Nel trattare il conflitto israelo-palestinese, l’America non ha una via d’uscita facile

Dic 29, 2023 | Notizie

di Aaron David Miller e Daniel C. Kurtzer,

Foreign Affairs, 22 dicembre 2023. 

Biden deve rischiare, parlare chiaro e agire con coraggio

Soldati israeliani vicino al confine con Gaza, Israele meridionale, dicembre 2023. Ronen Zvulun / Reuters

Le guerre in Medio Oriente raramente si concludono in modo netto. Alcuni osservatori, tuttavia, hanno espresso la speranza che la guerra tra Israele e Hamas possa interrompere un pericoloso status quo e alla fine portare a una maggiore stabilità nella regione. La guerra attuale viene spesso paragonata alla guerra dello Yom Kippur dell’ottobre 1973 tra Israele e le forze combinate di Egitto e Siria, soprattutto per le dimensioni del fiasco dell’intelligence israeliana, la perdita di fiducia del pubblico israeliano nel proprio governo e il trauma nazionale che ne seguì.

Ma la verità è che ogni paragone significativo finisce qui. Più di 2.800 israeliani furono uccisi nella guerra dello Yom Kippur. Ma quel conflitto non comprendeva il tipo di tortura sadica e indiscriminata, le uccisioni e la presa di ostaggi che Hamas ha perpetrato nell’ottobre del 2023, né i successivi attacchi aerei su larga scala da parte delle forze israeliane che hanno già causato migliaia di morti tra i civili. La guerra del 1973 durò solo tre settimane e si concluse rapidamente con un accordo di disimpegno relativamente ben strutturato mediato dagli Stati Uniti, avviando un processo che portò a un importante trattato di pace egiziano-israeliano firmato da due leader forti: il carismatico ed eroico presidente egiziano Anwar al-Sadat e il duro primo ministro israeliano Menachem Begin.

Al contrario, le due società traumatizzate che emergono dall’attuale guerra dovranno affrontare un livello di angoscia, di vittime e di devastazione che richiederà un compito erculeo di ricostruzione materiale e di guarigione psicologica. Finora sono morti 1.400 israeliani e 18.000 palestinesi. Circa 150.000 israeliani e più di 1,8 milioni di palestinesi di Gaza sono stati sfollati dalle loro case. In Cisgiordania, le incursioni delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) e l’aggressività dei coloni estremisti hanno già causato la morte di oltre 260 palestinesi, l’arresto di quasi 2.000 e lo sfollamento di quasi 1.000 dalle loro terre. Non è realistica l’idea che Israele, dopo aver completato le operazioni militari per mettere fuori gioco Hamas, esca completamente da Gaza e che l’Autorità Palestinese (AP) possa prendere rapidamente e autorevolmente il suo posto. E questa guerra non ha leader eroici: entrambe le parti soffrono di una governance profondamente inefficace.

Non esiste una prospettiva realistica a breve termine di un epilogo drammatico ed edificante del conflitto, che convalidi i sacrifici di ciascuna parte e fornisca sollievo e speranza per il futuro. A fine ottobre, il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha dichiarato che la regione non deve tornare allo status quo precedente al 7 ottobre. Se Biden vuole un cambiamento, tuttavia, la sua amministrazione deve intraprendere mosse politiche più coraggiose, che guidino fermamente la regione verso una soluzione a due Stati. I politici potrebbero voler evitare mosse coraggiose in una situazione in rapida evoluzione: tali mosse saranno difficili dal punto di vista pratico e politicamente rischiose. Ma i fatti sul campo suggeriscono che la regione non può tornare all’instabile status quo prebellico. Invece, senza una guida attenta, è probabile che emerga un nuovo status quo ancora più problematico. Solo una leadership americana coraggiosa ora potrà favorire un buon risultato nel dopoguerra.

Equilibrio instabile

Nel condurre la guerra a Gaza, i funzionari israeliani hanno dichiarato che il loro obiettivo è distruggere Hamas e poi smilitarizzare e deradicalizzare Gaza. Cosa intendano questi leader per “deradicalizzare” rimane poco chiaro. Ma anche se gli israeliani riusciranno a distruggere le capacità militari di Hamas, non dichiareranno semplicemente missione compiuta a Gaza e se ne andranno. I leader israeliani hanno escluso sia Hamas che l’Autorità Palestinese come autorità di governo e quindi Israele probabilmente rimarrà a Gaza per un periodo prolungato.

Israele controlla già l’accesso terrestre, marittimo e aereo di Gaza, nonché il suo spettro elettromagnetico. Anche se Israele riuscirà a porre fine al dominio di Hamas a Gaza, vorrà senza dubbio mantenere una certa autorità, assicurando come minimo che tutte le importazioni potenzialmente a doppio uso militare siano attentamente monitorate e controllate. È inevitabile un continuo attrito con le Nazioni Unite e con le altre organizzazioni umanitarie internazionali – attrito già alto a causa delle operazioni militari di Israele e la morte di migliaia di gazawi, compresi gli operatori umanitari dell’ONU.

Se Israele cercherà di rimanere a Gaza per un periodo prolungato, dovrà affrontare gli attacchi residui di Hamas e di altre organizzazioni terroristiche ed enormi sfide per mantenere l’ordine pubblico. Anche se alcuni funzionari israeliani parlano di uscire da Gaza, parlano apertamente della necessità di creare “zone cuscinetto” a lungo termine e della responsabilità generale di Israele per la sicurezza. Ma i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania e quelli degli Stati arabi si rifiuteranno sicuramente di essere subappaltatori delle operazioni di sicurezza di Israele.

In poche parole, nessuna linea netta separerà la guerra dalla pace in questo conflitto. Invece, le azioni militari di Israele a Gaza passeranno probabilmente da un’intensa campagna aerea e terrestre a operazioni più mirate, e Israele farà parte del paesaggio di Gaza per qualche tempo. Per quanto Israele possa cercare di evitare la regola dell’ex Segretario di Stato americano Colin Powell presa in prestito dal negozio “Pottery Barn” – se lo rompi, te lo compri – una presenza israeliana prolungata a Gaza comporterà inevitabilmente l’assunzione di maggiori, e non minori, responsabilità e coinvolgimento negli affari del territorio. E questo probabilmente infiammerà le tensioni con chiunque venga a governare formalmente Gaza.

Un partner limitato

Sulla carta, l’opzione migliore per il futuro di Gaza a lungo termine è la governance palestinese guidata da un’Autorità Palestinese rivitalizzata e legittimata. L’Autorità Palestinese contribuisce già a coprire gli stipendi dei dipendenti pubblici di Gaza e a pagare l’elettricità dell’area. La comunità internazionale la considera l’autorità legittima a Gaza e in Cisgiordania. All’inizio di questo mese, in un incontro con il presidente dell’AP Mahmoud Abbas, il consigliere per la sicurezza nazionale statunitense Jake Sullivan ha parlato del ruolo che un’AP rivitalizzata potrebbe svolgere nel governo di Gaza.

Ma a causa delle sue stesse disfunzioni e, in misura non trascurabile, delle politiche israeliane, l’AP è diventata debole e inefficace. I palestinesi la percepiscono come corrotta, nepotista e autoritaria: in un sondaggio del Barometro Arabo condotto tra i gazawi poco prima del 7 ottobre, la maggioranza degli intervistati considerava l’AP un peso per il popolo palestinese. Abbas ha 87 anni ed è al 19° anno di quello che doveva essere un mandato di quattro anni. Si è rifiutato di indire nuove elezioni nel 2021 e ha perso sempre più il contatto con i giovani palestinesi. Quando agli intervistati nello stesso sondaggio del Barometro Arabo è stato chiesto per chi avrebbero votato se si fossero tenute le elezioni presidenziali a Gaza, il 32% ha scelto l’attivista di Fatah imprigionato Marwan Barghouti e il 24% il leader di Hamas Ismail Haniyeh. Solo il 12% ha scelto Abbas.

Durante questa guerra, l’Autorità Palestinese non è stata in grado di proteggere i palestinesi in Cisgiordania dalle incursioni dell’IDF e dagli attacchi dei coloni, né tanto meno di influenzare il corso delle operazioni di Israele a Gaza. Le quotazioni di Hamas, nel frattempo, sono aumentate in Cisgiordania dopo l’attacco terroristico del 7 ottobre e il rilascio negoziato di centinaia di prigionieri palestinesi dalle carceri israeliane. Per molti palestinesi, che non si fidano di Abbas e che non apprezzano le recenti azioni di Israele, Hamas sta diventando l’unica scelta possibile.

Ripristinare la fiducia dei palestinesi nell’AP richiederà molti sforzi e molto tempo. L’Autorità Palestinese dovrà tenere elezioni libere ed eque in Cisgiordania e a Gaza e convincere gli elettori che intende davvero porre fine all’occupazione israeliana e creare uno Stato palestinese indipendente. Se ci riuscisse, Israele dovrebbe anche dimostrare il suo impegno – con parole e azioni sul campo – a portare avanti un risultato a due Stati. Con l’attuale governo israeliano, questo scenario è impossibile.

Presa del potere

In un certo senso, non è una sorpresa che la guerra tra Israele e Hamas sia scoppiata a Gaza piuttosto che in Cisgiordania. Gaza è stata spesso al centro delle tensioni tra israeliani e palestinesi: la prima Intifada è iniziata a Gaza nel 1987 e nel ventunesimo secolo Gaza è stata il punto focale di almeno sei significativi conflitti israelo-palestinesi. Ma la coalizione di destra del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu si è concentrata sulla Cisgiordania, cercando di creare le condizioni per l’annessione. Nella prima metà del 2023, il governo di Netanyahu ha allontanato ulteriormente la possibilità di una soluzione a due Stati proponendo o approvando i permessi per 13.000 nuove unità abitative negli insediamenti della Cisgiordania, il numero più alto registrato dal 2012.

Il fatto che Netanyahu abbia presieduto durante il peggior attacco terroristico e il peggior fallimento dell’intelligence nella storia di Israele, nonché il giorno più sanguinoso per gli ebrei dai tempi dell’Olocausto, ha screditato la sua leadership. Molti osservatori hanno ragionevolmente ipotizzato che la sua carriera politica giungerà presto al capolinea, come quella del Primo Ministro israeliano Golda Meir dopo la guerra dello Yom Kippur. Ma Netanyahu lotterà per rimanere al potere. Dovendo affrontare le accuse di violazione della fiducia, corruzione e frode, Netanyahu vuole disperatamente evitare il carcere. Ha già rotto con la tradizione suggerendo che sarà lui a organizzare l’inchiesta sulle mancanze del governo che hanno preceduto l’attacco di Hamas; di conseguenza, l’inchiesta che ne risulterà non avrà l’autorità legale di una commissione statale.

Per ora, Netanyahu conserva una comoda maggioranza di 74 seggi alla Knesset e ha dimostrato di essere disposto a pagare qualsiasi prezzo ai partner estremisti e haredi (ortodossi) per mantenere intatta la sua coalizione di governo. Nel maggio 2023, la Knesset ha approvato il bilancio di Netanyahu, cementando la presa del potere della coalizione fino al 2025. I termini del governo di emergenza creato da Israele pochi giorni dopo lo scoppio della guerra escludevano l’adozione di qualsiasi legge non legata alla prosecuzione della guerra. È probabile che il governo di Netanyahu sopravviva ancora per qualche tempo.

Netanyahu continuerà a subire le pressioni dell’opinione pubblica affinché si dimetta. Alcuni autorevoli ex leader dell’establishment della sicurezza israeliana lo hanno già invitato a dimettersi. Se si rifiuta di farlo, tuttavia, non esiste un meccanismo chiaro per rimuoverlo dall’incarico, anche se il suo processo è ora ripreso.

Nel frattempo, Netanyahu si sta muovendo per rafforzare il sostegno dei suoi partner di destra. In effetti, la sua amministrazione sembra approfittare dell’attenzione che Gaza sta sottraendo alla Cisgiordania per perseguire una maggiore espansione degli insediamenti e reprimere i palestinesi. Dal 7 ottobre, i coloni estremisti in Cisgiordania sono stati coinvolti in decine di episodi di aggressione e intimidazione contro i palestinesi, costringendone almeno un migliaio – tra cui intere comunità di pastori – a lasciare le loro terre. Un terzo di questi episodi ha coinvolto coloni che hanno usato armi da fuoco contro i palestinesi. In quasi la metà degli incidenti totali, l’IDF ha accompagnato o sostenuto attivamente i coloni.

Se l’IDF riuscirà a raggiungere i suoi obiettivi di guerra uccidendo i principali leader di Hamas, Netanyahu potrebbe persino riguadagnare un po’ di sostegno. L’elettorato israeliano si era spostato a destra ben prima di questa guerra. Il terrorismo di Hamas potrebbe incoraggiare un’ulteriore radicalizzazione della popolazione israeliana.

Se Netanyahu dovesse rimanere al potere per un periodo prolungato, è probabile che la situazione in Cisgiordania continui a peggiorare, portando forse a una rivolta palestinese causata in parte dai coloni estremisti. Inoltre, egli sfrutterà a proprio vantaggio qualsiasi cosa gli Stati Uniti decidano di fare o non fare. Se Biden cercherà di rilanciare il processo di pace, Netanyahu probabilmente sottolineerà ciò che ha già detto al suo partito Likud: che solo lui può fermare la creazione di uno Stato palestinese indipendente. Se, invece, Biden valuterà che le possibilità di un processo di pace a due Stati sono inesistenti nel breve periodo, Netanyahu sbandiererà la sua capacità di convincere gli americani a stargli fuori dai piedi.

Opzioni binarie

Per gli Stati Uniti, i dilemmi politici appaiono terribilmente complessi. Ma dopo 56 anni di occupazione israeliana senza che se ne intraveda la fine, questi dilemmi devono essere risolti al più presto. La scelta degli Stati Uniti è binaria: o cerca di contribuire a creare le condizioni per una soluzione a due Stati o si adatta a una situazione postbellica che è peggiore dello status quo ante, non risolve alcuna questione di fondo e probabilmente crea le condizioni per un’altra guerra.

Spingere con forza per una soluzione a due Stati sarebbe complicato. Gli Stati Uniti dovrebbero contribuire a orchestrare simultaneamente diversi processi critici: mettere in atto meccanismi di ricostruzione di Gaza per essere pronti a operare il giorno in cui l’IDF se ne andrà, coinvolgere le parti arabe riluttanti per aiutare a mantenere l’ordine pubblico e istituire una governance provvisoria a Gaza, tenere a bada i resti di Hamas, costringere l’Autorità Palestinese a ristrutturarsi in modo da riconquistare la fiducia del pubblico palestinese e affrontare le legittime preoccupazioni israeliane in materia di sicurezza.

Questa linea d’azione da parte degli Stati Uniti sarebbe anche politicamente rischiosa: potrebbe avere l’effetto indesiderato di dare a Netanyahu uno strumento di campagna elettorale per rimanere al potere. Il successo è tutt’altro che assicurato. Gli Stati Uniti avranno a che fare con leader traumatizzati che potrebbero non essere disposti o incapaci di prendere decisioni importanti. Inoltre, gli israeliani e i palestinesi hanno fallito molte volte nel creare un percorso di pace quando il contesto esterno era molto meno difficile di oggi.

Come potenziale mediatore di pace, gli Stati Uniti mancano anche di credibilità. Per procedere verso una soluzione a due Stati, gli arabi e gli europei dovrebbero avere fiducia nelle intenzioni e nel seguito degli Stati Uniti. I veti e i no degli Stati Uniti al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e all’Assemblea Generale sulle risoluzioni per i cessate il fuoco umanitari non hanno certo ispirato fiducia. E anche gli alleati che confidano che Washington attui i suoi piani si chiederanno cosa accadrà se Biden perderà la sua imminente corsa alla rielezione.

Ma l’approccio alternativo –sperare in un ritorno allo status quo precedente al 7 ottobre senza un serio sforzo da parte degli Stati Uniti per far avanzare le prospettive di una pace duratura– potrebbe essere peggiore. Anche se Netanyahu lascia l’incarico, nessun altro politico di spicco in Israele sembra desideroso di intraprendere un percorso di pace. E non ci sono leader palestinesi con la serietà e il peso politico necessari per impegnarsi veramente con Israele all’indomani del conflitto. Alcuni parlano di Barghouti come potenziale leader palestinese, ma sta scontando cinque condanne all’ergastolo per aver ucciso degli israeliani e non ha precedenti nella vita politica che lo suggeriscano come un pacificatore.

Stimolare l’Autorità Palestinese a riformarsi è un compito che va oltre le capacità dei soli Stati Uniti. Washington dovrà agire di concerto con altri per indurre l’Autorità Palestinese a fare ciò che ha resistito a fare per decenni: diventare meno autoritaria, combattere la corruzione e accettare di tenere nuove elezioni per la presidenza e il Consiglio Legislativo. Per spingere l’Autorità Palestinese a ristabilire la propria legittimità tra i palestinesi saranno necessari sforzi significativi da parte di Egitto, Giordania, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti – il cosiddetto Quartetto arabo – e dell’UE, che ha sempre svolto un ruolo importante nella costruzione delle istituzioni palestinesi. Per realizzare questo sforzo multilaterale, tuttavia, gli attori arabi dovranno vedere una chiara politica americana che vada oltre Gaza e si concentri sulla fine del conflitto pluridecennale.

Rischio calcolato

Ma vale la pena correre il rischio di sostenere un approccio a due Stati. Gli altri attori misureranno la credibilità degli Stati Uniti in base a quanto Washington è disposta a fare per affrontare le realtà scomode che quasi certamente definiranno il panorama postbellico. L’amministrazione Biden ha l’intelligenza e la spina dorsale per andare avanti anche quando il gioco si fa duro. E il gioco si farà duro. Uno sforzo coraggioso per spingere una soluzione a due Stati, tuttavia, potrebbe attrarre il sostegno degli Stati arabi per contribuire a garantire l’ordine pubblico di base, una governance provvisoria e la ricostruzione di Gaza, nonché una rete di sicurezza per l’Autorità Palestinese mentre intraprende gli sforzi necessari per riformarsi.

La domanda che si pone all’amministrazione Biden è cosa possa realisticamente fare nell’anno che precede le prossime elezioni presidenziali statunitensi, dati i vincoli posti dalla politica americana e quelli che probabilmente incontrerà in Israele, tra i palestinesi e in tutto il mondo arabo. A breve termine, gli Stati Uniti possono intraprendere azioni che aiuterebbero a superare alcuni primi ostacoli alla soluzione dei due Stati. In primo luogo, Biden dovrebbe continuare a fare pressione su Israele affinché ponga rapidamente fine alla sua intensa campagna aerea e di terra – che sicuramente continuerà a provocare ingenti perdite tra i civili – a favore di operazioni più mirate.

La sua amministrazione deve anche spingere con forza per un aumento della quantità di assistenza umanitaria che entra a Gaza, anche assicurando che il valico di frontiera di Kerem Shalom, recentemente attivato, rimanga aperto e facendo pressione per la ripresa dei negoziati per il rilascio dei restanti ostaggi israeliani di Hamas. Inoltre, l’amministrazione deve fare pressione su Israele e sull’Autorità Palestinese affinché riducano la violenza dei coloni estremisti e dei militanti palestinesi in Cisgiordania.

In terzo luogo, gli Stati Uniti devono garantire che Israele rispetti le linee guida statunitensi su Gaza, tra cui nessuna riduzione del territorio di Gaza, nessun trasferimento forzato di gazawi e la governance palestinese. I funzionari statunitensi dovrebbero chiarire, sia nelle loro dichiarazioni pubbliche che nei loro contatti privati con israeliani e altri, che Gaza e la Cisgiordania devono rimanere un’unità integrale e che l’Autorità Palestinese riprenderà a governare Gaza.

Gli Stati Uniti dovranno anche essere proattivi nel cercare di garantire che il conflitto lungo il confine israelo-libanese non sfoci in una guerra su larga scala. Almeno 60.000 israeliani sono stati sfollati dalle loro case nel nord di Israele. Se la risoluzione del 2006 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che impone a Hezbollah di ritirarsi a nord del fiume Litani non verrà applicata, Israele potrebbe dispiegare le proprie forze armate per contenere Hezbollah, il che potrebbe scatenare una guerra totale con un’organizzazione terroristica molto più potente di Hamas. Per arginare questo rischio, gli Stati Uniti dovranno mantenere le forze militari di deterrenza inviate nella regione nell’ottobre 2023.

Infine, l’amministrazione Biden deve assicurarsi che tutti gli attori regionali comprendano che la soluzione dei due Stati è il risultato preferito dagli Stati Uniti. Deve definire un percorso verso questo risultato che chiarisca quali passi ciascuna parte deve compiere per creare il giusto ambiente per gli eventuali negoziati. I leader statunitensi dovrebbero dire al popolo israeliano che è giunto il momento di affrontare la scelta fondamentale che il Paese ha evitato dal 1967: Israele occuperà il territorio palestinese a tempo indeterminato o potrà convivere con uno Stato palestinese? Gli Stati Uniti devono inviare ai palestinesi il messaggio che anche per loro è arrivato il momento di fare una scelta: rimarranno sotto occupazione o riformeranno la loro governance? I leader statunitensi devono lavorare a stretto contatto con paesi arabi chiave come l’Egitto, gli Stati del Golfo e la Giordania per sostenere questi cambiamenti. L’Arabia Saudita, dato il suo interesse per la normalizzazione con Israele, avrà un ruolo particolarmente importante da svolgere.

L’unica scommessa valida

Tutto questo può avere successo con l’attuale leadership israeliana e palestinese al timone? Non c’è nessuna possibilità. Netanyahu deve andarsene. E anche Abbas. Ma anche se dovessero rimanere al potere nel breve periodo, gli Stati Uniti hanno opzioni più forti. Biden non deve minacciare di negare la necessaria assistenza militare a Israele. Ma può far capire più chiaramente agli israeliani che la continuità della loro relazione con Washington si basa sulla consapevolezza che Israele non può rioccupare Gaza e che la loro garanzia di sicurezza finale sarà un accordo di pace con uno Stato palestinese altrettanto pacifico. Inquadrando la sua retorica come il tipo di discorso diretto che Netanyahu evita, Biden potrebbe essere in grado di influenzare gli atteggiamenti israeliani senza diminuire le sue possibilità di rielezione nel 2024.

La maggior parte dei promemoria governativi, compresi molti di quelli che abbiamo scritto durante il nostro servizio al Dipartimento di Stato americano, propongono tre opzioni: un’opzione audace che suggerisce mosse che il responsabile politico troverà difficili da digerire, un’opzione di status quo che consente al responsabile politico di credere che non sia necessario fare molto e un’opzione “Goldilocks” [’a metà strada’, dalla fiaba di una bambina ‘Riccioli d’Oro’ che voleva un letto né troppo duro né troppo morbido e simili cose intermedie, NdT] che propone un’azione sufficiente a mostrare i muscoli ma non abbastanza da far uscire gli artigli. Spesso si sceglie l’opzione Goldilocks, che dà un’impressione di movimento e comporta rischi minimi.

Tuttavia, l’opzione Goldilocks non sarà disponibile all’indomani della guerra tra Israele e Hamas. Biden dovrebbe adottare una posizione determinata – a parole e nei fatti – che faccia avanzare seriamente la prospettiva di una soluzione a due Stati. Se dovesse ottenere un secondo mandato presidenziale, le basi che getterà nel 2024 per una risoluzione più duratura del conflitto israelo-palestinese lo porteranno a impegnarsi più intensamente: non si può permettere che la situazione si deteriori fino a quando non sarà passata la stagione elettorale statunitense. Grandi pressioni politiche e pratiche pesano su Biden, se dovesse scegliere di essere audace. Ma rischi ben maggiori potrebbero emergere se non lo facesse.

Aaron David Miller è Senior Fellow del Carnegie Endowment, ex analista del Dipartimento di Stato per il Medio Oriente e ha lavorato come negoziatore in amministrazioni democratiche e repubblicane.

Daniel C. Kurtzer è ex ambasciatore degli Stati Uniti in Egitto ed ex ambasciatore degli Stati Uniti in Israele. È S. Daniel Abraham Professor of Middle East Policy Studies presso la School of Public and International Affairs dell’Università di Princeton.

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Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

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