di Omer Bartov,
The Guardian, 29 novembre 2023.
Per uscire da questa impasse sanguinosa, Israele deve dichiarare che cerca un accordo con una leadership palestinese disposta a collaborare e deve prendere provvedimenti per porre fine all’occupazione.
Come molte altre persone in Israele e nel mondo, la mia prima reazione all’attacco del 7 ottobre è stata di shock e orrore. Ma questa prima reazione è stata accompagnata dalla rabbia, non solo per lo spaventoso massacro perpetrato da Hamas su donne e bambini, anziani e disabili, persino neonati, ma anche verso coloro che avrebbero potuto prevenire questo atto di violenza, i molti che lo hanno preceduto e la brutale rappresaglia che ne sarebbe seguita.
Senza obiettivi politici chiaramente definiti, la guerra tende a degenerare in distruzione e annientamento senza fine. L’unica via d’uscita da questa situazione di stallo è che Israele dichiari di cercare una risoluzione pacifica del conflitto con una leadership palestinese adeguata e disponibile. Una simile dichiarazione trasformerebbe radicalmente la situazione e aprirebbe la strada a passi intermedi da compiere sul campo, a cominciare dalla cessazione delle uccisioni reciproche e dalla restituzione di tutti gli ostaggi sopravvissuti.
Qualsiasi percorso politico per risolvere questa crisi deve includere passi verso la fine dell’occupazione. Due mesi prima dell’attacco di Hamas, ho contribuito alla stesura di una petizione in cui si sottolineava che il tentativo di “revisione” legale del governo israeliano era stato promosso da una fazione di coloni di estrema destra il cui obiettivo era quello di annettere la Cisgiordania. Tuttavia, l’imponente movimento di protesta contro il colpo di stato giudiziario si era rifiutato di affrontare questo “elefante nella stanza”: l’occupazione di milioni di palestinesi.
Il 7 ottobre, questa realtà repressa è letteralmente esplosa in faccia al Paese. Era un evento che aspettava di accadere. Se si tengono oltre 2 milioni di persone sotto assedio per 16 anni, stipate in una stretta striscia di terra, senza lavoro sufficiente, servizi igienici adeguati, cibo, acqua, energia e istruzione, senza speranza o prospettive future, non ci si può aspettare altro che esplosioni di violenza sempre più disperata e brutale, atrocità imperdonabili come quelle a cui abbiamo assistito.
Per molto tempo, i politici e i generali israeliani hanno creduto di poter “gestire” il conflitto con i palestinesi piuttosto che risolverlo. In effetti, le molteplici amministrazioni di Benjamin Netanyahu hanno scelto di mantenere Hamas abbastanza forte e l’Autorità Palestinese in Cisgiordania abbastanza debole e impopolare, in modo che il primo ministro israeliano e i suoi alleati potessero sostenere che nessun patto politico con i palestinesi era possibile. Nel frattempo, gli insediamenti continuavano a proliferare nei territori occupati, rendendo sempre più impraticabile qualsiasi compromesso territoriale.
Lo stallo politico, imposto da Israele, alla fine ha portato alla violenza. Sebbene Hamas non rappresenti una minaccia esistenziale per Israele, l’attuale guerra a Gaza potrebbe portare a un maggiore coinvolgimento di Hezbollah, delle milizie iraniane e degli Houthi sciiti. La crescente violenza dei coloni e delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) nella Cisgiordania occupata potrebbe innescare un’altra Intifada, seguita da un tentativo di pulizia etnica di quel territorio, scatenando a sua volta la violenza solidale nelle città “miste” ebraiche e palestinesi di Israele. Israele potrebbe quindi scatenare un conflitto di dimensioni mai sperimentate dal 1948, con conseguenze regionali e interne imprevedibili ma sicuramente profonde.
Negare le cause profonde della crisi attuale non fa che peggiorare le cose. Israele si è presentato come l’unica democrazia del Medio Oriente, ma questo vale solo per i suoi 7 milioni di residenti ebrei. I 2 milioni di cittadini palestinesi interni a Israele non hanno mai goduto di pieni diritti democratici; i 3 milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania sotto un’occupazione israeliana che dura da 56 anni non hanno quasi alcun diritto e quasi la metà dei palestinesi di Gaza ha passato tutta la vita sotto l’assedio israeliano. È a causa della sua negazione di questa realtà che Israele è attualmente in bilico su un precipizio.
Dal 7 ottobre, l’IDF ha sfollato 1,7 milioni di civili – la maggior parte dei quali sono profughi palestinesi della Nakba del 1948 o loro discendenti – dalla parte settentrionale di Gaza a quella meridionale, riducendo in macerie un gran numero di case. Secondo la maggior parte delle stime, gli attacchi militari israeliani su Gaza hanno ucciso un numero di palestinesi, tra cui numerosi bambini (che costituiscono il 50% della popolazione complessiva), ben 10 volte superiore al numero di israeliani uccisi da Hamas. Questa politica sta creando una crisi umanitaria insostenibile. La popolazione di Gaza non ha uno spazio in cui andare e le sue infrastrutture vengono demolite.
Nel frattempo, i leader politici e militari israeliani hanno fatto dichiarazioni profondamente preoccupanti che sembrano preparare il terreno per quella che potrebbe risultare una pulizia etnica. I potenziali contorni di questa impresa sono stati rivelati dall’arci-conservatore Kohelet Policy Forum, precedentemente impegnato nei piani di revisione giudiziaria, che sostiene la “ricollocazione” dei rifugiati da Gaza in altri Paesi, permettendo ai coloni ebrei di prendere il sopravvento.
Molti altri membri del governo, del parlamento e dell’esercito israeliano vorrebbero vedere il popolo palestinese, in quanto tale, scomparire dalla carta geografica e dalle coscienze. Per questo motivo dobbiamo mettere urgentemente in guardia contro il potenziale genocidio prima che si verifichi, piuttosto che condannarlo tardivamente dopo che è già avvenuto. I fatti suggeriscono che l’esercito israeliano sta già violando le Convenzioni di Ginevra sulle leggi e gli usi di guerra, il che ha portato a una crescente censura internazionale e a una rapida perdita di sostegno negli Stati Uniti.
Per evitare di chiudersi sempre più in un angolo, Israele deve definire un chiaro gioco politico finale che crei le condizioni per porre fine al conflitto. Sebbene sia auspicabile eliminare il controllo politico e militare di Hamas a Gaza, ciò potrebbe non essere del tutto fattibile. Anche se Hamas fosse in qualche modo rimosso da Gaza – come l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina fu rimossa da Beirut – non c’è un piano conosciuto del governo israeliano su cosa accadrebbe dopo. Gli israeliani non vogliono la responsabilità di governare altri 2 milioni di palestinesi, e non la vuole nemmeno l’Egitto. E l’Autorità Palestinese, fortemente indebolita da Israele, sarebbe vista come un suo agente se venisse portata a Gaza.
Tuttavia, una linea politica che cerchi una soluzione pacifica appare altamente improbabile sotto l’attuale leadership politica israeliana, che è tanto estrema quanto incompetente. È quindi fondamentale esercitare una pressione morale e politica sui responsabili politici israeliani e sull’opinione pubblica affinché desistano da azioni che potrebbero sfociare in crimini di guerra, crimini contro l’umanità, pulizia etnica e persino genocidio.
Come storico dell’Olocausto, ho esortato i miei colleghi a parlare contro la retorica disumanizzante di Israele rivolta alla popolazione di Gaza e a condannare l’escalation di violenza in Cisgiordania. Ma per ora, tutto ciò che sentiamo dalla maggior parte di questi studiosi è il silenzio o il “parliamo piuttosto di…[whataboutism]”.
L’attuale atmosfera nei campus statunitensi e in altri forum intellettuali è altrettanto poco incoraggiante. Alcuni sedicenti di sinistra e sostenitori della causa palestinese hanno elogiato l’efferato massacro del 7 ottobre e rifiutato il diritto di Israele di difendere i propri cittadini attaccando Hamas, che si rifugia in aree densamente popolate. Altri hanno mostrato una notevole mancanza di empatia nei confronti delle centinaia di vittime e degli ostaggi ebrei. Molte condanne dei bombardamenti israeliani su Gaza spesso non menzionano nemmeno l’attacco terroristico iniziale di Hamas, o si riferiscono ad esso con il tipo di linguaggio opaco o offuscante che gli attivisti pro-palestinesi giustamente condannano quando viene applicato alla sofferenza palestinese.
Al contrario, i sostenitori di Israele, molti dei quali ebrei, si sentono profondamente traditi dai colleghi liberali che non mostrano alcuna compassione per le vittime di Hamas. Ma mentre possono essere ambivalenti riguardo all’immensa distruzione di Gaza, in genere rifiutano di riconoscere le cause politiche più profonde di questo stato di cose e spesso ricorrono ai familiari cliché, fin troppo comuni in Israele, della barbarie palestinese, araba e musulmana, e dell’eterno e universale antisemitismo, che rilevano anche tra alcuni dei loro stessi colleghi liberali.
Manca una vera conversazione tra questi due gruppi, che continuano a rispecchiare la stessa incapacità di comunicare che caratterizza la regione stessa, pur non essendo per lo più colpiti direttamente dalla violenza. Con un atteggiamento da sostenitori di una giusta causa che pagano un prezzo minimo, questo deplorevole moralismo a buon mercato ha raggiunto nuove vette dopo l’attuale esplosione di violenza.
Nonostante la terrificante violenza e l’intransigenza distruttiva di entrambe le parti, l’obiettivo deve essere un accordo di pace. Nel territorio tra il fiume Giordano e il mare ci sono più o meno lo stesso numero di ebrei e di palestinesi. Nessuno dei due gruppi se ne andrà. Possono continuare a uccidersi a vicenda o trovare un modo per vivere insieme. Questo deve essere l’obiettivo. Tutti i sogni di far scomparire l’altra parte o di sottometterla a un’oppressione perpetua produrranno solo più violenza e brutalità da entrambi i gruppi.
La stessa affermazione della volontà di raggiungere un accordo avrebbe il potenziale per trasformare la situazione. Le continue uccisioni non faranno che peggiorare la situazione. Nessun colpo di stato interno al governo e nessun accordo politico esterno – che si tratti dei precedenti patti di normalizzazione con gli Stati del Golfo, della pace con l’Arabia Saudita o di altro – potrà oscurare l’urgente necessità di una soluzione politica tra palestinesi e israeliani.
Per ora, tutto ciò che possiamo fare è supplicare i nostri governi di usare questo momento di profonda crisi e di orribile spargimento di sangue come leva per costringere Israele a porre fine all’occupazione di un altro popolo e a cercare soluzioni creative per la coesistenza – che si tratti di due Stati, di uno Stato o di una struttura federativa – che garantiscano dignità umana, uguaglianza, giustizia e libertà per tutti.
Omer Bartov è professore di studi sull’Olocausto e sui genocidi alla Brown University e autore di Genocide, the Holocaust and Israel-Palestine: First-Person History in Times of Crisis.
Traduzione a cura di AssoPacePalestina
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