di Mouin Rabbani,
Mondoweiss, 28 dicembre 2023.
La pulizia etnica o “trasferimento” è una parte intrinseca della storia iniziale del sionismo ed è rimasta una caratteristica essenziale della vita politica israeliana. In tempi più recenti, il “trasferimento” è stato pubblicizzato come incoraggiamento all’“emigrazione volontaria”.
Gli alti dirigenti israeliani, tra cui il Primo Ministro Binyamin Netanyahu, stanno di nuovo sostenendo pubblicamente la pulizia etnica della Striscia di Gaza. Le loro proposte vengono presentate come programmi di emigrazione volontaria, in cui Israele sta semplicemente svolgendo il ruolo di buon samaritano, mediando disinteressatamente con i governi stranieri per trovare nuove case ai palestinesi indigenti e disperati. Ma si tratta comunque di pulizia etnica.
I campanelli d’allarme avrebbero dovuto suonare all’inizio di novembre, quando il Segretario di Stato americano Antony Blinken e altri politici occidentali hanno cominciato a insistere che non ci sarebbe stato “alcun trasferimento forzato di palestinesi da Gaza”. Invece di rifiutare qualsiasi allontanamento di massa dei palestinesi, Blinken e colleghi si sono opposti solo a espulsioni visivamente impegnative fatte sotto la minaccia delle armi. L’opzione dell’allontanamento “volontario”, lasciando ai residenti della Striscia di Gaza nessun’altra scelta se non quella di partire, è stata lasciata chiaramente aperta.
La pulizia etnica, o “trasferimento” come viene chiamata nel linguaggio israeliano, ha un lungo pedigree che risale agli inizi del movimento sionista alla fine del XIX secolo. Sebbene i primi sionisti avessero adottato lo slogan “Una terra senza popolo per un popolo senza terra”, le prove dimostrano che, fin dall’inizio, i loro leader avevano altre idee in testa. Più precisamente, essi compresero chiaramente che i palestinesi costituivano il principale ostacolo alla creazione di uno stato ebraico in Palestina. Questo per la semplice ragione che, per loro, uno “stato ebraico” significava uno stato in cui la popolazione ebraica acquisisce e mantiene una supremazia demografica, territoriale e politica incontrastata.
Ed entra in scena il “trasferimento”. Già nel 1895 Theodor Herzl, il fondatore del movimento sionista contemporaneo, descrisse in questi termini la necessità di trasferire chi già abitava in Palestina: “Cercheremo di spingere la popolazione povera oltre il confine, procurandole un impiego nei paesi di transito, negandole al contempo qualsiasi impiego nel nostro paese… L’esproprio e l’allontanamento dei poveri devono essere effettuati con discrezione e circospezione”. David Ben-Gurion (nato Grün), presidente del Comitato Esecutivo dell’Agenzia Ebraica per la Palestina e in seguito primo ministro di Israele, fu più diretto. In una lettera del 1937 al figlio, scrisse: “Dobbiamo espellere gli arabi e prendere il loro posto”.
Scrivendo nel suo diario nel 1940, Yosef Weitz, un alto funzionario del Fondo Nazionale Ebraico che presiedeva l’influente Comitato per il Trasferimento prima e durante la Nakba (“Catastrofe”) e che divenne noto come l’Architetto del Trasferimento, si esprimeva così: “L’unica soluzione è una Terra d’Israele priva di arabi. Non c’è spazio per il compromesso. Devono essere trasferiti tutti. Non un solo villaggio, non una sola tribù può rimanere. Solo attraverso questo trasferimento degli arabi che vivono in Terra d’Israele arriverà la redenzione”. I suoi diari sono pieni di sentimenti simili.
Il punto di quanto sopra non è dimostrare che singoli leader sionisti avevano tali opinioni, ma che l’alta dirigenza del movimento sionista considerava unanimemente la pulizia etnica della Palestina un obiettivo e una priorità. Iniziative come il Comitato per il Trasferimento e il Piano Dalet, inizialmente formulato nel 1944 e descritto dal preminente storico palestinese Walid Khalidi come il “Piano Generale per la Conquista della Palestina”, dimostrano inoltre che il movimento sionista lo pianificava attivamente. La Nakba del 1948, durante la quale più di quattro quinti dei palestinesi residenti nel territorio passato sotto il dominio israeliano furono sottoposti a pulizia etnica, dovrebbe quindi essere vista come la realizzazione di un’ambizione di lunga data e l’attuazione di una politica chiave. Il prodotto di un progetto, non della guerra (nota storica natalizia: la città palestinese di Nazareth fu risparmiata da un destino simile solo perché il comandante delle forze israeliane che si impadronirono della città, un ebreo canadese di nome Ben Dunkelman, disobbedì all’ordine di espellere la popolazione e fu sollevato dal comando il giorno successivo).
Il fatto che la Nakba sia stata il prodotto di un preciso disegno è ulteriormente comprovato dai termini di riferimento del Comitato per il Trasferimento. Questi comprendevano non solo proposte per l’espulsione dei palestinesi ma, cosa altrettanto importante, misure attive per impedire il loro ritorno, distruggere le loro case e i loro villaggi, espropriare le loro proprietà e reinsediare quei territori con immigrati ebrei. Per raggiungere questi obiettivi, Weitz, insieme ai colleghi Eliahu Sassoon ed Ezra Danin, il 5 giugno 1948 presentò al Primo Ministro Ben-Gurion un progetto di tre pagine, intitolato “Schema per la Soluzione del Problema Arabo nello Stato di Israele”. Secondo l’autorevole storico israeliano Benny Morris, “non c’è dubbio che Ben-Gurion abbia accettato lo schema di Weitz”, che comprendeva “un enorme progetto di distruzione” che vide più di 450 villaggi palestinesi rasi al suolo.
La comprensibile attenzione alle espulsioni del 1948 spesso trascura il fatto che la pulizia etnica rimane incompleta se non si impedisce alle vittime di tornare alle loro case usando poi una combinazione di forza armata e leggi apposite per rimpiazzarli con altri occupanti. È la determinazione di Israele a rendere permanente l’espropriazione dei palestinesi che distingue i rifugiati palestinesi da molti altri rifugiati di guerra.
Dopo il 1948, Israele ha messo in scena tutta una serie di menzogne per scaricare sugli Stati Arabi e sui rifugiati stessi la responsabilità della trasformazione dei palestinesi in rifugiati diseredati e apolidi. Tra queste, l’affermazione secondo cui i rifugiati se ne sarebbero andati volontariamente (in realtà erano stati espulsi o erano fuggiti in preda a un giustificato terrore); che le trasmissioni radiofoniche arabe avrebbero ordinato ai palestinesi di fuggire (in realtà, erano stati incoraggiati a restare); che Israele avrebbe condotto uno scambio di popolazioni con gli Stati Arabi (non c’era nulla del genere); e la bizzarra argomentazione secondo cui, essendo arabi, i palestinesi avrebbero avuto numerosi altri Stati in cui rifugiarsi, mentre gli ebrei avrebbero avuto solo Israele (secondo la stessa logica, i Sikh [gruppo etnico originario del Punjab e sparso in tutto il mondo, NdT] avrebbero il diritto di impadronirsi della Columbia Britannica e deportare la sua popolazione nel resto del Canada o negli Stati Uniti). Ma soprattutto, nessuno di questi pretesti –anche se fosse davvero provato– autorizza Israele a proibire il diritto dei rifugiati palestinesi di tornare alle loro case alla fine delle ostilità. Si tratta, inoltre, di un diritto consacrato dalla risoluzione 194 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dell’11 dicembre 1948, che è stato ripetutamente riaffermato in seguito.
Pulizia etnica dopo il 1967
Nel 1967, Israele si impadronì del restante 22% della Palestina mandataria: la Cisgiordania (compresa Gerusalemme Est) e la Striscia di Gaza. Lo spopolamento in questi territori avvenne in modo diverso rispetto al 1948. Soprattutto, Israele, oltre a vietare il ritorno dei palestinesi fuggiti dalle ostilità durante la guerra di giugno del 1967 e a incoraggiare gli altri ad andarsene (fornendo, ad esempio, un servizio di autobus giornaliero da Gaza City al ponte di Allenby che collega la Cisgiordania alla Giordania), indisse un censimento durante l’estate del 1967. Tutti i residenti che non erano presenti durante il censimento non potevano ottenere un documento d’identità israeliano e perdevano automaticamente il diritto di residenza.
Di conseguenza, la popolazione di questi territori diminuì di oltre il 20% nel giro di una notte. Molti degli sfollati erano già rifugiati dal 1948. Il campo profughi di Aqbat Jabr, vicino a Gerico, ad esempio – fino al 1967 il più grande della Cisgiordania – è diventato una città praticamente fantasma dopo che quasi tutti i suoi abitanti sono tornati ad essere rifugiati in Giordania. I palestinesi della Striscia di Gaza finiti in Giordania furono così tanti che un nuovo campo profughi, Gaza Camp, fu istituito alla periferia di Jerash in Giordania. I territori palestinesi occupati non avrebbero recuperato i livelli di popolazione del 1967 fino ai primi anni Ottanta.
Anche in Cisgiordania si sono verificati casi di espulsione di massa. Tra questi c’è la città di Qalqilya, che fu anche destinata alla demolizione, ma alla quale i suoi residenti furono poi autorizzati a tornare. Quelli di ‘Imwas (la biblica Emmaus), Bayt Nuba e Yalu, nella collina di Latrun a Gerusalemme, sono stati meno fortunati. Furono espulsi sbrigativamente (molti oggi vivono nel campo profughi di Qaddura a Ramallah), i loro villaggi furono demoliti e annessi a Israele e sostituiti dal Canada Park, così chiamato perché il progetto fu completato con le donazioni della comunità ebraica canadese. Nella Città Vecchia di Gerusalemme, lo storico quartiere Mughrabi, confinante con l’Haram al-Sharif, è stato sbrigativamente raso al suolo per far posto a una piazza a ridosso del Muro del Pianto. A molti residenti sono stati concessi solo pochi minuti per evacuare le loro case, e molti sono rimasti uccisi quando i bulldozer sono entrati in azione. Secondo Eitan Ben-Moshe, un ingegnere che ha supervisionato l’atroce episodio: “abbiamo buttato fuori le macerie delle case insieme ai cadaveri degli arabi”.
Spopolamento per via amministrativa
Negli anni successivi, Israele ricorse a ogni tipo di espediente amministrativo per ridurre ulteriormente la popolazione palestinese della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Fino agli accordi di Oslo del 1993, ad esempio, per lasciare il territorio occupato era necessario un permesso di uscita rilasciato dal governo militare israeliano. Era valido solo per tre anni e poi rinnovabile annualmente per un massimo di altri tre anni (a pagamento) presso un consolato israeliano. Se un palestinese perdeva il permesso di uscita o non riusciva a rinnovarlo prima della sua scadenza per qualsiasi motivo (compresi i ritardi burocratici), o non poteva pagare la tassa di rinnovo, o non riusciva a tornare in Palestina prima della sua scadenza, quel palestinese perdeva automaticamente i diritti di residenza. Inoltre Israele, nel corso degli anni, ha deportato numerosi attivisti e leader di comunità, principalmente in Giordania e in Libano. Alla fine degli anni ’60 e ’70 ha anche esiliato i palestinesi di Gaza accusati di resistere all’occupazione, insieme alle loro famiglie, in campi di prigionia nella penisola occupata del Sinai. Tra coloro che vi trascorsero un periodo di detenzione vi fu il leader palestinese Haidar Abdel-Shafi.
Un caso particolarmente significativo di deportazione amministrativa si verificò nel 1992, dopo che le forze speciali israeliane fallirono l’operazione di salvataggio di un soldato israeliano sequestrato da Hamas per scambiarlo con il leader imprigionato Shaikh Ahmad Yasin. Il Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin ordinò allora la deportazione sommaria di circa 400 palestinesi, molti dei quali prigionieri affiliati ad Hamas e alla Jihad Islamica (PIJ), sebbene nessuno di loro fosse accusato di essere coinvolto nell’incidente che aveva scatenato la rabbia di Rabin.
A differenza delle precedenti deportazioni, che erano considerate permanenti, queste erano per periodi di uno o due anni. Nella fretta di effettuare le deportazioni di notte, Israele espulse un certo numero di palestinesi che non erano sulla sua lista e lasciò indietro altri che lo erano. Inutile dire che l’espulsione di massa è stata approvata, come sempre in questi casi, dall’Alta Corte di Giustizia israeliana dopo piccole modifiche. Essa ha stabilito, tra l’altro, che non si trattava di una deportazione collettiva, ma piuttosto di un insieme di deportazioni individuali. Forse ancora più significativo è il fatto che i deportati sono rimasti bloccati in una inospitale terra di nessuno, Marj al-Zuhur, perché il Libano si è rifiutato di facilitare le deportazioni accogliendoli. Durante la loro permanenza involontaria a Marj al-Zuhur, l’assistenza proveniva principalmente da Hezbollah, ed è stato in questo periodo che si sono consolidate le relazioni tra Hamas, Jihad Islamica ed Hezbollah.
Le strategie di Israele per “sfoltire” la popolazione di Gaza
Con l’attenzione rivolta negli ultimi anni all’intensificarsi delle campagne di pulizia etnica in Cisgiordania, si dimentica spesso che, per decenni, l’obiettivo principale dello spopolamento è stata la Striscia di Gaza, in particolare la sua popolazione di rifugiati, che rappresenta circa i tre quarti dei residenti del territorio. Anche prima di occupare Gaza nel 1967, Israele promuoveva regolarmente iniziative per “sfoltire” la popolazione di rifugiati, con destinazioni lontane come la Libia e l’Iraq. Non senza motivo, i leader israeliani si sentivano a disagio per la presenza di così tanti palestinesi ripuliti etnicamente a pochi passi dalle loro case. Dopo il 1967, hanno incoraggiato l’emigrazione palestinese dalla Striscia di Gaza non solo verso l’estero, ma anche verso la Cisgiordania.
Nel 1969, Israele ha persino ideato un piano per inviare 60.000 palestinesi dalla Striscia di Gaza in Paraguay con offerte di lavoro redditizie. Il piano fu negoziato tra il dittatore militare del Paraguay Alfredo Stroessner e il Mossad, l’agenzia di intelligence israeliana. Naturalmente è stata una pura coincidenza che, poco dopo, il Mossad abbia scoperto di non avere più le risorse per dare la caccia ai fuggitivi nazisti in Paraguay, che era stata una delle loro destinazioni preferite. Il progetto di trasferimento fu interrotto quando alcune delle sue vittime, dopo aver capito che la promessa di una nuova vita di benessere era tutta una finzione, spararono all’ambasciata israeliana ad Asuncion, uccidendo uno dei suoi dipendenti.
Il “trasferimento” e Gaza oggi
Nei decenni successivi, il “trasferimento”, spesso presentato come incoraggiamento all’emigrazione volontaria attraverso incentivi materiali o rendendo impossibili le condizioni di vita, è diventato sempre più popolare nella vita politica israeliana. Nel 2019, ad esempio, un “alto funzionario del governo”, citato dal quotidiano israeliano Ha’aretz, ha espresso la volontà di aiutare i palestinesi a emigrare dalla Striscia di Gaza.
Anche l’espulsione di massa ha guadagnato la sua parte di aderenti, ed è una posizione che oggi è rappresentata all’interno della coalizione di governo israeliana. Così come l’idea che il “trasferimento” debba includere anche i cittadini palestinesi di Israele: Avigdor Lieberman, ad esempio, che è stato Ministro della Difesa israeliano diversi anni fa, è un sostenitore non solo dello svuotamento della Cisgiordania e della Striscia di Gaza dai palestinesi, ma anche dell’eliminazione dei cittadini palestinesi di Israele. Come ci si potrebbe aspettare da un ministro che è stato a capo dell’esercito israeliano, Lieberman è anche un sostenitore della “decapitazione” dei cittadini palestinesi infedeli di Israele con “un’ascia”.
In questo contesto, Israele ha visto gli attacchi del 7 ottobre non solo come una minaccia, ma anche come un’opportunità. Forti del sostegno incondizionato di Stati Uniti ed Europa, i leader politici e militari israeliani hanno iniziato immediatamente a promuovere il trasferimento della popolazione palestinese di Gaza nel deserto del Sinai. La proposta è stata accolta con entusiasmo dagli Stati Uniti e in particolare dal Segretario di Stato Antony Blinken. Come sempre, egli sembra aver creduto davvero di poter reclutare o fare pressione sui regimi arabi clienti di Washington per trasformare il desiderio di Israele in realtà. Visti i problemi economici dell’Egitto di Abdelfattah al-Sisi, le conseguenze dello scandalo Menendez [senatore USA accusato di aver fornito all’Egitto informazioni riservate, NdT] e le incombenti elezioni presidenziali egiziane, Washington gli ha suggerito che sarebbe bastato un prestito del FMI, una riduzione del debito e la promessa di archiviare Menendez per convincere il Cairo. Come spesso accade quando si parla di Medio Oriente, Blinken, armato solo dell’ultima lista di desideri di Israele, non aveva la minima idea che la sua indecente proposta sarebbe stata categoricamente rifiutata, in primo luogo dall’Egitto.
“Trasferimento” come “emigrazione volontaria”
La posizione di ripiego di Israele è l’opposizione al “trasferimento forzato” sotto minaccia delle armi, mentre tutto il resto è lecito. Questo include la riduzione in macerie della Striscia di Gaza in quella che è probabilmente la più intensa campagna di bombardamenti della storia; un assalto genocida a un’intera società, che ha ucciso civili a un ritmo senza precedenti; la distruzione deliberata di un’intera infrastruttura civile, compresa l’eliminazione mirata dei settori della sanità e dell’istruzione; la più alta percentuale di famiglie in crisi di fame mai registrata a livello globale e la reale prospettiva di una carestia premeditata; l’interruzione della fornitura di acqua ed elettricità che ha portato a una sete diffusa, a un largo consumo di acqua non potabile e all’interruzione del trattamento delle acque reflue; la promozione di un forte aumento delle malattie infettive. Un soldato israeliano è già morto per un’infezione fungina causata dal tracollo delle condizioni igieniche che lui stesso aveva contribuito a provocare nella Striscia di Gaza. Non sappiamo quanti palestinesi siano stati vittime di malattie simili, ma è ragionevole pensare che bambini e anziani siano particolarmente colpiti.
In altre parole, se i palestinesi disperati cercano di fuggire da questo settimo girone dell’inferno per salvarsi la pelle, questa è considerata un’emigrazione volontaria, una loro scelta. Se non possono rimanere nella Striscia di Gaza perché Israele, con le armi statunitensi, l’ha resa inadatta all’abitazione umana, questa è una scelta volontaria che verrà rispettata. E gli Stati Uniti e Israele sono qui solo per aiutare, come Madre Teresa, decisi ad assistere fino all’ultimo di loro, che lo vogliano o meno.
Danny Danon, un deputato che in passato è stato inviato di Israele alle Nazioni Unite (il tipo che sembra Elmer Fudd dei cartoni animati), ha recentemente citato il trasferimento di massa dei siriani su più coste nell’ultimo decennio come esempio da emulare. “Anche se ogni Paese riceve diecimila, ventimila gazawi, questo è significativo”.
Interrogato sulla proposta di Danon durante una riunione del Likud il giorno di Natale, Netanyahu ha risposto: “Ci stiamo lavorando. Il nostro problema è [trovare] i Paesi disposti ad assorbirli”.
Come ha scritto un editoriale del quotidiano israeliano Ha’aretz il 27 dicembre: “I legislatori israeliani continuano a spingere per il trasferimento come se fosse un aiuto umanitario”.
Per non essere da meno dei politici, il Jerusalem Post ha pubblicato un articolo di opinione intitolato “Perché il trasferimento nella penisola del Sinai è la soluzione per i palestinesi di Gaza”.
“Il Sinai”, ha commentato entusiasta l’autore Joel Roskin, “è uno dei luoghi più adatti sulla Terra per dare al popolo di Gaza speranza e un futuro di pace”.
Non a singoli gazawi, ma “al popolo di Gaza”. In particolare, tali proposte danno sempre per scontato che chi parte non tornerà mai più. Si attende con il fiato sospeso che l’Unione Europea risponda a queste richieste di espulsione di massa con ulteriori indagini sui libri di testo palestinesi.
Se la pulizia etnica è stata intrinseca all’ideologia e alla pratica sionista/israeliana fin dall’inizio, essa ha anche un rovescio della medaglia: l’espulsione dei palestinesi nel 1948 ha ampliato quello che era un conflitto tra il movimento sionista e i palestinesi in un conflitto regionale, arabo-israeliano. Anche la seconda Nakba che Israele sta attualmente infliggendo alla Striscia di Gaza sembra essere sulla buona strada per istigare il rinnovo delle ostilità in tutto il Medio Oriente.
Inoltre, la Nakba del 1948 non ha sconfitto i palestinesi, che hanno iniziato la loro lotta dai campi di esilio, tra i quali spiccano quelli della Striscia di Gaza. Ci vorrebbe un livello di follia da Blinken per supporre che l’espulsione dei palestinesi dalla Striscia di Gaza possa produrre un risultato diverso.
Traduzione a cura di AssoPacePalestina
Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
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