di Hagai El-Ad,
Haaretz, 15 dicembre 2023.
Le atrocità sono impresse nella memoria storica di entrambi i popoli. I leader parlano in tempo reale della “distruzione di Israele” e della “Nakba di Gaza del 2023”. Quanto sangue può assorbire questa Terra prima di vomitarci tutti?
Il filosofo politico Frantz Fanon ha scritto che “i piedi dei coloni non sono mai visibili, tranne forse nel mare”. Sulla sponda orientale del Mediterraneo, i coloni sionisti hanno cercato in tutti i modi di fare in modo che le impronte lasciate sulla sabbia fossero solo quelle dei loro piedi. Ci hanno provato e ci sono riusciti: dopo la Nakba, sulla costa è rimasto un solo villaggio palestinese, Jisr al-Zarqa. Prima del 1948, da Jisr era possibile percorrere, magari a piedi nudi, un breve tratto a nord fino ad al-Tantura, o a sud fino a Qisarya, oggi Cesarea. Questi villaggi palestinesi, così come gli altri sulla costa, furono distrutti e le grandi città costiere palestinesi furono svuotate, da San Giovanni d’Acri e Haifa a nord, passando per Giaffa al centro fino a Majdal (oggi Ashkelon) a sud: quella Majdal, i cui ultimi abitanti palestinesi furono deportati a Gaza solo verso la fine del 1950, quando la guerra era ormai finita da tempo. O forse, non lo fu mai.
Oggi, chi cammina verso nord lungo la costa, arrivato a Jisr deve uscire da Israele/Palestina, attraversare i tunnel ferroviari bloccati e il ponte saltato in aria tra di essi a Rosh Hanikra/Ras al-Naqoura, e proseguire per circa 20 chilometri verso la periferia meridionale di Tiro, in Libano, per raggiungere la prima impronta costiera palestinese: il campo profughi di Rashidieh. E verso sud? Dovrà ovviamente entrare nella Striscia di Gaza, raggiungendo la periferia settentrionale di Gaza City e il campo profughi di Al-Shati: Shati, letteralmente il campo “spiaggia”, il cui nome indica non solo la sua posizione sulla costa mediterranea, ma forse porta anche il ricordo delle spiagge perdute, quelle che non hanno più villaggi (tranne uno) e città al loro fianco, ma piuttosto campi profughi, i luoghi dove i palestinesi sicuramente “moriranno ovunque, di qualsiasi cosa” (Fanon).
Anche i carri armati, e non solo i piedi, possono lasciare segni sulla sabbia. Israele ha catturato Rashidieh nella guerra del Libano del 1982 (nell’operazione Litani del 1978, il campo era stato accerchiato) e l’ha occupata fino al 1985. Mentre Shati, come il resto della Striscia di Gaza, è stata sotto l’occupazione diretta israeliana dal 1967 fino al ritiro, o disimpegno, del 2005, per poi passare attraverso ripetuti “round” di operazioni militari – e un blocco continuo – fino all’orribile ottobre del 2023, quando l’esercito è tornato a Shati, come in quasi tutta la metà settentrionale della Striscia. Cosa rimane ora del campo? A metà novembre, Haaretz ha riferito che “quando l’APC [Armoured Personnel Carrier, veicolo per trasportare soldati, NdT] si ferma, il portello si apre sul campo profughi di Shati. Uno sguardo intorno rivela qualcosa che una volta era una strada… Dopo un breve viaggio verso ovest, abbiamo di nuovo la vista della costa di Gaza. La sua bellezza è in netto contrasto con la distruzione lungo tutta la costa”.
A circa 120 chilometri di distanza, Shati non è più la prima comunità palestinese sulla costa a sud di Jisr a-Zarqa. A dire il vero, non è chiaro quando – se mai lo sarà – lo sarà di nuovo. In questo modo abbiamo “sostituito” – secondo le parole di Fanon – “una certa ‘specie’ di uomini con un’altra ‘specie’ di uomini”. La storia dimostra che quando un popolo viene “sostituito” da un altro – quando si effettua una colonizzazione – si commettono atrocità. Non si tratta di un’intuizione teorica e lontana: nel 1948, durante quella “sostituzione”, abbiamo commesso atrocità: da Deir Yassin (dopo la sostituzione: il quartiere Har Nof di Gerusalemme) a Tantura (dopo la sostituzione: Moshav Dor e Kibbutz Nahsholim). E poiché la decolonizzazione è “semplicemente” l’inversione di quanto sopra, non poche persone – disgustosamente – ritengono che i massacri, gli stupri e gli altri orrori del 7 ottobre esprimano tale momento di “decolonizzazione”, e quindi siano, essenzialmente, giustificati.
Suppongo che sia possibile accettare – con rassegnazione o risentimento – un destino storico che abbraccia una visione del mondo secondo cui tra il fiume e il mare tutto, assolutamente tutto, è un gioco a somma zero. E che per sempre sarà esattamente così, e se non per sempre, fino a quando, fino a quando esattamente? Fino alla “decolonizzazione” degli ebrei o fino alla “sconfitta decisiva” dei palestinesi? Entrambe le possibilità comportano una lettura superficiale – e crudele – della storia. Sì, è bene leggere Fanon, sentire l’eco delle sue idee, riconoscerle nel nostro contesto locale; e riconoscere, con un po’ meno di automatica superficialità, le differenze: La Palestina non è l’Algeria, e noi non siamo (parlando di piedi) pieds-noirs; “Chi può contestare i diritti degli ebrei sulla Palestina?” (come scrisse il sindaco di Gerusalemme Yousef al-Khalidi nel 1899, in una lettera consegnata a Herzl); gli ebrei sono venuti qui mentre “si appoggiavano al Mandato Britannico” (Jabotinsky), ma siamo anche venuti qui come rifugiati mentre combattevamo il Mandato; e, soprattutto: nessun’altra casa ci aspetta in nessun’altra parte del mondo. Gli ebrei camminano qui, a volte a piedi nudi, da molte generazioni. In questa terra, la riva del mare non è l’unico luogo in cui i nostri piedi sono visibili.
Naturalmente, non solo i nostri piedi. Una sconfitta decisiva? L’operazione Yoav (ottobre 1948) ha portato, in breve tempo, allo svuotamento della pianura costiera meridionale (e del Negev/Naqab settentrionale) dai palestinesi, raddoppiando così la popolazione della Striscia di Gaza e trasformandola in un luogo in cui la maggior parte delle persone, ancora oggi, sono rifugiati o loro discendenti. Settantacinque anni dopo, l’attuale operazione militare israeliana sta già svuotando un altro appezzamento di terra dai palestinesi: questa volta, la metà settentrionale della Striscia, mentre raddoppia la popolazione della metà meridionale; e chissà se, quando e dove esattamente Israele permetterà loro di tornare. In effetti, è possibile continuare tutto questo. “Ripiegare” ancora più palestinesi in ancora meno territorio, non solo a Gaza, ma ovunque: anche in Cisgiordania e in Galilea, a Gerusalemme e nel Negev. Uccidere ancora più palestinesi: nel 2014 abbiamo ucciso centinaia di bambini a Gaza, ora sono migliaia. Continuare a portare la “violenza nelle case e nelle menti” dei palestinesi e ricordare loro (e a noi stessi) ancora e ancora “che la grande resa dei conti non può essere rimandata all’infinito” (Fanon). Tutto questo è possibile.
E in effetti, l’attuale piano di guerra israeliano – come annunciato quasi quotidianamente – è quello di continuare fino a quando “l’eliminazione di Hamas” non sarà completata. Rispetto a questo piano c’è chi ricorda che Hamas è un movimento palestinese – un’idea – e che le idee non possono essere distrutte. Questo è ovviamente vero, ma – e spesso gli stessi omettono di dire quanto segue – questa intuizione non vale solo per alcune idee nazionaliste o violente, ma per le idee in generale. Anche le idee umanistiche non possono essere distrutte, anche se gli esseri umani che le sostengono come loro visione ideale del mondo vengono uccisi.
Sono giorni bui per milioni di persone. Siamo qui, più di 15 milioni di persone, che si dibattono in un orrore senza fine di morte e violenza. Non passa giorno senza lacrime. Le idee umanistiche possono forse essere indistruttibili, ma sono rilevanti in questa realtà? In verità, sono più attuali che mai – non per indulgere in un ingenuo moralismo, ma perché esprimono realmente una diversa prospettiva morale, desiderosa di vita, al cui centro c’è anche una misura di sobrio realismo che è stata formulata già nel 1948, nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani: “È essenziale, se non si vuole che l’uomo sia costretto a ricorrere, come ultima risorsa, alla ribellione contro la tirannia e l’oppressione, che i diritti umani siano protetti”.
Chiunque avesse occhi per guardare sapeva che la realtà si stava dirigendo, Dio non voglia, verso una terribile implosione. Ecco come si esprimeva B’Tselem (l’organizzazione israeliana per i diritti umani che ho diretto fino a circa sei mesi fa) nel 2017: “La situazione erroneamente chiamata status quo assicura una cosa e una sola: una continua spirale discendente verso una realtà sempre più violenta, ingiusta e senza speranza. Se non si trova una via d’uscita nonviolenta alla situazione attuale, la violenza dell’ultimo mezzo secolo potrebbe essere solo un’anteprima di qualcosa molto peggiore che verrà. Lo sforzo per ottenere un futuro diverso non è solo un urgente imperativo morale, ma una questione di vita o di morte”. B’Tselem ha ripetuto queste parole più volte, anche nel maggio 2021 (durante l’operazione Guardian of the Walls): “Una realtà che si basa sulla violenza organizzata non è solo immorale – è un pericolo per tutti noi… Tutti desideriamo la vita. Per ognuno di noi”.
E no, in questa prospettiva realistica, non c’è alcuna giustificazione per le atrocità del 7 ottobre. Sì, è possibile architettare una realtà radicata nell’espropriazione e nell’oppressione, un regime basato sulla supremazia e sulla violenza, e fingere che tutto ciò non porti a un’implosione – e persino incolpare coloro che hanno avvertito dell’esito inevitabile come se stessero giustificando la violenza. Ma questo è ipocrita: mettere in guardia dall’abisso imminente non è un’apologia a priori del crollo previsto. Si tratta piuttosto di un tentativo, forse disperato, di evitarlo.
Gli esseri umani possono fare delle scelte. Pertanto, abbiamo una responsabilità morale. Gli israeliani sono responsabili (tra le altre cose) delle conseguenze della politica di lunga data che ha reso chiaro ai palestinesi che Israele non aveva alcuna intenzione di concedere loro libertà o uguaglianza, una politica che ha cercato di calpestare qualsiasi canale nonviolento attraverso il quale i palestinesi cercavano di resistere alla loro espropriazione. È Israele che ha deciso che tutto, tranne la resa dei palestinesi, è “terrorismo”. Manifestazioni? Terrorismo popolare. La Corte Penale Internazionale dell’Aia? Terrorismo legale. Le Nazioni Unite? Terrorismo diplomatico. Le sanzioni? Terrorismo economico. Un approccio continuo, arrogante, immorale e irresponsabile, che ha reso chiaro ogni giorno di più che qualsiasi tentativo di resistenza non violenta era vietato e che Israele avrebbe agito con la forza. L’esito assolutamente prevedibile di tutto questo è stato, e continua ad essere, una maggiore violenza.
E anche se l’implosione violenta è stata l’abisso visibile a tutti a cui ci si avvicinava, c’è una responsabilità terribile e inequivocabile che è condivisa da chiunque abbia deciso di varcare la soglia dell’abisso. È la responsabilità palestinese (tra le altre cose) di aver dato fuoco alle case con i loro occupanti ancora dentro, di aver ucciso bambini, stuprato donne, rapito famiglie e di aver fatto tutte le altre atrocità del 7 ottobre e da quel terribile giorno in poi. Contro tali crimini c’è sempre stato e ci sarà per sempre un divieto morale assoluto. Lo shock, la rabbia, la terribile tristezza senza fine e le lacrime che non si fermano mai sono la risposta umana al calpestamento delle norme più elementari. Lo shock è ancora più doloroso quando c’è chi cerca di negare i fatti di sangue, o quando c’è chi non riesce a dire semplicemente che questa è un’atrocità, che questo è un crimine, che questi sono divieti assoluti che sono stati violati più e più volte nelle camere di sicurezza di Be’eri, sui prati di Kfar Azza, tra le case di Nir Oz, nei campi di Re’im e nelle strade di Sderot e Ofakim.
Il paradigma israeliano, da anni ormai, è quello di controllare l’intera area gestendo la maggior parte dei palestinesi attraverso due subappaltatori: l’Autorità Palestinese in Cisgiordania e Hamas a Gaza. Da tempo c’è chi sostiene che, dopo l’instaurazione del regime di Oslo nei Territori, Fatah, il “Movimento per la Liberazione della Palestina”, può ancora essere un movimento, ma di certo non fa più molta liberazione. Pertanto, la cosa migliore che può fare è ribellarsi al paradigma e “restituire le chiavi” a Israele. In fin dei conti, è stato l’altro subappaltatore, Hamas, a rovesciare il paradigma. Come ha dichiarato al New York Times Khalil al-Hayya, membro del politburo di Hamas, “l’obiettivo del gruppo non è quello di gestire Gaza e di portarle l’acqua, l’elettricità e così via…”. Non ha cercato di migliorare la situazione a Gaza. Questa battaglia è per rovesciare completamente la situazione”.
Sì, il vecchio paradigma era marcio fino al midollo. Chiunque l’abbia preso a calci lo ha fatto con una crudeltà spaventosa. Il prezzo pagato in sangue continua a salire alle stelle. E ora viviamo tutti in un mondo post 7 ottobre. In Israele non è ancora possibile identificare tutti i corpi. A Gaza è impossibile contare tutti i corpi. Per tutti i miei anni in B’Tselem, ho tenuto nel cuore la paura del giorno in cui l’orrore sarebbe tracimato e il cosiddetto conflitto si sarebbe trasformato in una fase così violenta che non tutte le vittime avrebbero potuto avere un nome o una tomba. Abbiamo raggiunto questa fase. Viviamo questo orrore. Deir Yassin e Gush Etzion, Sabra e Shatila, Be’eri e Gaza. Atrocità impresse nella memoria storica di entrambi i popoli. Leader che parlano in tempo reale della “distruzione di Israele” e della “Nakba di Gaza del 2023”. Quanto sangue può assorbire questa Terra prima di vomitarci tutti?
Tutti desideriamo la vita. Per ognuno di noi.
Traduzione a cura di AssoPacePalestina
Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
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