediate” contro il loro Paese e tracciava un parallelo diretto con la lotta anti-apartheid sudafricana. “Il boicottaggio del Sudafrica è stato efficace”, sottolineavano, affermando che il boicottaggio aveva contribuito a porre fine alla legalizzazione della discriminazione e della ghettizzazione in quel Paese, aggiungendo: “Ma Israele è trattato con i guanti bianchi… Questo sostegno internazionale deve finire”.

Questo era vero 15 anni fa; lo è purtroppo anche oggi.

Il prezzo dell’impunità

Leggendo i documenti del BDS della metà e della fine degli anni 2000, mi colpisce soprattutto la misura del deterioramento del terreno politico e umano. Negli anni successivi, Israele ha costruito più muri, eretto più posti di blocco, sguinzagliato più coloni illegali e lanciato guerre molto più letali. Tutto è peggiorato: il vetriolo, la rabbia, il giustificazionismo. È chiaro che l’impunità – il senso di impermeabilità e intoccabilità riservato a Israele che sta alla base del trattamento riservato ai palestinesi – tutto questo non è una forza statica. Si comporta piuttosto come una fuoriuscita di petrolio: una volta rilasciata, si riversa all’esterno, avvelenando tutto e tutti quelli che incontra. Si diffonde in superficie e affonda in profondità.

Da quando è stato lanciato l’appello originale per il BDS nel luglio 2005, il numero di coloni che vivono illegalmente in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, è esploso, raggiungendo una cifra stimata di 700.000 persone – vicina al numero di palestinesi espulsi durante la Nakba del 1948. Con l’espansione degli avamposti dei coloni, è aumentata anche la violenza degli attacchi dei coloni contro i palestinesi, mentre l’ideologia della supremazia ebraica e persino il palese fascismo si sono spostati al centro della cultura politica in Israele.

Quando ho scritto il mio primo articolo sul BDS, c’era un consenso nell’opinione pubblica che l’analogia con il Sudafrica fosse inappropriata e che la parola “apartheid”, usata da studiosi di diritto palestinese, attivisti e organizzazioni per i diritti umani, fosse inutilmente infiammatoria. Ora, tutti, da Human Rights Watch ad Amnesty International, fino alla principale organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, hanno condotto studi accurati e sono giunti all’ineluttabile conclusione che apartheid è effettivamente il termine legale corretto per descrivere le condizioni in cui israeliani e palestinesi conducono vite nettamente diseguali e segregate. Anche Tamir Pardo, l’ex capo dell’agenzia di intelligence Mossad, ha ammesso il punto: “Qui c’è uno stato di apartheid”, ha detto a settembre. “Un territorio in cui due persone sono giudicate in base a due sistemi legali diversi, è uno stato di apartheid”.

Inoltre, molti ora capiscono che l’apartheid non esiste solo nei territori occupati, ma anche all’interno dei confini israeliani del 1948, un caso illustrato in un importante rapporto del 2022 di una coalizione di gruppi palestinesi per i diritti umani organizzata da Al-Haq. È difficile sostenere il contrario quando l’attuale governo di estrema destra israeliano è salito al potere con un accordo di coalizione che afferma: “Il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e indiscutibile su tutte le aree della Terra d’Israele… la Galilea, il Negev, il Golan, la Giudea e la Samaria”.

Quando regna l’impunità, tutto si può spostare e muoversi, anche la frontiera coloniale. Nulla rimane statico.

Poi c’è Gaza. Il numero di palestinesi uccisi nell’operazione ‘Piombo Fuso’ sembrava inarrivabile all’epoca. Ben presto abbiamo capito che non si trattava di un evento isolato. Al contrario, quell’operazione ha inaugurato una nuova politica omicida che i funzionari militari israeliani chiamavano disinvoltamente “falciare l’erba”: ogni due anni portava una nuova campagna di bombardamenti, che uccideva centinaia di palestinesi o, nel caso dell’operazione ‘Protective Edge’ del 2014, più di 2.000, tra cui 526 bambini.

Quei numeri hanno scioccato ancora una volta e hanno scatenato una nuova ondata di proteste. Non è stato comunque sufficiente a privare Israele della sua impunità, che ha continuato a essere protetta dall’immancabile veto degli Stati Uniti all’ONU, oltre che dal costante flusso di armi. Più corrosiva della mancanza di sanzioni internazionali è stata la ricompensa: negli ultimi anni, accanto a tutta questa illegalità, Washington ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele e vi ha trasferito la propria ambasciata. Ha anche mediato i cosiddetti accordi di Abramo, che hanno dato il via a lucrosi accordi di normalizzazione tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Sudan e il Marocco.

Palestinesi che ispezionano le rovine di Khan Younis dopo gli attacchi aerei israeliani a Gaza, l’8 luglio 2014. Anadolu/Getty Images

È stato Donald Trump a iniziare a inondare Israele con questi ultimi e tanto desiderati regali, ma il processo è proseguito senza soluzione di continuità sotto Joe Biden. Così, alla vigilia del 7 ottobre, Israele e Arabia Saudita erano sul punto di firmare quello che era stato salutato come “l’accordo del secolo”.

Dove erano i diritti e le aspirazioni dei palestinesi in tutti questi accordi? Assolutamente da nessuna parte. Perché l’altra cosa che era scomparsa in questi anni di impunità era qualsiasi indicazione che Israele intendesse tornare al tavolo dei negoziati. L’obiettivo chiaro era quello di schiacciare il movimento palestinese per l’autodeterminazione usando la forza, oltre all’isolamento fisico e politico e alla frammentazione.

Sappiamo come sono andati i capitoli successivi di questa storia. L’orribile attacco di Hamas del 7 ottobre. La furiosa determinazione di Israele a sfruttare quei crimini per fare ciò che alcuni alti dirigenti del governo volevano fare da tempo: sfollare i palestinesi da Gaza, cosa che attualmente sembra si stia tentando di fare attraverso la combinazione di uccisioni dirette, demolizioni in massa di case (“domicidi“), diffusione di fame, sete e malattie infettive e, infine, espulsioni di massa.

Sia chiaro: questo è ciò che significa permettere a uno stato di diventare canaglia, lasciare che l’impunità regni incontrollata per decenni, usando i veri traumi collettivi subiti dal popolo ebraico come scusa e storia inesauribile di copertura. Un’impunità del genere non inghiottirà un solo paese, ma tutti i paesi con cui è alleato. Inghiottirà l’intera architettura internazionale del diritto umanitario forgiata tra le fiamme dell’olocausto nazista. Se glielo permettiamo.

Un decennio di attacchi legali al BDS

Il che solleva un’altra questione che non è rimasta stabile negli ultimi due decenni: l’ossessione crescente di Israele per la repressione del BDS, a prescindere dal costo dei diritti politici faticosamente conquistati. Nel 2009, i critici del BDS sostenevano molti motivi per cui l’iniziativa era una cattiva idea. Alcuni temevano che i boicottaggi culturali e accademici avrebbero interrotto il necessario collegamento con gli israeliani progressisti, e temevano che si sarebbe sfociati nella censura. Altri hanno sostenuto che le misure punitive creerebbero un contraccolpo e sposterebbero Israele più a destra.

È quindi sorprendente, guardando indietro, che quei primi dibattiti siano praticamente scomparsi dalla sfera pubblica, e non perché una parte abbia vinto la discussione. Sono scomparsi perché l’intera idea di avere un dibattito è stata soppiantata da un’unica strategia: usare l’intimidazione legale e istituzionale per mettere le tattiche BDS fuori portata e chiudere il movimento.

Finora negli Stati Uniti sono state presentate 293 proposte di legge anti-BDS in tutto il Paese e sono state promulgate in 38 Stati, secondo Palestine Legal, che ha seguito da vicino questa ondata. Alcune leggi prendono di mira i finanziamenti universitari, altre richiedono che chiunque riceva un contratto con uno stato o lavori per uno stato firmi un contratto in cui si impegna a non boicottare Israele, e “alcune chiedono allo stato di compilare liste nere pubbliche degli enti che boicottano i diritti dei palestinesi o sostengono il BDS”. In Germania, invece, il sostegno a qualsiasi forma di BDS è sufficiente per causare la revoca di premi, il ritiro di finanziamenti, la cancellazione di spettacoli e conferenze (cosa che ho sperimentato di persona).

Questa strategia è, naturalmente, più aggressiva all’interno di Israele stesso. Nel 2011, il Paese ha promulgato la Legge per la Prevenzione dei Danni allo Stato di Israele causati dal Boicottaggio, stroncando sul nascere il nascente movimento Boycott from Within. Il centro legale Adalah, un’organizzazione che lavora per i diritti delle minoranze arabe in Israele, spiega che la legge “proibisce la promozione pubblica del boicottaggio accademico, economico o culturale da parte di cittadini e organizzazioni israeliane contro le istituzioni israeliane o gli insediamenti israeliani illegali in Cisgiordania. La legge consente di intentare cause civili contro chiunque inviti al boicottaggio”. Come le leggi di alcuni stati USA, “proibisce anche a chi sostiene il boicottaggio di partecipare a qualsiasi gara d’appalto pubblica”. Nel 2017, Israele ha iniziato a vietare apertamente l’ingresso in Israele agli attivisti pro-BDS; 20 gruppi internazionali sono stati inseriti nella cosiddetta lista nera BDS, tra cui l’organizzazione contro la guerra Jewish Voice for Peace.

Nel frattempo, in tutti gli Stati Uniti, i lobbisti delle compagnie del petrolio e del gas e i produttori di armi stanno prendendo spunto dall’offensiva legale anti-BDS e stanno spingendo legislazioni simili per limitare le campagne di disinvestimento che prendono di mira i loro clienti. “Questo dimostra perché è così pericoloso permettere questo tipo di divieto di parlare di Palestina”, ha dichiarato Meera Shah, avvocata senior di Palestine Legal, alla rivista Jewish Currents. “Perché non solo è dannoso per il movimento per i diritti dei palestinesi, ma finisce per danneggiare altri movimenti sociali”. Ancora una volta, nulla rimane statico, l’impunità si espande, e quando i diritti di boicottaggio e disinvestimento vengono tolti per la solidarietà palestinese, viene tolto anche il diritto di usare questi stessi strumenti per spingere l’azione per il clima, il controllo delle armi e i diritti LGBTQ+.

In un certo senso, questo è un vantaggio, perché offre l’opportunità di approfondire le alleanze tra i movimenti. Tutte le principali organizzazioni progressiste e i sindacati hanno interesse a proteggere il diritto al boicottaggio e al disinvestimento come principi fondamentali della libera espressione e strumenti critici di trasformazione sociale. Il piccolo team di Palestine Legal ha guidato la spinta negli Stati Uniti in modo straordinario, presentando cause in tribunale che contestano l’incostituzionalità delle leggi anti-BDS e sostenendo le cause di contenuto opposto. Questi attivisti meritano molto più sostegno.

È finalmente arrivato il momento del BDS?

C’è un altro motivo per rincuorarsi: il motivo per cui Israele insegue il BDS con tanta ferocia è lo stesso per cui tanti attivisti hanno continuato a crederci nonostante questi attacchi su più fronti. Perché può funzionare.

Lo abbiamo visto quando compagnie mondiali hanno iniziato a ritirarsi dal Sudafrica negli anni Ottanta. Non perché fossero improvvisamente colpite da illuminazioni morali antirazziste. Ma, quando il movimento è diventato internazionale e le campagne di boicottaggio e disinvestimento hanno iniziato a influenzare le vendite di auto e i clienti delle banche al di fuori del paese, queste aziende hanno calcolato che sarebbe costato loro di più rimanere in Sudafrica che andarsene. I governi occidentali hanno iniziato poi a imporre sanzioni per ragioni simili.

Questo ha danneggiato il settore imprenditoriale sudafricano, parti del quale hanno esercitato pressioni sul governo dell’apartheid affinché facesse concessioni ai movimenti di liberazione dei neri che da decenni si ribellavano all’apartheid con rivolte, scioperi di massa e resistenza armata. I costi del mantenimento di uno status quo crudele e violento erano sempre più alti, anche per l’élite sudafricana.

Da ultimo, alla fine degli anni ’80, la tenaglia di pressioni dall’esterno e dall’interno si è fatta così intensa da costringere il presidente Frederik de Klerk a rilasciare Nelson Mandela dal carcere dopo 27 anni e a indire le elezioni con voto uninominale che portarono Mandela alla presidenza.

Le organizzazioni palestinesi che hanno mantenuto viva la fiamma del BDS in anni molto bui ripongono ancora la loro speranza nel modello sudafricano di pressione esterna. In effetti, mentre Israele perfeziona l’architettura e l’ingegneria della ghettizzazione e dell’espulsione, questa potrebbe essere l’unica speranza.

Questo perché Israele è molto più immune dalle pressioni interne dei palestinesi di quanto non lo fossero i sudafricani bianchi sotto l’apartheid, che dipendevano dalla manodopera nera per tutto, dal lavoro domestico all’estrazione dei diamanti. Quando i neri sudafricani ritiravano la loro manodopera o si impegnavano in altri tipi di disordini economici, non potevano essere ignorati.

Israele ha imparato dalla vulnerabilità del Sudafrica: dagli anni ’90, la sua dipendenza dalla manodopera palestinese è diminuita costantemente, in gran parte grazie ai cosiddetti lavoratori ospiti e all’afflusso di circa un milione di ebrei dall’ex Unione Sovietica. Ciò ha contribuito a rendere possibile il passaggio dal modello di oppressione dell’occupazione all’odierno modello di ghettizzazione, che tenta di far scomparire i palestinesi dietro imponenti mura con sensori ad alta tecnologia e con la tanto decantata difesa aerea Iron Dome di Israele.

Ma questo modello – chiamiamolo “bolla fortificata” – comporta delle vulnerabilità proprie, e non solo nei confronti degli attacchi di Hamas. La vulnerabilità più sistemica deriva dall’estrema dipendenza di Israele dal commercio con l’Europa e il Nord America, per qualsiasi cosa, dal settore del turismo a quello della tecnologia di sorveglianza alimentata dall’intelligenza artificiale. Il marchio che Israele ha creato per se stesso è quello di un avamposto occidentale nel deserto, una piccola bolla di San Francisco o Berlino che si trova per caso nel mondo arabo.

Questo la rende particolarmente suscettibile alle tattiche del BDS, compresi i boicottaggi culturali e accademici. Perché quando le pop star, per evitare polemiche, cancellano le loro tappe a Tel Aviv, e le prestigiose università statunitensi tagliano i loro partenariati ufficiali con le università israeliane dopo aver assistito alla distruzione di numerose scuole e università palestinesi, e quando le persone di prestigio non scelgono più Eilat per le loro vacanze perché i loro follower su Instagram non ne rimarrebbero impressionati, si mina l’intero modello economico di Israele e il suo senso di sé.

Ciò introdurrà pressione laddove oggi i leader israeliani ne sentono chiaramente poca. Se le aziende tecnologiche e ingegneristiche globali smetteranno di vendere prodotti e servizi alle forze armate israeliane, la pressione aumenterà ulteriormente, forse abbastanza da spostare le dinamiche politiche. Gli israeliani vogliono fortemente far parte della comunità mondiale e, se si trovano improvvisamente isolati, molti più elettori potrebbero iniziare a chiedere alcune delle azioni che gli attuali leader israeliani respingono a priori, come negoziare con i palestinesi per una pace duratura radicata nella giustizia e nell’uguaglianza definite dal diritto internazionale, piuttosto che cercare di proteggere la propria bolla fortificata con il fosforo bianco e la pulizia etnica.

Il problema, naturalmente, è che per far funzionare le tattiche nonviolente del BDS, le vittorie non possono essere sporadiche o marginali. Devono essere sostenute e popolari, almeno quanto la campagna sudafricana, che ha visto grandi aziende come General Motors e Barclays Bank ritirare i loro investimenti, mentre artisti di fama come Bruce Springsteen e Ringo Starr si sono uniti a un supergruppo tipicamente anni ’80 per intonare “ain’t gonna play Sun City” (“non andrò a cantare a Sun City”, un riferimento all’iconico resort di lusso del Sudafrica).

Il movimento BDS contro l’ingiustizia di Israele è certamente cresciuto negli ultimi 15 anni; Barghouti stima che i “sindacati dei lavoratori e degli agricoltori, così come i movimenti per la giustizia razziale, sociale, di genere e climatica” che lo sostengono “rappresentano collettivamente decine di milioni in tutto il mondo”. Ma il movimento non ha ancora raggiunto il punto di svolta realizzato nel Sudafrica.

Questo ha avuto un costo. Non c’è bisogno di essere uno storico delle lotte di liberazione per sapere che quando le tattiche moralmente guidate vengono ignorate, messe in disparte, infangate e bandite, allora altre tattiche – svincolate da quelle preoccupazioni etiche – diventano molto più attraenti per le persone che cercano disperatamente una speranza di cambiamento.

Non sapremo mai come il presente sarebbe potuto essere diverso se un maggior numero di individui, organizzazioni e governi avessero ascoltato l’appello del BDS lanciato dalla società civile palestinese nel 2005. Quando ho contattato Barghouti qualche giorno fa, non guardava a due decenni, ma a 75 anni di impunità. Israele, ha detto, “non sarebbe stato in grado di perpetrare il suo genocidio teletrasmesso che è in corso a Gaza senza la complicità di stati, aziende e istituzioni con il suo sistema di oppressione”. La complicità, ha sottolineato, è qualcosa che tutti noi abbiamo il potere di rifiutare.

Una cosa è certa: le attuali atrocità a Gaza rafforzano drammaticamente la causa del boicottaggio, del disinvestimento e delle sanzioni. Le tattiche nonviolente che molti consideravano estreme, o per cui temevano di essere etichettati come antisemiti, appaiono molto diverse alla luce fioca di due decenni di carneficina, con nuove macerie che si accumulano sulle vecchie, nuovi lutti e traumi impressi nella psiche delle nuove generazioni e nuove profondità di depravazione raggiunte sia nelle parole che nei fatti.

Domenica scorsa, per il suo ultimo programma su MSNBC, Mehdi Hasan ha intervistato il fotoreporter palestinese di Gaza Motaz Azaiza, che rischia la propria vita, giorno dopo giorno, per portare al mondo le immagini delle uccisioni di massa di Israele. Il suo messaggio ai telespettatori statunitensi è stato netto: “Non definirti una persona libera se non puoi fare dei cambiamenti, se non puoi fermare un genocidio che è ancora in corso”.

In un momento come il nostro, siamo ciò che facciamo. Molte persone hanno fatto più che mai: bloccando le spedizioni di armi, occupando le sedi del governo per chiedere un cessate il fuoco, unendosi alle proteste di massa, dicendo la verità, per quanto difficile. La combinazione di queste azioni potrebbe aver contribuito allo sviluppo più significativo nella storia del BDS: la richiesta del Sudafrica alla Corte internazionale di giustizia (CIG) dell’Aia che accusa Israele di commettere genocidio e chiede misure provvisorie per fermare l’attacco a Gaza.

Una recente analisi del quotidiano israeliano Haaretz osserva che se la Corte Internazionale di Giustizia si pronuncerà a favore del Sudafrica, anche se gli Stati Uniti dovessero porre il veto all’intervento militare presso le Nazioni Unite, “un’ingiunzione potrebbe comportare l’ostracizzazione di Israele e delle aziende israeliane e l’assoggettamento a sanzioni imposte da singoli paesi o blocchi”.

I boicottaggi di base, nel frattempo, stanno già iniziando a dare i loro frutti. A dicembre, Puma – uno dei principali bersagli del BDS – ha fatto sapere che interromperà la sua controversa sponsorizzazione della squadra nazionale di calcio israeliana. Prima ancora, c’è stato un esodo di artisti da un importante festival del fumetto in Italia, dopo che è emerso che l’ambasciata israeliana era tra gli sponsor. Questo mese, l’amministratore delegato di McDonald’s, Chris Kempczinski, ha scritto che quella che ha definito “disinformazione” stava avendo “un impatto commerciale significativo” su alcune vendite in “diversi mercati del Medio Oriente e in alcuni al di fuori della regione”. Il riferimento era all’ondata di indignazione suscitata dalla notizia che McDonald’s Israele aveva donato migliaia di pasti ai soldati israeliani. Kempczinski ha cercato di separare il marchio globale dagli “operatori locali”, ma pochi nel movimento BDS sono convinti della distinzione.

Sarà inoltre fondamentale, mentre lo slancio per il BDS continua a crescere, essere consapevoli del fatto che ci troviamo nel mezzo di un’allarmante e reale ondata di crimini d’odio, molti dei quali diretti contro palestinesi e musulmani, ma anche contro aziende e istituzioni ebraiche semplicemente perché sono ebree. Questo è antisemitismo, non attivismo politico.

Il BDS è un movimento serio e non violento con un modello di governo consolidato. Pur lasciando agli organizzatori locali l’autonomia di determinare quali campagne funzioneranno nelle loro aree, il comitato nazionale BDS (BNC) stabilisce i principi guida del movimento e seleziona attentamente un piccolo gruppo di obiettivi aziendali ad alto impatto, scelti “a causa della loro comprovata complicità nelle violazioni dei diritti umani dei palestinesi da parte di Israele”.

Il BNC è anche molto chiaro sul fatto che non chiede il boicottaggio di singoli israeliani perché sono israeliani, affermando che “rifiuta, per principio, il boicottaggio di individui basato sulla loro opinione o identità (come la cittadinanza, la razza, il genere o la religione)”. In altre parole, i bersagli sono istituzioni complici del sistema di oppressione, non persone.

Nessun movimento è perfetto. Ogni movimento farà dei passi falsi. La domanda più urgente ora, tuttavia, ha poco a che fare con la perfezione. È semplicemente questa: cosa ha le maggiori possibilità di cambiare uno status quo moralmente intollerabile, fermando al contempo ulteriori spargimenti di sangue? L’indomito giornalista di Haaretz Gideon Levy non si fa illusioni su ciò che sarà necessario. Recentemente ha detto a Owen Jones: “La chiave è nella comunità internazionale – voglio dire, Israele non cambierà da solo… La formula è molto semplice: finché gli israeliani non pagheranno e non saranno puniti per l’occupazione e non ne risponderanno e non la sentiranno quotidianamente, non cambierà nulla”.

La polizia antisommossa minaccia i manifestanti anti-apartheid a Johannesburg, in Sudafrica, il 20 agosto 1989. Louise Gubb/Corbis/Getty Images

È tardi

Nel luglio 2009, pochi mesi dopo la pubblicazione del mio articolo originale sul BDS, mi sono recata a Gaza e in Cisgiordania. A Ramallah ho tenuto una conferenza sulla mia decisione di sostenere il BDS. Ho incluso le mie scuse per non aver aggiunto la mia voce prima, e ho confessato di aver avuto paura: paura che la tattica fosse troppo estrema se rivolta a uno stato forgiato dal trauma ebraico; paura di essere accusata di tradire il mio popolo. Paure che ho ancora.

“Meglio tardi che mai”, mi ha detto un gentile spettatore dopo la conferenza.

Era tardi allora, è ancora più tardi adesso. Ma non è troppo tardi. Non è troppo tardi per tutti noi per creare una nostra politica estera dal basso, che intervenga nella cultura e nell’economia in modi intelligenti e strategici – modi che offrano una speranza tangibile che i decenni di impunità incontrollata di Israele cessino finalmente.

Come ha chiesto la settimana scorsa il comitato nazionale BDS: “Se non ora, quando? Il movimento anti-apartheid sudafricano si è organizzato per decenni per ottenere un ampio sostegno internazionale che portasse alla caduta dell’apartheid; e l’apartheid è caduto. La libertà è inevitabile. È il momento di agire per unirsi al movimento per la libertà, la giustizia e l’uguaglianza in Palestina”.

Basta. È ora di boicottare.

https://www.theguardian.com/commentisfree/2024/jan/10/only-outside-pressure-can-stop-israels-war-crimes

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

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