Il pericoloso viaggio di un poeta palestinese fuori da Gaza

Dic 26, 2023 | Notizie

di Mosab Abu Toha,

The New Yorker, 25 dicembre 2023. 

Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre e l’invasione di Israele, Mosab Abu Toha è fuggito dalla sua casa con la moglie e i tre figli. Poi i soldati dell’IDF lo hanno preso in custodia.

Quando io e Maram parliamo di lasciare Gaza, capiamo che la decisione non riguarda solo noi. Riguarda i nostri figli Yazzan (8 anni, a sinistra), Yaffa (6 anni, a destra), e Mostafa (3 anni). Tutte le fotografie: Mohamed Mahdy per il New Yorker

Quando la guerra è arrivata a Gaza, io e mia moglie non volevamo andarcene. Volevamo stare con i nostri genitori, i nostri fratelli e le nostre sorelle, e sapevamo che lasciare Gaza significava lasciarli. Anche quando il confine con l’Egitto è stato aperto alle persone con passaporto straniero, come nostro figlio di tre anni, Mostafa, noi abbiamo deciso di restare. Il nostro appartamento a Beit Lahia, nel nord di Gaza, era al terzo piano. I miei fratelli vivevano sopra e sotto di noi, mentre i miei genitori abitavano al piano terra. Mio padre si occupava dei polli e dei conigli in giardino. Avevo una biblioteca piena di libri che amo.

Poi Israele ha lasciato cadere dei volantini sul nostro quartiere, avvertendoci di evacuare, e noi ci siamo ammassati in un appartamento con due camere da letto preso in prestito nel campo profughi di Jabalia. Presto veniamo a sapere che una bomba ha distrutto la nostra casa. Gli attacchi aerei piovono anche sul campo, uccidendo decine di persone nel raggio di cento metri dalla nostra porta. Col tempo, i nostri genitori smettono di incoraggiarci a restare.

Quando ci rendiamo conto che il nostro appartamento nel campo profughi non è più un rifugio, ci trasferiamo di nuovo in una scuola dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione (UNRWA). Mia moglie, Maram, dorme in un’aula con decine di donne e bambini. Io dormo fuori, con gli uomini, esposto alla rugiada. Una volta ho sentito un frammento di granata risuonare nella scuola, come se una tazza da tè fosse caduta da un tavolo.

A quel punto, quando Maram e io parliamo di partire, capiamo che la decisione non riguarda solo noi. Riguarda i nostri tre figli. A Gaza, un bambino non è veramente un bambino. Nostro figlio di otto anni, Yazzan, ha parlato di voler recuperare i suoi giocattoli dalle rovine della nostra casa. Dovrebbe imparare a disegnare, a giocare a calcio, a scattare una foto di famiglia. Invece, sta imparando a nascondersi quando cadono le bombe.

Il 4 novembre, al valico di frontiera di Rafah, i nostri nomi appaiono su una lista di viaggiatori autorizzati a lasciare Gaza. Il giorno dopo ci mettiamo in cammino a piedi, unendoci a un’ondata di palestinesi che compiono i trenta chilometri di viaggio verso sud. Quelli che possono viaggiare più velocemente di noi, su asini e tuk-tuk, tornano presto indietro, viaggiando verso di noi. Vediamo un amico che ci dice che le forze israeliane hanno istituito un posto di blocco sulla Salah al-Din Road, l’autostrada nord-sud che dovrebbe garantire un passaggio sicuro. Dice che gli spari in quel punto lo hanno convinto a tornare indietro. Allora anche noi torniamo alla scuola.

Mostafa e Yaffa, la nostra figlia di sei anni, sono così malati e febbricitanti che riescono a malapena a camminare. Anche le mie sorelle ci hanno chiesto di non ripartire verso il sud. “Non lasciamoli”, dice Maram. Vogliamo restare per la nostra famiglia e vogliamo partire per la nostra famiglia.

Poi, il 15 novembre, mi trovo al terzo piano della scuola e sto bevendo del tè, quando sento uno scoppio seguito da urla. All’esterno è esploso un tipo di granata che noi chiamiamo “bomba fumogena”. La gente sta cercando di spegnere un incendio con la sabbia.

Pochi istanti dopo, un altro fumogeno esplode nel cielo sopra di noi, sprigionando una nuvola bianca di gas [probabilmente si trattava di proiettili al fosforo bianco, NdT]. Corriamo dentro, tossendo, e chiudiamo porte e finestre. Maram ci porge dei pezzi di stoffa bagnati e noi li teniamo sul naso e sulla bocca, cercando di respirare.

Quella notte sentiamo le bombe e i colpi dei carri armati e io faccio fatica a dormire. Nei giorni successivi, la mia gola sa di gas e ho la diarrea. Non riesco a trovare un bagno pulito. Non c’è acqua per tirare lo sciacquone. Mi viene da vomitare.

Ho scherzato con la mia famiglia sul fatto che per il mio trentunesimo compleanno, il 17 novembre, avremo la pace. Quando arriva il giorno, sono imbarazzato. Chiedo a mia madre: “Dov’è la mia torta?”. Lei mi risponde che ne preparerà una quando tornerà a vivere nella nostra casa distrutta.

Il 18 novembre, i proiettili dei carri armati israeliani distruggono due aule di un’altra scuola, dove si trovano i nonni e gli zii paterni di Maram. Mio cognato Ahmad viene a sapere che diversi membri della sua famiglia allargata sono morti. I miei genitori ci invitano a non lasciare il nostro rifugio. Ma quando sentiamo la notizia, fingiamo di andare in bagno e andiamo a cercare i nostri parenti.

Sulla strada polverosa che porta alla scuola, ci accoglie una scena straziante. La gente fugge con bombole di gas, materassi e coperte. Un gruppo di asini e cavalli sanguina. La coda di un cavallo è quasi staccata. Quando un giovane cerca di dissetarlo, l’acqua esce da un buco nel collo. Mi chiede se ho un coltello per porre fine alle sofferenze dell’animale.

Con sollievo troviamo i nonni di Maram all’interno, seduti sul pavimento. Mentre gli zii fanno i bagagli, uno di loro parla di fuggire a sud. I nonni di Maram lo supplicano di non andare.

Il mattino dopo, mi sveglio alle cinque con un cielo coperto. Sta arrivando un temporale. Mentre tutti dormono, riempio una bottiglia d’acqua da un secchio lasciato aperto, mi lavo e recito la preghiera dell’alba. Poi, verso le 6.30, Nader, lo zio di Maram, viene nella nostra stanza. Si sta preparando a partire per il sud con i suoi fratelli. “Se qualcuno vuole unirsi a noi, saremo al cancello dell’ospedale”, dice.

Questa volta, quando chiedo a Maram se vuole andare, mi risponde di sì. “Tutte le nostre valigie sono pronte”, mi dice.

Maram informa i suoi genitori della nostra decisione. Loro piangono mentre lei li abbraccia. Poi andiamo entrambi al terzo piano, dove i miei genitori sono seduti in corridoio su un materasso. Stanno bevendo il caffè del mattino con due delle mie sorelle e i loro mariti. Mi accovaccio e a bassa voce dico ai miei genitori che cercheremo di lasciare Gaza.

Mia madre impallidisce. Guarda i miei figli con le lacrime agli occhi.

Non voglio abbracciare nessuno, perché non voglio credere che li sto lasciando. Bacio i miei genitori e stringo la mano ai miei fratelli, come se stessi facendo solo un breve viaggio. Quello che provo non è un senso di colpa, ma un senso di ingiustizia. Perché io posso partire e loro no? Siamo fortunati che Mostafa sia nato negli Stati Uniti. Se i loro figli non lo sono, questo li rende meno umani, meno degni di protezione? Penso che, quando saremo partiti, potrei non essere più in grado di chiamarli, né di scoprire se sono vivi o morti. Ogni passo che faremo ci allontanerà da loro.

Prima di essere mia moglie, Maram era la mia vicina di casa. Nel 2000, quando avevo otto anni, mio padre ci trasferì dal mio luogo di nascita, il campo profughi di Al-Shati, e ci costruì una casa a Beit Lahia. Maram, un anno più giovane di me, viveva nella casa accanto. Mi piaceva tanto che, ogni anno scolastico, le regalavo i miei vecchi libri di testo per evitare che ne comprasse di nuovi.

Un giorno Maram mi vide al terzo piano della nostra casa di famiglia, mentre scrutavo in lontananza con un nuovo binocolo. Dalla nostra finestra potevo vedere il confine con Israele. Mandò sua sorella minore a chiedermi se stessi cercando una ragazza.

Dissi alla sorella di Maram che non erano affari suoi. Da quel momento, però, ho capito che Maram provava qualcosa per me. Abbiamo iniziato a scambiarci messaggi tramite le nostre sorelle minori. Nel 2015, quando avevo ventidue anni, ci siamo sposati.

La mattina in cui partiamo per il sud, Maram indossa una jilbab e porta con sé la coperta di nostra figlia Yaffa, che ha la testa di una volpe e due maniche, per poterla indossare come un mantello. Abbiamo un litro d’acqua. Quando raccogliamo le nostre cose e ci incamminiamo verso il cancello dell’ospedale con Ibrahim, il fratello minore di Maram, gli zii sono già partiti.

Mi avvicino a un adolescente che guida un carretto trainato da un asino. “Vai a sud?”

Non ha idea di quale sia la direzione del sud. “Quanto mi paghi?”, mi chiede.

Offro cento shekel israeliani, circa ventisette dollari americani. Un altro giovane, la cui madre usa una sedia a rotelle, divide il costo con noi.

Il nostro carretto a dorso d’asino passa accanto a case e negozi bombardati. La strada è un fiume di persone che scorre verso sud, molte delle quali portano bandiere bianche per identificarsi come civili. Ibrahim salta giù dal carretto, prende un bastone e vi lega una canottiera bianca.

Tra la folla vedo un uomo di nome Rami, che ha giocato a calcio con me più di dieci anni fa. Grida di gioia e chiede se suo padre settantenne può salire sul nostro carro. Facciamo un po’ di spazio e proseguiamo.

Dopo circa tredici chilometri di viaggio, passiamo davanti a piazza Al-Kuwait. Un posto di blocco israeliano si staglia in lontananza. I soldati controllano il flusso del traffico pedonale con un carro armato e una barriera di sabbia. Quando i soldati vogliono bloccare la strada, fanno passare il carro armato sulla carreggiata.

Centinaia di persone, giovani e anziani, si accalcano sulla strada davanti al carro armato. Mi viene in mente un’altra scena simile: la Nakba del 1948, quando le milizie sioniste costrinsero centinaia di migliaia di palestinesi a lasciare i loro villaggi e le loro città. Nelle fotografie di quel periodo, le famiglie fuggono a piedi, tenendo in equilibrio sulla testa ciò che resta dei loro averi.

I bambini sono spaventati. Mostafa mi chiede se può tornare a nord da sua nonna Iman, che gli rimboccava le coperte. Non so cosa dirgli. Andremo a trovarla, dico alla fine. Sii paziente.

Quando ci avviciniamo al carro armato, sollevo la nostra pila di documenti di viaggio, con il passaporto americano blu di Mostafa in cima. Uno dei soldati nel carro armato grida in un megafono; un altro impugna una mitragliatrice. Vivo a Gaza da quasi tutta la vita e questi sono i primi soldati israeliani che vedo. Non ho paura di loro, ma presto ne avrò.

Siamo felicissimi di vedere, davanti a noi, gli zii di Maram. Ibrahim grida. Uno di loro, Amjad, sorride e risponde: “Ce l’hai fatta!”.

La fila si allunga. Uno dei prozii di Maram, Fayez, spinge una sedia a rotelle che trasporta la bisnonna novantenne di Maram. Con mia sorpresa, Fayez convince i soldati che gli anziani dovrebbero passare per primi, con una persona che li accompagni. Ma quando due persone cercano di accompagnare una sedia a rotelle, un soldato ordina con rabbia di fermarsi. Spara a terra con il fucile.

I bambini urlano. Il panico attraversa la fila. Una folata di vento soffia, come se volesse risistemare il palcoscenico del teatro. Il carro armato torna sulla strada e passano circa venti minuti prima che faccia di nuovo marcia indietro.

Stiamo per superare il posto di blocco quando un soldato inizia a chiamare, apparentemente a caso.

“Il giovane con la borsa di plastica blu e la giacca gialla, metta giù tutto e venga qui”.

Dopo che i soldati israeliani hanno preso i passaporti della mia famiglia, temo che non avremo più i documenti necessari per lasciare Gaza.

“L’uomo con i capelli bianchi e un bambino in braccio, lasci tutto e venga qui!”.

Non mi toglieranno dalla fila, penso. Tengo in braccio Mostafa e mostro il suo passaporto americano. Poi il soldato dice: “Il giovane con lo zaino nero che ha in braccio un bambino con i capelli rossi. Metta giù il bambino e venga da me”. Sta parlando con me.

Decido improvvisamente di provare a mostrare ai soldati i nostri passaporti. Maram tiene il mio telefono e il suo passaporto. “Dirò loro che stiamo andando al valico di Rafah e che nostro figlio è un cittadino americano”, dico. Ma ho fatto solo pochi passi quando un soldato mi ordina di fermarmi. Sono così spaventato che mi dimentico di guardare Mostafa. Lo sento piangere.

Mi unisco a una lunga fila di giovani in ginocchio. Un soldato ordina a due donne anziane, che sembrano aspettare uomini che sono stati trattenuti, di continuare a camminare. “Se non vi muovete, vi spariamo”, dice il soldato. Dietro di me, un giovane singhiozza. “Perché hanno scelto me? Sono un contadino”, dice. Non preoccuparti, gli dico. Ci interrogheranno e poi ci rilasceranno.

Dopo mezz’ora, sento il mio nome completo, pronunciato due volte: “Mosab Mostafa Hasan Abu Toha”. Sono perplesso. Non ho mostrato a nessuno il mio documento di identità quando sono stato prelevato dalla fila. Come fanno a sapere il mio nome?

Cammino verso una jeep israeliana. La canna di una pistola mi punta contro. Quando mi chiedono il mio numero di identificazione, lo recito più forte che posso.

“Ok, siediti vicino agli altri”.

Circa dieci di noi sono inginocchiati sulla sabbia. Vedo mucchi di soldi, sigarette, cellulari, orologi e portafogli. Riconosco un uomo del mio quartiere, leggermente più giovane di mio padre. “La cosa più importante è che non ci prendano come scudi umani per proteggere i loro carri armati”, dice. Questa possibilità non mi è mai passata per la testa e il mio terrore cresce.

Veniamo condotti, a due a due, in uno spiazzo vicino a un muro. Un soldato con un megafono ci dice di spogliarci; altri due ci puntano contro le armi. Mi spoglio fino ai boxer e lo stesso fa il giovane accanto a me.

Il soldato ci ordina di continuare. Ci guardiamo l’un l’altro, scioccati. Mi sembra di vedere un movimento di uno dei soldati armati e temo per la mia vita. Ci togliamo i boxer.

“Girati!”

È la prima volta in vita mia che degli estranei mi guardano nudo. Parlano in ebraico e sembrano allegri. Stanno scherzando sui peli del mio corpo? Forse possono vedere le cicatrici dove le schegge mi hanno tagliato la fronte e il collo quando avevo sedici anni. Un soldato mi chiede i documenti di viaggio. “Questi sono i nostri passaporti”, dico, rabbrividendo. “Siamo diretti al valico di frontiera di Rafah”.

“Zitto, figlio di puttana”.

Mi permettono di indossare i vestiti, ma non la giacca. Mi prendono il portafoglio e mi legano le mani dietro la schiena con manette di plastica. Uno dei soldati fa dei commenti sul mio tesserino da impiegato dell’UNRWA. “Sono un insegnante”, gli dico. Lui impreca di nuovo contro di me.

I soldati mi bendano e mi attaccano un braccialetto numerato a un polso. Mi chiedo come si sentirebbero gli israeliani se fossero identificati con un numero. Poi qualcuno mi afferra per la nuca e mi spinge in avanti, come se fossimo pecore in procinto di essere macellate. Continuo a chiedere di parlare con qualcuno, ma nessuno risponde. La terra è fangosa, fredda e cosparsa di macerie.

Mi spingono in ginocchio, mi fanno alzare e poi mi ordinano di inginocchiarmi di nuovo. I soldati continuano a chiedere in arabo: “Come ti chiami? Qual è il tuo numero di identificazione?”.

Un uomo si rivolge a me in inglese. “Tu sei un attivista. Con Hamas, giusto?”.

“Io? No, lo giuro. Ho smesso di andare in moschea nel 2010, quando ho iniziato a frequentare l’università. Ho trascorso gli ultimi quattro anni negli Stati Uniti e ho conseguito un master in scrittura creativa alla Syracuse University”.

Sembra sorpreso.

“Alcuni membri di Hamas che abbiamo arrestato hanno detto che sei un membro di Hamas”.

“Stanno mentendo”. Chiedo le prove.

Mi dà uno schiaffo in faccia. “Portami tu la prova che non sei di Hamas!”.

Tutto intorno a me è buio e spaventoso. Mi chiedo: “Come può una persona ottenere una prova di qualcosa che non è? Poi mi fanno bruscamente camminare di nuovo. Che cosa ho fatto? Dove ci porteranno?

Mi viene detto di togliermi le scarpe e un gruppo di noi viene condotto altrove. La pioggia fredda e il vento ci colpiscono la schiena.

Lascio la mia casa con un solo libro: una copia logora della mia raccolta di poesie, “Things You May Find Hidden in My Ear: Poesie da Gaza”.

“Avete violentato le nostre ragazze”, dice qualcuno. “Avete ucciso i nostri figli”. Ci schiaffeggia il collo e ci prende a calci sulla schiena con stivali pesanti. In lontananza si sentono colpi di artiglieria che squarciano l’aria.

Uno dopo l’altro siamo costretti a salire su un camion. Qualcuno che non si muove mi atterra sulle ginocchia. Temo che un soldato mi abbia gettato addosso un cadavere, come forma di tortura, ma ho paura di parlare. Sussurro: “Sei vivo?”.

“Sì, amico”, dice la persona, e io tiro un sospiro di sollievo.

Quando il camion si ferma, si sentono dei colpi di pistola. Non sento più il mio corpo. I soldati emanano un odore che mi ricorda quello delle bare. Mi ritrovo a desiderare che un attacco di cuore mi uccida.

Alla fermata successiva, ci inginocchiamo di nuovo all’aperto. Comincio a chiedermi se l’esercito israeliano ci stia mettendo in mostra. Quando un giovane accanto a me grida “No Hamas, no Hamas!”, sento dei calci ripetuti finché le grida cessano.

Un altro uomo, forse parlando da solo, dice a bassa voce: “Ho bisogno di stare con mia figlia e mia moglie incinta. Per favore”.

I miei occhi si riempiono di lacrime. Immagino Maram e i nostri figli dall’altra parte del checkpoint. Non hanno coperte e nemmeno vestiti a sufficienza. Sento le soldatesse che chiacchierano e ridono.

All’improvviso, qualcuno mi dà un calcio nello stomaco. Volo all’indietro e cado a terra, senza fiato. Grido in arabo invocando mia madre.

Sono costretto a tornare in ginocchio. Non c’è tempo per avere paura. Uno stivale mi colpisce al naso e alla bocca. Sento che sono quasi allo stremo, ma l’incubo non è finito.

Tornato nel camion, il mio corpo è così dolorante che vorrei non avere né mani né spalle. Dopo circa novanta minuti di guida, veniamo fatti scendere dal camion e spinti giù per delle scale. Un soldato mi taglia le manette di plastica. “Entrambe le mani sulla recinzione”, dice.

Questa volta il soldato mi lega le mani davanti. Un sospiro di sollievo. Vengo scortato per una quindicina di metri. Finalmente qualcuno mi parla in arabo palestinese. Sembra avere l’età di mio padre.

All’inizio odio quest’uomo. Penso che sia un collaborazionista. Ma poi lo sento descrivere come uno shawish, un detenuto come noi, senza altra scelta se non quella di lavorare per i suoi carcerieri. “Lascia che ti aiuti”, mi dice.

Lo shawish mi veste con abiti nuovi e mi accompagna all’interno del recinto. Quando alzo la testa bendata, intravedo un tetto di lamiera ondulata. Siamo in una specie di centro di detenzione; i soldati ci sorvegliano tutt’intorno. Lo shawish srotola quello che sembra un tappetino da yoga, mi fa stendere e mi copre con una coperta sottile. Metto le mani legate dietro la testa, come cuscino. Le braccia mi bruciano dal dolore, ma il mio corpo lentamente si riscalda. Questa è la fine del primo giorno.

Per anni ho sognato di guardare fuori dal finestrino di un aereo e vedere la mia casa dall’alto. Nella mia vita adulta, non ho mai visto un volo civile sopra Gaza. Ho visto solo aerei da guerra e droni. Israele ha bombardato l’aeroporto internazionale di Gaza all’inizio degli anni Duemila, durante la seconda intifada, e da allora l’aeroporto non ha più funzionato.

La maggior parte dei miei amici non ha mai lasciato Gaza. Ma negli ultimi anni, mentre lottavano per trovare lavoro e sfamare le famiglie, si sono chiesti: “Quanto devo aspettare?” Alcuni sono emigrati in Turchia e poi in Europa. Alcuni invidiano i miei tre viaggi negli Stati Uniti. Ogni volta che sono tornato, con foto di città sconosciute, alberi e neve, la gente mi ha chiamato “l’americano” e mi ha chiesto perché sono tornato. Dicono che a Gaza non c’è niente. Io rispondo sempre che voglio stare con la mia famiglia e i miei vicini. Ho la mia casa, il mio lavoro di insegnante e i miei libri. Posso giocare a calcio con i miei amici e andare a mangiare fuori. Perché dovrei lasciare Gaza?

Ci svegliamo al suono di un soldato che grida in un megafono. Lo shawish si assicura che tutti siano inginocchiati a terra. Ci ha detto che siamo in un posto chiamato Be’er Sheva, nel deserto del Negev. È la prima volta che vengo in Israele.

Il più giovane di noi, di cui riconosco la voce, grida improvvisamente di essere innocente. “Ho bisogno di vedere mia madre”, dice. I miei piedi iniziano a sentirsi intorpiditi.

Sento urla e percosse. “O.K., O.K., starò zitto”, dice. “Ma per favore rimandatemi indietro”. Seguono altre percosse.

La persona accanto a me chiede acqua allo shawish. “Niente acqua ancora “, dice lo shawish. Sembra frustrato e lo capisco. Più di cento detenuti dipendono da lui. Quando mi accompagna al bagno, per la prima volta dalla mattina precedente, deve aiutarmi ad aprire la porta e a posizionarmi per urinare. La puzza è molto forte.

La colazione consiste in un piccolo pezzo di pane, uno yogurt e un po’ d’acqua versata direttamente in bocca. Non ho fame, nemmeno se avessi davanti torta di compleanno di mia madre. Quando torno alla toilette, verso mezzogiorno, lo shawish mi dice che non c’è carta igienica né acqua per lavarsi.

Più tardi, un soldato dice allo shawish che andremo da un medico. Sento un senso di sollievo nella stanza.

“Gli dirò del mio diabete”.

“Sì, e gli parlerò del mio problema alla vescica”.

Io gli parlerò del dolore al naso, alla mascella e all’orecchio destro, dove sono stato operato qualche anno fa. Da quando mi hanno dato un calcio in faccia, il mio udito è più debole di prima.

Ci inginocchiamo fuori, con le mani sulla schiena della persona che abbiamo davanti. Il vento ci colpisce, i sassi ci incidono le ginocchia. Ci fanno salire su un autobus e un soldato mi spinge la testa in basso, anche se non vedo nulla. Forse non vogliono guardarci in faccia.

Quando usciamo dal camion e viene chiamato il mio nome, mi viene consegnata temporaneamente la carta d’identità. Sento un pizzico di speranza. Forse ci rilasceranno.

All’interno di un edificio mi viene tolta la benda. Un soldato mi punta un M-16 alla testa. Un altro soldato, dietro un computer, mi fa delle domande e mi scatta una foto. Un altro badge numerato viene fissato al mio braccio sinistro. Poi vedo il medico, che mi chiede se soffro di malattie croniche o se mi sento male. Non sembra interessato al mio dolore.

Tornati al centro di detenzione, di nuovo bendati, ci inginocchiamo dolorosamente per ore. Cerco di dormire. Un uomo geme lì vicino; un altro spera di poter tornare dal medico. A tarda sera, un soldato chiama il mio nome. Lo shawish mi conduce al cancello e una jeep viene a portarmi via.

Vengo legato a una sedia in una piccola stanza. Un ufficiale israeliano, il capitano T., entra e chiede: “Marhaba, keefak?”. In arabo significa “Ciao, come stai?”.

Sono molto triste per tutto quello che mi è stato fatto, gli dico.

Non essere triste, mi dice. Ne parleremo.

Il capitano esce dalla stanza e torna con un caffè. Un soldato mi slega il braccio destro, così posso tenere la tazza.

Gli assicuro che dirò tutto di me, anche dove mi trovavo il 7 ottobre, ma voglio che risponda a una domanda.

“Certo. Sto ascoltando”.

Mi rilascerà se non c’è nulla di sospetto su di me?

Promette che lo farà.

Prende appunti mentre gli racconto dei miei viaggi negli Stati Uniti, del mio libro di poesie e dei miei studenti di inglese. Gli racconto che la mattina del 7 ottobre, quando Hamas ha iniziato a lanciare razzi contro Israele, indossavo dei vestiti nuovi e mia moglie mi stava scattando una foto. Il rumore dei razzi faceva piangere mia figlia Yaffa, così le ho mostrato alcuni video di YouTube sul mio telefono. Mio padre e i miei fratelli si trovavano su piani diversi della casa e abbiamo iniziato a parlare dalle finestre. Che cosa sta succedendo? È una specie di test?

Quando lasciamo il nord di Gaza, infiliamo i vestiti invernali dei nostri figli nello zaino di Yazzan.

Maram porta con sé una coperta per bambini che ha la testa di una volpe e due maniche, così i nostri figli possono indossarla come un mantello.

Su Telegram abbiamo cominciato a trovare video di combattenti di Hamas all’interno di Israele con le loro jeep e motociclette, che circondavano le case e sparavano ai soldati israeliani. All’inizio, alcuni gazawi sembravano eccitati e felici dell’attacco. Ma molti di noi erano perplessi e spaventati. Sebbene Gaza sia stata devastata dall’occupazione israeliana, non potevo giustificare le atrocità commesse contro i civili israeliani. Non c’è motivo di uccidere qualcuno in questo modo. Sapevo anche che Israele avrebbe risposto. Hamas non aveva mai fatto una cosa del genere e temevo che anche la rappresaglia israeliana sarebbe stata senza precedenti.

Il capitano T. mi fa due domande. Prima: sono a conoscenza di tunnel di Hamas o di piani per imboscate?

Ho trascorso la maggior parte degli ultimi quattro anni negli Stati Uniti, dico. Passo il mio tempo insegnando, leggendo, scrivendo e giocando a calcio. Non so queste cose e non sono coinvolto con Hamas.

Poi il capitano T. mi chiede i nomi e l’età dei membri della mia famiglia. Prima di partire, mi dice che proviene da una famiglia di ebrei marocchini. Ci sono molte cose in comune tra noi, dice. Annuisco e sorrido, cercando di credere che pensi davvero quello che dice.

Gli chiedo cosa mi succederà. Mi dice che indagheranno su quello che gli ho detto. Potrebbero volerci diversi giorni.

“E poi?”

“O ti imprigioneremo o ti rilasceremo”.

Sono su un letto, incatenato e in attesa di tornare al centro di detenzione. Qualcuno viene a portarmi via, ma poi si ferma e parla con qualcun altro. Mi lasciano per un po’ e mi addormento al suono della musica ebraica. Mi piace la voce del cantante.

Quando mi sveglio, un soldato dice qualcosa in inglese a cui non riesco a credere.

“Ci dispiace per l’errore. Tornerai a casa”.

“Dici sul serio?”

Silenzio.

“Tornerò a Gaza e starò con la mia famiglia?”.

“Perché non dovrei essere serio?”.

Interviene un’altra voce: “Non è questo lo scrittore?”.

Nel centro di detenzione, mentre mi addormento, penso alle parole “Ci dispiace per l’errore”. Mi chiedo quanti errori abbia commesso l’esercito israeliano e se chiederà scusa a qualcun altro.

Martedì, circa due giorni dopo che ho lasciato la scuola, l’uomo con il megafono ci insegna a dare il buongiorno in ebraico. “Boker Tov, capitano”, diciamo all’unisono. In un recinto vicino sono arrivati alcuni nuovi detenuti e i soldati che li sorvegliano sembrano divertirsi. Cantano una parte di una canzone araba per bambini, “Oh, pecorella mia!”, e ordinano ai detenuti di dire “Baa” in risposta.

Circa un’ora dopo, un soldato chiama il mio nome e mi ordina di stare vicino al cancello. Lo shawish mi avverte che potrebbero interrogarmi e picchiarmi di nuovo. “Sii forte e non mentire”, mi dice. Sento un’ondata di panico.

Dopo un’ora si avvicinano alcuni soldati. Uno ha il mio documento, un altro mi lascia un paio di ciabatte e mi dice di camminare. Poi uno di loro dice: “Libero!”.

Sono così felice che lo ringrazio. Penso a mia moglie e ai miei figli. Spero che i miei genitori e i miei fratelli siano vivi.

Trascorro circa due ore nel luogo in cui sono stato interrogato, con la musica ebraica. Mi viene dato del cibo e dell’acqua, ma i soldati non riescono a trovare i passaporti della mia famiglia. Salgo su una jeep, circondata da soldati. Dopo due ore, riesco a vedere dai bordi della benda che ci stiamo avvicinando a Gaza.

I soldati scendono, fumano e tornano armati fino ai denti, indossando giubbotti ed elmetti. Penso all’uomo che ho riconosciuto mentre ero in fila e a quello che ha detto sugli scudi umani. Comincio a desiderare di poter tornare al centro di detenzione quando mi daranno la mia carta d’identità.

In piedi contro un muro, dico al soldato più vicino che ho paura.

“Non aver paura. Presto te ne andrai”.

Mi tagliano le manette e mi tolgono la benda. Vedo il luogo in cui ho dovuto togliermi i vestiti. Quando vedo i nuovi detenuti che aspettano lì, la tristezza mi invade.

Cammino velocemente. Al posto di blocco, in una grande pila di oggetti, trovo la mia borsetta, ma non lo zaino di Yazzan, dove avevamo infilato i vestiti invernali dei nostri figli. Un soldato mi urla contro con rabbia. “Mi hanno appena rilasciato”, dico.

Sulla Salah al-Din Road, decine di persone aspettano. Una madre in lacrime mi chiede se ho visto suo figlio. “È stato rapito lunedì”, dice. È martedì. Non l’ho più visto.

Non ho né soldi né telefono, ma un autista gentile si offre di accompagnarmi nella città meridionale di Deir al-Balah. So che i parenti di mia moglie si sono rifugiati lì e probabilmente Maram li avrà raggiunti con i bambini. Mentre l’uomo guida, continuo a chiedere dove siamo, e lui recita i nomi dei campi profughi: Al-Nuseirat, Al-Bureij, Al-Maghazi.

A Deir al-Balah, chiedo ad alcuni giovani che si trovano fuori da una banca e utilizzano il Wi-Fi, se conoscono qualcuno della mia città. Uno di loro mi indica una scuola.

Mi tolgo le ciabatte e inizio a correre. I passanti mi fissano, ma non mi importa. All’improvviso scorgo un vecchio amico, Mahdi, che una volta era il portiere della mia squadra di calcio. “Mahdi! Mi sono perso, aiutami”.

“Mosab!” Ci abbracciamo.

“Tua moglie e i tuoi figli sono nella scuola accanto all’università”, mi dice. “Gira a sinistra e vai avanti per circa duecento metri”.

Piango mentre corro. Proprio quando inizio a temere di aver perso la strada, sento la voce della mia Yaffa. “Papà!” Lei è il primo pezzo del mio puzzle. Sembra in salute e sta mangiando un’arancia. Quando le chiedo dove si trova il resto della famiglia, mi prende per mano e mi tira come se fossi un bambino.

Sari, lo zio di Maram, si precipita a cercare Maram. Non le dice che sono arrivato, ma solo che deve tornare a scuola per la cena. Quando mi vede, sembra che stia per crollare e io le corro incontro.

Da Maram apprendo quanto sono stato fortunato. Ha usato il mio telefono per informare gli amici di tutto il mondo, e loro hanno chiesto che fossi rilasciato in sicurezza. Penso alle centinaia o migliaia di palestinesi, molti dei quali probabilmente più meritevoli di me, che sono stati cacciati via dal checkpoint. Non avevano amici che potessero aiutarli.

Nell’appartamento della mia amica al Cairo, vedo i fiori che i miei genitori coltivavano nel nord di Gaza.

Il giorno dopo, mercoledì, vado in ospedale per farmi esaminare le ferite e vedo pazienti e cadaveri dappertutto: nei corridoi, sulle scale, sulle scrivanie. Riesco a fare una radiografia, ma non ci sono risultati: il computer del medico non funziona. Me ne vado con una prescrizione di antidolorifici.

Quel venerdì inizia una tregua temporanea. Due zii di mia moglie cercano di andare a nord, per poi tornare un’ora dopo. Dicono che i cecchini israeliani hanno sparato e ucciso due persone. Al suk, i vestiti costano più che mai. Aspetto cinque ore in un centro di assistenza dell’UNRWA nella speranza di ricevere un po’ di farina, ma senza successo. La fila per ricaricare le bombole di gas sembra lunga un chilometro.

Non appena termina il cessate il fuoco, circa settecento palestinesi vengono uccisi in ventiquattro ore. Fino a poco tempo fa, il sud era relativamente sicuro, ma ora si sentono bombe poco distanti.

Poi ricevo una telefonata dall’Ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme, con il consiglio di dirigerci al valico di frontiera di Rafah.

Mi sforzo di trovare un passaggio. Il tragitto è di circa venti chilometri e i primi due autisti a cui chiediamo hanno paura a percorrerli. Le forze israeliane hanno isolato Rafah dalla vicina città di Khan Younis. Dopo qualche telefonata, il cugino di Maram, un tassista, accetta di accompagnarci.

Al valico aspettiamo insieme a centinaia di gazawi per quattro ore. Io ho il mio documento d’identità, che riporta i nomi dei miei figli, ma solo Maram ha il suo passaporto. Temo che non abbiamo i documenti giusti per attraversare il valico. Ma alle 19 i funzionari ci fanno cenno di attraversare il cancello e ci uniamo a una folla di famiglie esauste nella sala dei viaggiatori egiziani. Mi sembra di essere guarito. L’ambasciata americana ci dà un passaporto d’emergenza per Mostafa e l’ambasciata palestinese ci fornisce documenti di viaggio monouso. Poi un minibus ci porta al Cairo.

In “Uno Stato d’assedio”, il poeta palestinese Mahmoud Darwish scrive qualcosa che è difficile da tradurre. “Facciamo quello che fanno i disoccupati”, dice. “Cerchiamo di far crescere speranza”. Il verbo nurabi, che significa allevare o crescere, è ciò che un genitore fa per un figlio, o ciò che un agricoltore fa per i raccolti. “Speranza” è una parola difficile per i palestinesi. Non è qualcosa che gli altri ci danno, ma qualcosa che dobbiamo coltivare e curare da soli. Dobbiamo aiutare la speranza a crescere.

Spero che quando la guerra finirà potrò tornare a Gaza, per aiutare a ricostruire la casa della mia famiglia e riempirla di libri. Che un giorno tutti gli israeliani possano vederci come loro pari, come persone che hanno bisogno di vivere sulla propria terra, in sicurezza e prosperità, e di costruire un futuro. Che il mio sogno di vedere Gaza da un aereo possa diventare realtà e che la mia casa possa permettermi di coltivare tanti altri sogni. È vero che ci sono molte cose da rimproverare ai palestinesi. Siamo divisi. Soffriamo di corruzione. Molti dei nostri leader non ci rappresentano. Alcuni sono violenti. Ma, alla fine, noi palestinesi condividiamo almeno una cosa con gli israeliani. Dobbiamo avere un nostro Paese, o vivere insieme in un Paese in cui i palestinesi abbiano pieni e uguali diritti. Dovremmo avere il nostro aeroporto, il nostro porto e la nostra economia, come qualsiasi altro Paese.

Un’amica egiziana ci accoglie al Cairo. Vive nel quartiere di Zamalek, su un’isola del Nilo. Quando visito il suo giardino, vedo gli stessi fiori che i miei genitori coltivavano a Beit Lahia. Sui suoi scaffali, vedo i libri che ho lasciato dietro di me, sotto le macerie. Quando le dico che la sua casa ricorda la mia casa, inizia a piangere.

Più tardi, trovo un articolo del quotidiano israeliano Haaretz che parla di un centro di detenzione a Be’er Sheva. Descrive le stesse condizioni che ho sperimentato io e dice che diversi detenuti sono morti sotto la custodia israeliana. Quando l’esercito israeliano è stato contattato per un commento sulla mia storia, un portavoce ha detto: “I detenuti sono trattati in linea con gli standard internazionali, compresi i necessari controlli per le armi nascoste. L’IDF dà priorità alla dignità dei detenuti e rivedrà qualsiasi deviazione dai protocolli”. Il portavoce non commenta le morti dei detenuti.

Su Telegram, trovo un video della Khalifa Bin Zayed Elementary, una scuola dell’UNRWA che io, Yazzan e Yaffa abbiamo frequentato. Due zii di Maram, Naseem e Ramadan, nati sordomuti, si sono rifugiati lì con le loro famiglie. Quando i bambini sentono il video, lasciano i loro giocattoli e mi raggiungono. “Ecco la mia classe”, dice Yaffa. Aveva iniziato la prima elementare poche settimane fa. Anche Yazzan vede la sua classe. Nel video, la scuola è in fiamme.

Da un parente apprendo che gli uomini della scuola sono stati portati in un ospedale, spogliati e interrogati dalle forze israeliane. In seguito, Naseem e Ramadan sono andati a cercare i loro figli. Il mio parente dice che, vicino all’ingresso della scuola, un cecchino ha sparato a entrambi, uccidendo Naseem.

Il fratello minore di Naseem, Sari, che ho visto solo pochi giorni fa, mi manda una foto di Naseem, che indossa un’uniforme bianca da medico macchiata del suo sangue. “Erano gli unici vestiti che hanno trovato in ospedale”, mi dice Sari su WhatsApp. Maram siede accanto a me e piange.

Il giorno dopo, Maram sta cucinando la maqluba, un piatto di riso, carne e verdure che non mangio da due mesi. Sto assaporando il profumo delle patate e dei pomodori quando ricevo una chiamata da un numero privato.

“Ciao, Mosab. Come stai?”

È mio suocero, Jaleel. Al suono della sua voce, gli occhi di Maram si riempiono di lacrime. Ci dice che va tutto bene, anche se sappiamo che non può essere vero. Poi la madre di Maram si avvicina al telefono.

“Mi dispiace per la nostra perdita, mamma”, dice Maram. Sento sua madre singhiozzare.

“Mamma, stai prendendo le tue medicine?”.

“Non preoccuparti per me”, dice. Ma noi non smettiamo mai di preoccuparci per loro.

Non so se il nostro viaggio finirà in Egitto o proseguirà verso gli Stati Uniti. So solo che i miei figli devono avere un’infanzia. Hanno bisogno di viaggiare, di essere educati e di vivere una vita diversa dalla mia.

Sono venuto in Egitto con un solo libro, una copia logora della mia raccolta di poesie. Dall’ultima volta che l’ho letta, ho vissuto dentro di me molte nuove poesie, che devo ancora scrivere. Dopo settimane passate a scrivere sul cellulare, per strada e nelle scuole, non sono abituato ad aprire il mio portatile senza preoccuparmi di quando potrò ricaricarlo. Non sono abituato a poter chiudere la porta. Ma una mattina mi siedo alla bella scrivania di legno della mia amica, in una stanza piena di luce, e scrivo una poesia. È indirizzata a mia madre. Spero che la prossima volta che ci parleremo potrò leggergliela.

Pubblicato nell’edizione cartacea del numero 1 dell’8 gennaio 2024, con il titolo “Passaggio insicuro”.

https://www.newyorker.com/magazine/2024/01/01/a-palestinian-poets-perilous-journey-out-of-gaza

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

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