La strategia di Israele a Gaza: creare fatti sul terreno che non possono essere annullati

Gen 3, 2024 | Notizie, Riflessioni

di Tariq Kenney-Shawa,

Los Angeles Times, 2 gennaio 2024.  

Palestinesi che osservano la distruzione dell’edificio della famiglia Gatshan dopo un attacco israeliano nel campo profughi di Nuseirat, a Gaza, il 18 dicembre. (Adel Hana / Associated Press)

Per decenni, Israele ha stabilito “fatti sul terreno” per espandere e consolidare il suo controllo sulla Cisgiordania, sfidando la condanna internazionale. Ora, dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, Israele sta usando la stessa strategia per raggiungere un nuovo obiettivo: la pulizia etnica di Gaza.

Allontanando 2 milioni di persone dalle loro case, distruggendo le infrastrutture critiche e spianando interamente enormi porzioni di territorio, i nuovi fatti sul terreno che Israele sta creando renderanno Gaza inabitabile prima che le armi tacciano, non lasciando altra opzione che lo sfollamento di massa.

Questo approccio – creare una realtà virtualmente impossibile da cancellare – è stato messo in atto da Israele negli anni ’70 con la sua rapida costruzione di insediamenti in territorio palestinese, ampiamente riconosciuti come illegali dal diritto internazionale. Anche allora, la strategia non era nuova. Anni prima della creazione dello Stato di Israele nel 1948, i coloni sionisti si riversarono in Palestina e fondarono piccole comunità, o kibbutzim. Questi insediamenti furono fondamentali per creare legami fisici e permanenti con la terra.

Dopo aver sbaragliato gli eserciti arabi nel 1967, Israele ha preso il controllo di vaste regioni, dal Sinai egiziano alle alture siriane del Golan. Negli anni successivi, la comunità internazionale è stata concorde nel riconoscere l’”inammissibilità dell’acquisizione di territorio con la guerra”. Ma Israele aveva altre idee. Anche se l’Egitto avrebbe in seguito reclamato la sua terra in un trattato di pace, Israele intraprese una campagna per solidificare il suo controllo sulla Palestina e sul Golan siriano, stabilendo nuovi fatti sul terreno progettati per rendere impossibile qualsiasi accordo negoziale, qualsiasi alternativa alla piena sovranità israeliana.

Tra il 1967 e il 2017, Israele ha costruito più di 270 insediamenti e avamposti in tutta la Cisgiordania e a Gerusalemme Est, frammentando in isole separate la terra che avrebbe dovuto servire come cuore di un futuro Stato palestinese. Oggi, più di 700.000 coloni vivono in una rete di insediamenti israeliani in continua espansione, garantendo che, anche se avvenisse un miracolo e si costituisse uno Stato palestinese lungo i confini del 1967, esso sarebbe irrimediabilmente frammentato e di fatto ingovernabile.

Non aveva importanza che questi insediamenti fossero considerati all’unanimità dalla comunità internazionale come illegali secondo il diritto internazionale. Né aveva importanza che persino gli Stati Uniti, il più forte sostenitore e benefattore di Israele, vedessero la politica espansionistica degli insediamenti come un ostacolo alla pace. Ciò che importava era che gli insediamenti fossero lì, manifestazioni fisiche dell’espansione coloniale israeliana.

Mentre i palestinesi basavano le loro legittime rivendicazioni territoriali sull’essere indigeni, sul diritto internazionale e persino sugli atti di proprietà, Israele poteva indicare la presenza fisica degli insediamenti e dei coloni israeliani, fare spallucce e dire: “Ora è così”. La comunità internazionale, senza alcun desiderio o capacità di intervenire, sarebbe stata di fatto costretta a riconoscere retroattivamente la realtà costruita da Israele.

Ora, il governo israeliano sta nuovamente ricostruendo unilateralmente la realtà sul terreno, distruggendo così tutte le speranze di un futuro pacifico. Questa volta non sta perseguendo obiettivi espansionistici attraverso la costruzione di insediamenti, anche se il reinsediamento di Gaza potrebbe benissimo essere il piano a lungo termine. Nel tentativo di annientare Hamas, Israele sta cancellando dalla carta geografica la Gaza che conosciamo, rendendola invivibile per i 2,3 milioni di palestinesi che la chiamano casa. Questo non è lo sfortunato risultato di una guerra, ma una strategia calcolata per raggiungere l’obiettivo di avere il massimo della terra con il minimo dei palestinesi.

Anche prima del nuovo assalto di Israele, le infrastrutture di Gaza erano paralizzate da oltre 16 anni di soffocante blocco israeliano. Più dell’85% dei 2,3 milioni di abitanti di Gaza sono sfollati interni nel paese, senza un luogo sicuro in cui rifugiarsi. Se l’assalto di Israele finisse oggi, gli analisti stimano che oltre il 50% delle abitazioni di Gaza sia già stato gravemente danneggiato o distrutto. Secondo quanto riferito, Israele avrebbe intenzione di inondare la rete di tunnel di Hamas con acqua di mare, rischiando di inquinare in modo permanente il suolo di Gaza, contaminando le falde acquifere e causando un ulteriore crollo delle infrastrutture.

Cosa accadrà alle centinaia di migliaia, se non milioni, di gazawi dopo questa distruzione? Naturalmente, Israele non assorbirà la nuova ondata di rifugiati che creerà. Il loro destino sarà affidato agli stati arabi vicini e alla comunità internazionale dei donatori.

I leader arabi, dal presidente egiziano Abdel Fattah Sisi al re giordano Abdullah, hanno chiarito che lo spostamento in massa dei palestinesi da Gaza è una “linea rossa” da non valicare. Persino l’amministrazione Biden, che ha dato carta bianca a Israele per decimare Gaza, ha recentemente affermato che Israele deve lavorare per evitare “ulteriori spostamenti significativi” di civili palestinesi. Eppure, nessuno sta utilizzando le proprie leve per dissuadere Israele dal creare le condizioni che renderanno inevitabile questo risultato, che pure si giudica inaccettabile.

Qui sta la minaccia della strategia israeliana dei “fatti sul terreno”. Nel corso degli anni, i leader israeliani hanno raggiunto i loro obiettivi espansionistici attuando gradualmente, ma costantemente, pratiche ampiamente aborrite dalla comunità internazionale e illegali secondo il diritto internazionale. In Cisgiordania, la pulizia etnica di tutti i palestinesi in un colpo solo probabilmente scatenerebbe un intervento regionale e forse anche internazionale, ma prendere la terra in modo graduale, costruendo insediamenti come fatti permanenti sul terreno, può raggiungere lo stesso scopo con minori ripercussioni.

Allo stesso modo, Israele non ha bisogno di uccidere l’intera popolazione di Gaza in una volta sola. Tutto ciò che deve fare è garantire che la Striscia di Gaza sia inabitabile e il resto seguirà. Israele può ancora una volta scrollare le spalle e sottolineare la realtà irreversibile che ha creato.

Non deve finire così. La comunità internazionale, con gli Stati Uniti in testa, potrebbe abbandonare la sua pretesa di impotenza e far leva sui suoi ampi strumenti economici e diplomatici per far capire a Israele che lo sfollamento di massa dei palestinesi è inaccettabile, che i gazawi devono poter tornare alle loro case. Se non interviene ora, Israele procederà, come ha fatto in Cisgiordania, distruggendo sistematicamente la praticabilità di tutte le soluzioni alternative e assicurando un’altra Nakba di proporzioni storiche.

Tariq Kenney-Shawa è U.S. policy fellow presso Al-Shabaka, un think tank no-profit che si occupa di questioni palestinesi.

https://www.latimes.com/opinion/story/2024-01-02/israel-gaza-west-bank-settlements-facts-on-the-ground

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

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