La violenza aumenta in Cisgiordania, l’altra prigione palestinese a cielo aperto

Nov 11, 2023 | Notizie

di Sara Mosleh,

RTVE.ES, 11 novembre 2023.  

Dallo scoppio della guerra, la violenza in Cisgiordania ha provocato oltre 150 morti e 1.500 detenuti.

Immagine di un posto di blocco a Hebron. SARA MOSLEH

“Non posso più andare al lavoro perché non è sicuro viaggiare da Ramallah a Gerusalemme”, dice May, che preferisce non rivelare il suo cognome. “C’è la possibilità che i coloni degli insediamenti ci attacchino perché la situazione è molto tesa”, dice questa donna palestinese di 35 anni.

“Il 7 ottobre, un gruppo di soldati e coloni israeliani vestiti con l’uniforme militare mi ha arrestato”, dice Issa Amro, 43 anni. “Mi hanno portato alla base, mi hanno legato le mani, mi hanno coperto gli occhi, mi hanno imbavagliato e mi hanno messo in una stanza gelata. Mi hanno picchiato, insultato, sputato addosso e hanno persino minacciato di violentarmi. Ho passato dieci ore così, finché mi hanno rilasciato. È stato un inferno”, denuncia questo attivista di Hebron, la più grande città della Cisgiordania.

Mentre tutti gli occhi del mondo sono puntati su Gaza, la violenza in Cisgiordania è salita alle stelle in un clima di vendetta. In poco più di un mese, le forze israeliane hanno ucciso 167 palestinesi e altri 8 sono stati uccisi dai coloni, mentre 3 israeliani sono stati uccisi in attacchi da parte di palestinesi. A ciò si aggiungono gli oltre 1.512 palestinesi detenuti dal 7 ottobre, la metà in detenzione amministrativa, senza accusa né processo, e che potrebbero subire maltrattamenti e torture, nonché l’espulsione di 1.025 persone da 15 comunità palestinesi e da Gerusalemme Est.

Issa Amro nella sua casa del centro sociale nel quartiere di Tel Rumeida a Hebron SARAH MOSLEH

Alcuni giorni dopo, un altro gruppo di soldati israeliani si è presentato a casa sua nel quartiere di Tel Rumeida, dove coloni e palestinesi vivono sotto il controllo israeliano. “Mi hanno detto che dovevo andar via per tutta la durata della guerra”, dice indignato Amro, che ha dovuto trascorrere diverse settimane nelle case di parenti e amici finché non gli è stato permesso di tornare. Adesso, come il resto dei palestinesi del suo quartiere, possono uscire solo per due ore, tre giorni alla settimana. “È peggio che essere in prigione”, dice.

“Il 16 ottobre, un gruppo di coloni in uniforme militare, che già conoscevamo di vista, è entrato nel nostro villaggio. Hanno portato via le persone dalle loro case, le hanno picchiate e hanno minacciato di ucciderci e di distruggere il villaggio se non fossimo andati via entro 24 ore. I bambini erano terrorizzati”, racconta Hamdan Al-Hourani, che con la moglie e tre figli vive a Susya, un villaggio nella regione rurale di Masafer Yatta, a sud di Hebron.

Da quella notte, gruppi di coloni girano ogni giorno per il villaggio e Hamdan teme che possano attaccarli nuovamente.  “Tutti gli accessi a Susya sono bloccati, quindi non possiamo andare in auto fino a Yatta, la città più vicina dove compriamo cibo, medicine e foraggio per il bestiame, la nostra principale fonte di reddito”, lamenta.

56 anni di occupazione e apartheid

Ori Givati era un soldato dell’esercito israeliano ed è ora uno dei leader della ONG Breaking The Silence (BTS), che lavora per la lotta contro l’occupazione. “Dopo le atrocità di Hamas e l’inizio della guerra, abbiamo assistito ad un aumento della violenza dei coloni in Cisgiordania. Gruppi numerosi entrano nei villaggi, minacciano i palestinesi, li attaccano, e questo costringe i palestinesi a fuggire e ad abbandonare le loro terre”, ha detto a RTVE.ES.

Sebbene la guerra abbia intensificato l’oppressione dei palestinesi nella Cisgiordania occupata, la vita lì non è mai stata facile.

I 56 anni di occupazione militare con cui Israele cerca di annettere tutto il territorio palestinese hanno portato al consolidamento di un sistema di controllo e segregazione, grazie al quale le autorità israeliane privilegiano gli ebrei israeliani e privano più di tre milioni di palestinesi dei loro diritti civili e politici. Un sistema che, nel tempo, è stato riconosciuto a livello internazionale come autentico apartheid.

Casa con ordine di demolizione a Masafer Yatta, nella zona C della Cisgiordania. SARA MOSLEH

Vivere a Hebron: un “microcosmo dell’occupazione”

La dura prova vissuta da Issa Amro il 7 ottobre non è un evento isolato. “I coloni e i soldati israeliani mi hanno attaccato così tante volte che non posso dare un numero esatto. In media lo fanno circa due o tre volte a settimana”, dice.

Amro, ingegnere di professione, è il fondatore di Youth Against Settlements, un’organizzazione che offre un percorso alternativo ai giovani facendo resistenza non violenta. “Organizziamo proteste, distribuiamo videocamere affinché si possano documentare le violazioni, informiamo le famiglie che vivono qui affinché conoscano i loro diritti. Cerchiamo di contrastare la politica di sfratti e sfollamenti forzati che è contro di noi”, sottolinea Amro, che nel 2010 è stato nominato dalle Nazioni Unite Difensore dell’Anno per i diritti umani in Palestina.

Dal 1997 Hebron è divisa in due zone: il settore H1, sotto il controllo dell’Autorità Palestinese, che copre l’80% della città e ospita circa 160.000 palestinesi, e il settore H2, sotto giurisdizione israeliana, dove Amro e altri 40.000 palestinesi vivono insieme a circa 800 coloni israeliani protetti da più di 650 soldati delle Forze di Difesa israeliane (IDF).

“Hebron è un microcosmo dell’occupazione. Diverse forme di controllo vengono sperimentate qui e poi esportate nel resto della Cisgiordania: violenza dei coloni, pattuglie militari, invasioni di proprietà palestinesi, punizioni collettive, tecnologie di sorveglianza”, spiega Ori Givati a RTVE.ES.

Nel settore H2 ci sono circa 80 posti di blocco. Inoltre, sottolinea Givati, “ci sono strade sulle quali i veicoli palestinesi non possono circolare, ma sulle quali i palestinesi possono camminare, e poi ci sono le strade sterilizzate”, quelle su cui è vietato anche camminare e possono essere utilizzate solo da cittadini israeliani o con passaporto internazionale.

Tutte queste restrizioni hanno un enorme impatto sulla vita dei palestinesi. Ogni giorno, Issa deve passare attraverso due o tre posti di blocco, dove spesso viene trattenuto per “cinque minuti o tre ore, tutto dipende da cosa decide il soldato in servizio”.

“L’arbitrarietà fa parte dell’occupazione. Ai soldati non vengono date istruzioni chiare su cosa possono o non possono fare con la popolazione palestinese, quindi tutto dipende dalla loro personalità, dalla giornata che hanno trascorso, dal loro umore, ecc. Questo è ciò che accade quando si invia un esercito per sorvegliare e controllare la popolazione civile”, riconosce Givati, che ha prestato servizio nell’esercito per tre anni, ma che nel 2017 ha deciso di rompere il silenzio e dare testimonianza della sua esperienza.

Una città, due leggi

L’impegno di Issa nella resistenza pacifista fa impazzire i responsabili dell’esercito israeliano, che da anni portano avanti una campagna contro di lui e il suo centro sociale. Issa attualmente deve affrontare 18 capi d’accusa che saranno processati in un tribunale militare israeliano, dove il tasso di condanne è superiore al 99%.

Mentre gli israeliani godono delle garanzie offerte dal sistema giudiziario civile israeliano, i palestinesi sono soggetti a una severa legge marziale. “Secondo la legge militare siamo colpevoli fino a prova contraria. Non posso protestare pacificamente, né fare lavori di manutenzione alla mia casa, la quantità di acqua ed elettricità che consumo è controllata, mentre loro (i coloni) possono circolare dove vogliono, possono protestare ed esprimersi liberamente”, dice Issa.

Il villaggio di Susya, situato nell’area C della Cisgiordania, è a rischio di sfratto. HAMDAN AL-HOURANI

Muri, posti di blocco e strade segregate

Israele ha creato strade in Cisgiordania esclusive per gli israeliani, che i palestinesi non possono percorrere, “proprio come c’erano strade per i bianchi e strade per i neri in Sud Africa”, dice Luz Gómez, professoressa di studi arabi all’Università Autonoma di Madrid. Inoltre, palestinesi e israeliani devono guidare auto con targhe di colore diverso: rispettivamente bianca e gialla.

“Per guidare in Cisgiordania è necessario possedere abilità speciali. Devi essere molto attento e sapere cosa puoi e cosa non puoi fare quando guidi la tua auto attraverso un posto di blocco, davanti a uno o più soldati che puntano un M16 contro di te”, dice May.

“Non puoi frenare all’improvviso o entrare nel posto di blocco troppo velocemente, perché potrebbe essere percepito come una minaccia e potrebbero spararti. Inoltre, devi stare attento se ci sono coloni intorno a te perché se commetti un errore, come premere l’acceleratore senza volerlo o avvicinarti troppo a loro, può essere la fine”, spiega May.

“Quando ho scoperto di essere incinta, la prima cosa che mi è venuta in mente è stata chiedermi come avrei guidato per evitare gli attacchi dei coloni se avessi avuto il mio bambino sul sedile posteriore. In un certo senso, ora tutto questo mi sembra normale”, confessa May, abituata alle difficoltà di spostamento in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, dove Israele impone 565 ostacoli alla circolazione, tra cui un muro di quasi 800 km, che provocano, sottolinea Gómez, “la rottura della continuità del territorio palestinese”.

Fino al 7 ottobre, May impiegava tra un’ora e mezza e tre ore per andare da casa al lavoro a Gerusalemme. Come ogni palestinese con documenti della Cisgiordania, May ha bisogno di un permesso speciale da parte delle autorità israeliane per entrare a Gerusalemme Est.

Ci è riuscita grazie al suo lavoro in una ONG internazionale, ma questo privilegio non la libera dal dover superare un esame quotidiano per arrivare in ufficio. “Tra Ramallah e Gerusalemme ci sono circa 20 minuti, ma con questo sistema ci vuole un’ora e mezza o anche tre”, spiega.

“Ai controlli di sicurezza a volte non mi hanno lasciato passare per problemi tecnici e mi hanno addirittura perquisito nuda”, ammette. “Credono che il nostro tempo non abbia importanza, che loro possano fare quello che vogliono di noi e lasciarci aspettare per ore”, dice stancamente.

Quando l’attivismo è una questione di sopravvivenza

“Ho deciso di diventare un attivista sette anni fa, dopo un corso di fotografia, quando ho capito che dovevo documentare quello che stava succedendo nel mio villaggio per poterlo denunciare e raccontarlo al mondo intero”, dice Hamdan Al-Huraini, 33 anni.

Il suo villaggio, Susya, si trova nella zona C, la più grande (61%) delle tre in cui è stata divisa la Cisgiordania dagli Accordi di Oslo del 1993 e dove l’esercito israeliano ha il pieno controllo. Costruire nell’Area C è una missione quasi impossibile per i palestinesi e circa il 95% delle richieste presentate vengono respinte, rendendo praticamente qualsiasi costruzione “illegale” secondo Israele.

” Tutte le case di Susya hanno un ordine di demolizione. Possiamo diventare senzatetto in qualsiasi momento”, ammette Hamdan, che ricorda ancora l’ondata di distruzione e gli sgomberi forzati che hanno devastato la sua città. Il primo esproprio avvenne nel 1986 “per convertire le nostre terre in un sito archeologico. Non solo distrussero tutte le case, ma anche le grotte naturali che le nostre famiglie utilizzavano”, lamenta.

L’ultimo grande esproprio è avvenuto nel 2001. Da allora, le pressioni internazionali e la battaglia legale degli abitanti di Susya e della regione di Masafer Yatta hanno impedito che venissero compiute tutte le demolizioni. Tuttavia, il divieto di costruzione si estende anche alle scuole e alle cliniche mediche, alle strade che collegano i villaggi e alle forniture di elettricità e acqua.

Mentre tutti gli insediamenti israeliani sono collegati alla rete idrica ed elettrica, Hamdan e gli altri 350 vicini fanno affidamento su pannelli solari e cisterne per l’acqua, che, in molti casi, finiscono per essere distrutte dai bulldozer israeliani.

“Esiste una politica ufficiale che incoraggia l’insediamento nelle colonie. Lo Stato di Israele offre ai coloni vantaggi fiscali, un maggiore accesso all’istruzione e alle facilitazioni per comprare alloggi. Nel 1990 c’erano meno di 100.000 coloni; oggi, tra Cisgiordania e Gerusalemme Est, ce ne sono quasi 800.000. Ciò comporta una trasformazione della demografia e del paesaggio della Cisgiordania”, sottolinea Luz Gómez.

“Le colonie sono installate in cima alle colline, controllando le valli dove si trovano i villaggi palestinesi, distruggendo la continuità del territorio e la vita dei contadini, che sono fondamentali per l’economia della Cisgiordania”, aggiunge.

Indifesi di fronte alla violenza dei coloni

Alle difficoltà imposte dalla burocrazia dell’occupazione si aggiungono gli attacchi dei coloni provenienti dagli insediamenti vicini. Una violenza, sottolinea l’ONG israeliana B’Tselem, “organizzata, istituzionalizzata e ben attrezzata” che a volte precede la violenza delle autorità israeliane, e in altre occasioni si incorpora in esse, per raggiungere un obiettivo: più terra per Israele, meno palestinesi al suo interno.

“È lo Stato di Israele che è responsabile dell’intero processo legale che consente ai coloni di perpetrare violenza. Esiste una routine sistematica di molestie quotidiane da parte dei coloni contro i nostri villaggi per renderci disperati e farci sentire insicuri anche all’interno delle nostre case e dei nostri villaggi, tanto che alla fine preferiamo andarcene”, riconosce Ali Awad, attivista della zona e ideatore della campagna #SaveMassaferYatta.

“I coloni godono di totale impunità perché i palestinesi hanno troppa paura di denunciare. A volte, quando presentano una denuncia dopo un attacco, sono loro che finiscono per essere arrestati”, dice Givati. Anche quando osano denunciare, hanno poche probabilità di ottenere giustizia. Secondo B’Tselem, la probabilità di un’incriminazione per gli israeliani è solo del 3%.

Nonostante la paura e l’incertezza, Hamdan è chiaro: “Continuerò a vivere qui, a Susya. Non me ne andrò. Sappiamo per esperienza cosa è successo prima. Se partiamo non potremo tornare. Questo è quello che è successo ai miei nonni. Anche se venissero e volessero ucciderci tutti, non ce ne andremo mai”, dice.

https://www.rtve.es/noticias/20231111/violencia-cisjordania-palestina/2460641.shtml

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

.

0 commenti

Invia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Archivi

Fai una donazione

Fai una donazione tramite Paypal alla nostra associazione:

Fai una donazione ad Asso Pace Palestina

Oppure versate il vostro contributo ad
AssoPace Palestina
Banca BPER Banca S.p.A
IBAN: IT 93M0538774610000035162686

il 5X1000 ad Assopace Palestina

Il prossimo viaggio