Esiste una speranza ebraica per la liberazione della Palestina. Facciamola sopravvivere.

di Peter Beinart,

The New York Times, 14 ottobre 2023. 

Said Khatib/Agence France-Presse – Getty Images

Nel 1988, inSudafrica esplosero bombe in ristoranti, eventi sportivi e sale giochi. In risposta, l’African National Congress (ANC), allora al 77° anno di lotta per rovesciare la dominazione bianca, fece qualcosa di notevole: si assunse la responsabilità degli attacchi e si impegnò a impedire ai suoi combattenti di condurre simili operazioni in futuro. La sua logica era semplice: prendere di mira i civili è sbagliato. “La nostra moralità di rivoluzionari”, dichiarò l’ANC, “ci impone di rispettare i valori alla base di una condotta umana della guerra”.

Storicamente, geograficamente e moralmente, l’ANC del 1988 è lontano un mondo dall’Hamas del 2023, così lontano che la sua storia può sembrare irrilevante per l’orrore che Hamas ha scatenato lo scorso fine settimana nel sud di Israele. Ma il Sudafrica offre una controstoria, uno sguardo su come funziona la resistenza etica e su come può avere successo. Non offre un manuale di istruzioni, ma un luogo dove cercare la speranza, in questa stagione di agonia e rabbia.

Non c’era nulla di inevitabile nella politica dell’ANC che, come ha documentato Jeff Goodwin, sociologo della New York University, ha contribuito a far sì che ci fosse “così poco terrorismo nella lotta anti-apartheid”. Allora perché l’ANC non ha compiuto il tipo di massacri raccapriccianti per i quali Hamas è diventato tristemente famoso? Non c’è una risposta semplice. Ma due fattori sono chiari. In primo luogo, la strategia dell’ANC per combattere l’apartheid era intimamente legata alla sua visione di ciò che avrebbe dovuto far seguito all’apartheid. L’ANC si rifiutava di terrorizzare e traumatizzare i sudafricani bianchi perché non stava cercando di costringerli ad andarsene. Stava cercando di conquistarli alla visione di una democrazia multirazziale.

In secondo luogo, l’ANC trovò più facile mantenere la disciplina morale – che le imponeva di concentrarsi sulla resistenza popolare e non violenta e di usare la forza solo contro installazioni militari e siti industriali – perché la sua strategia stava mostrando segni di successo. Nel 1988, quando l’ANC espresse rammarico per l’uccisione di civili, più di 150 università americane si erano almeno parzialmente ritirate dalle aziende che operavano in Sudafrica, e il Congresso degli Stati Uniti aveva imposto sanzioni al regime dell’apartheid. Il risultato è stato un circolo virtuoso: la resistenza etica ha suscitato il sostegno internazionale e il sostegno internazionale ha reso la resistenza etica più facile da sostenere.

In Sudafrica, nel 1960, manifestanti contrari alla politica dell’apartheid vengono affrontati da agenti di polizia. Ian Berry/Magnum Photos

Oggi, in Israele, la dinamica è quasi esattamente opposta. Hamas, la cui ideologia autoritaria e teocratica non potrebbe essere più lontana da quella dell’ANC, ha commesso un orrore indicibile che potrebbe danneggiare la causa palestinese per decenni a venire. Tuttavia, quando i palestinesi resistono alla loro oppressione in modo etico – chiedendo boicottaggi, sanzioni e l’applicazione del diritto internazionale – gli Stati Uniti e i loro alleati si adoperano per far sì che questi sforzi falliscano, convincendo molti palestinesi che la resistenza etica non funziona e dando così potere ad Hamas.

La barbarie commessa da Hamas il 7 ottobre ha reso molto più difficile invertire questo ciclo mostruoso. Potrebbe volerci una generazione. Richiederà un impegno condiviso per porre fine all’oppressione palestinese in modi che rispettino il valore infinito di ogni vita umana. Richiederà che i palestinesi si oppongano con forza agli attacchi contro i civili ebrei e che gli ebrei sostengano i palestinesi quando resistono all’oppressione in modi umani – anche se i palestinesi e gli ebrei che compiono tali passi rischiano di diventare dei paria tra la loro stessa gente. Ciò richiederà nuove forme di comunità politica, in Israele-Palestina e nel mondo, costruite attorno a una visione democratica abbastanza potente da trascendere le divisioni tribali. Lo sforzo potrebbe fallire. È già fallito in passato. L’alternativa è scendere all’inferno sventolando le proprie bandiere.

Mentre gli ebrei israelianiseppelliscono i loro morti e recitano preghiere per i loro concittadini catturati, pochi vogliono sentire in questo momento che milioni di palestinesi non hanno i diritti umani fondamentali. E nemmeno molti ebrei all’estero. Lo capisco; questo attacco ha risvegliato i traumi più profondi del nostro popolo gravemente segnato. Ma la verità rimane: la negazione della libertà dei palestinesi è al centro di questo conflitto, iniziato molto prima della creazione di Hamas alla fine degli anni Ottanta.

La maggior parte dei residenti di Gaza non è di Gaza. Sono i discendenti di rifugiati espulsi o fuggiti per paura durante la guerra d’indipendenza di Israele nel 1948. Vivono in quello che Human Rights Watch ha definito una “prigione a cielo aperto”, rinchiusi da uno Stato israeliano che – con l’aiuto dell’Egitto – raziona tutto ciò che entra ed esce, dai pomodori ai documenti di viaggio di cui i bambini hanno bisogno per ricevere cure mediche salvavita. Da questa gabbia sovraffollata, che le Nazioni Unite nel 2017 hanno dichiarato “invivibile” per molti residenti, anche perché manca l’elettricità e l’acqua potabile, molti palestinesi di Gaza possono ancora vedere la terra che i loro genitori e nonni chiamavano casa, anche se la maggior parte di loro non ci metterà mai piede.

Dopo la Conferenza di pace di Madrid del 1991, i palestinesi in Cisgiordania manifestano per la pace con rami d’ulivo davanti alle guardie di frontiera israeliane. A. Abbas/Magnum Photos

I palestinesi della Cisgiordania stanno solo leggermente meglio. Per più di mezzo secolo, hanno vissuto senza un giusto processo, senza libertà di movimento, senza cittadinanza e senza la possibilità di votare per il governo che controlla le loro vite. Indifesi di fronte a un governo israeliano che comprende ministri apertamente impegnati nella pulizia etnica, molti di loro sono stati cacciati dalle loro case in modi che i palestinesi paragonano alle espulsioni di massa del 1948. Gli americani e gli ebrei israeliani possono permettersi il lusso di ignorare queste dure realtà. I palestinesi no. Infatti, il comandante dell’ala militare di Hamas ha citato attacchi ai palestinesi in Cisgiordania per giustificare la sua barbarie lo scorso fine settimana.

Proprio come i neri sudafricani hanno resistito all’apartheid, i palestinesi resistono a un sistema che si è guadagnato la stessa designazione da parte delle principali organizzazioni per i diritti umani nel mondo e in Israele stesso. Dopo lo scorso fine settimana, alcuni critici potrebbero affermare che i palestinesi sono incapaci di resistere in modo etico. Ma non è vero. Nel 1936, durante il Mandato Britannico, i palestinesi iniziarono quello che alcuni considerano il più lungo sciopero generale anticoloniale della storia. Nel 1976, in quella che divenne nota come Giornata della Terra, migliaia di cittadini palestinesi manifestarono contro il sequestro da parte del governo israeliano delle proprietà palestinesi nel nord di Israele. La prima intifada contro l’occupazione israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, durata all’incirca dal 1987 al 1993, consisteva principalmente nel boicottaggio non violento delle merci israeliane e nel rifiuto di pagare le tasse israeliane. Anche se alcuni palestinesi lanciavano pietre e bombe molotov, gli attacchi armati erano rari, anche a fronte di una repressione israeliana che ha causato più di 1.000 vittime palestinesi. Nel 2005, 173 organizzazioni della società civile palestinese hanno chiesto “alle persone di coscienza di tutto il mondo di imporre ampi boicottaggi e attuare iniziative di disinvestimento contro Israele simili a quelle applicate al Sudafrica nell’era dell’apartheid”.

Ma negli Stati Uniti, i palestinesi sono stati poco creduti di aver cercato di seguire il percorso ampiamente non violento dei neri sudafricani. Anzi, l’appello del movimento Boycott, Divestment and Sanctions (BDS) per la piena uguaglianza, compreso il diritto dei rifugiati palestinesi di tornare a casa, è stato ampiamente considerato antisemita perché in conflitto con l’idea di uno Stato che privilegi gli ebrei.

È vero che questi sforzi nonviolenti si trovano a disagio accanto a una brutta storia di massacri di civili: l’assassinio di 67 ebrei a Hebron nel 1929 da parte di palestinesi locali dopo che Haj Amin al-Husseini, il gran muftì di Gerusalemme, aveva affermato che gli ebrei stavano per impadronirsi della Moschea di Al Aqsa; i dirottamenti di aerei alla fine degli anni ’60 e ’70 compiuti principalmente dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, un’organizzazione di sinistra, e dalla fazione nazionalista Fatah di Yasir Arafat; l’assassinio degli atleti israeliani a Monaco di Baviera, avvenuto nel 1972 ad opera dell’organizzazione palestinese Settembre Nero; gli attentati suicidi degli anni Novanta e Duemila condotti da Hamas, dalla Jihad islamica palestinese e dalle Brigate dei Martiri di Aqsa di Fatah, tra le cui vittime c’era anche un mio amico della scuola rabbinica che sognavo potesse un giorno officiare il mio matrimonio.

Eppure è fondamentale ricordare che alcuni palestinesi hanno coraggiosamente condannato questa violenza disumana. Nel 1979, Edward Said, il famoso critico letterario, si dichiarò “inorridito dai dirottamenti di aerei, dalle missioni suicide, dagli assassinii, dai bombardamenti di scuole e alberghi”. Rashid Khalidi, storico palestinese americano, ha definito gli attentati suicidi della seconda intifada “un crimine di guerra”. Dopo l’attacco di Hamas dello scorso fine settimana, un membro del parlamento israeliano, Ayman Odeh, uno dei leader più importanti dei cittadini palestinesi di Israele, ha dichiarato: “È assolutamente impossibile accettare qualunque violenza verso chi è innocente.” Tragicamente, questa visione di resistenza etica è stata ripudiata da alcuni attivisti filo-palestinesi negli Stati Uniti. In una dichiarazione della scorsa settimana, il National Students for Justice in Palestine, che rappresenta più di 250 gruppi di solidarietà palestinese in Nord America, ha definito l’attacco di Hamas “una vittoria storica per la resistenza palestinese” che dimostra che “il ritorno totale e la liberazione della Palestina sono vicini” e ha aggiunto: “Dalla Rhodesia al Sudafrica all’Algeria, nessun insediamento coloniale può resistere per sempre”. Uno dei suoi manifesti raffigurava un parapendio che alcuni combattenti di Hamas hanno usato per entrare in Israele.

Una casa viene distrutta a Hebron, nella Cisgiordania occupata da Israele, 28 dicembre 2021. Mussa Issa Qawasma/Reuters

Il riferimento all’Algeria rivela l’illusione alla base di questa celebrazione dei rapimenti e degli omicidi. Dopo otto anni di guerra orrenda, i coloni algerini sono infatti tornati in Francia. Ma non ci sarà una soluzione come questa in Israele-Palestina. Israele è troppo potente militarmente per essere conquistato. Ma soprattutto, gli ebrei israeliani non hanno una patria dove tornare. Sono già a casa.

Edward Said lo aveva capito. “L’ebreo israeliano è lì, in Medio Oriente”, avvertì i palestinesi nel 1974, “e non possiamo, potrei anche dire che non dobbiamo, fingere che non sarà lì domani, dopo che la lotta sarà finita”. L’”attaccamento degli ebrei alla terra”, aggiungeva, “è qualcosa che dobbiamo affrontare”. Poiché Said vedeva gli ebrei israeliani come qualcosa di diverso da semplici colonizzatori, capiva l’inutilità – oltre che l’immoralità – di cercare di terrorizzarli per farli fuggire.

L’incapacità diHamas e dei suoi difensori americani di riconoscere tutto questo renderà molto più difficile per ebrei e palestinesi resistere insieme in modo etico. Prima di sabato scorso era possibile, con un po’ di fantasia, immaginare una lotta congiunta palestinese-ebraica per la reciproca liberazione di entrambi i popoli. C’erano stati dei barlumi nel movimento di protesta contro la revisione giudiziaria di Benjamin Netanyahu, attraverso i quali un numero crescente di ebrei israeliani aveva colto il legame tra la negazione dei diritti dei palestinesi e l’aggressione ai propri. Ci sono stati segnali anche negli Stati Uniti, dove quasi il 40% degli ebrei americani di età inferiore ai 40 anni ha dichiarato al Jewish Electoral Institute nel 2021 di considerare Israele uno Stato di apartheid. Un numero maggiore di ebrei negli Stati Uniti, e anche in Israele, cominciava a vedere la liberazione palestinese come una forma di liberazione ebraica.

Questa potenziale alleanza è stata ora gravemente danneggiata. Ci sono molti ebrei disposti a unirsi ai palestinesi in un movimento per porre fine all’apartheid, anche se questo ci allontana dalle nostre comunità e, in alcuni casi, dalle nostre famiglie. Ma non ci uniremo a persone che esultano per il rapimento o l’uccisione di un bambino ebreo.

La lotta per convincere gli attivisti palestinesi a ripudiare i crimini di Hamas, ad affermare una visione di coesistenza reciproca e a continuare lo spirito di Said e dell’ANC deve essere condotta all’interno del campo palestinese. Il ruolo dei non palestinesi è diverso: contribuire a creare le condizioni che consentano il successo della resistenza etica.

I palestinesi non sonofondamentalmente diversi da altre genti che affrontano l’oppressione: quando la resistenza morale non funziona, provano qualcos’altro. Nel 1972, l’Associazione per i Diritti Civili dell’Irlanda del Nord, sul modello del movimento per i diritti civili negli Stati Uniti, organizzò una marcia per opporsi all’incarcerazione senza processo. Sebbene alcune organizzazioni, in particolare l’Esercito Repubblicano Irlandese Provvisorio, avessero già abbracciato la resistenza armata, queste organizzazioni si rafforzarono dopo che i soldati britannici spararono a 26 civili disarmati in quella che divenne nota come Bloody Sunday (Domenica di Sangue). All’inizio degli anni ’80, l’Esercito Repubblicano Irlandese aveva persino fatto esplodere una bomba fuori da Harrods, il grande magazzino di Londra. Come ha osservato la politologa Kirssa Cline Ryckman in un articolo del 2019 sul perché certi movimenti diventano violenti, la mancanza di progressi nelle proteste pacifiche “può incoraggiare l’uso della violenza convincendo i manifestanti che la nonviolenza non riuscirà a ottenere concessioni significative”.

I funerali a Gerusalemme del col. Roi Levy, 44 anni, ucciso combattendo contro i militanti di Hamas in Israele, si sono svolti il 9 ottobre. Tamir Kalifa per il New York Times

Israele, con l’aiuto dell’America, ha fatto esattamente questo. Ha ripetutamente minato i palestinesi che cercavano di porre fine all’occupazione israeliana attraverso negoziati o pressioni non violente. Come parte degli accordi di Oslo del 1993, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina ha rinunciato alla violenza e ha iniziato a collaborare con Israele – anche se in modo imperfetto – per prevenire gli attacchi contro gli israeliani, cosa che gruppi rivoluzionari come l’ANC e l’Esercito Repubblicano Irlandese non hanno mai fatto mentre il loro popolo rimaneva sotto oppressione. All’inizio, come ha spiegato Khalil Shikaki, scienziato politico palestinese, i palestinesi sostenevano la cooperazione con Israele perché pensavano che avrebbe dato loro uno Stato. All’inizio del 1996, il sostegno dei palestinesi al processo di Oslo raggiungeva l’80%, mentre il sostegno alla violenza contro gli israeliani era sceso al 20%.

L’elezione di Benjamin Netanyahu nel 1996 e l’incapacità di Israele e del suo patrono americano di fermare la crescita degli insediamenti, tuttavia, hanno fatto crollare l’appoggio palestinese. Molti ebrei israeliani ritengono che Ehud Barak, succeduto a Netanyahu, abbia offerto ai palestinesi un accordo generoso nel 2000. La maggior parte dei palestinesi, tuttavia, vedeva che l’offerta di Barak non era affatto all’altezza di uno Stato palestinese pienamente sovrano entro i confini del 1967. La loro disillusione nei confronti di un processo di pace che permetteva a Israele di consolidare la sua presa sul territorio su cui speravano di costruire il loro nuovo Paese portò alla violenza della seconda intifada. Nelle parole di Shikaki: “La perdita di fiducia nella capacità del processo di pace di produrre un accordo permanente a condizioni accettabili ha avuto un impatto drammatico sul livello di sostegno palestinese alla violenza contro gli israeliani”. Quando i palestinesi hanno abbandonato la speranza, Hamas ha conquistato il potere.

Dopo gli anni brutali della seconda intifada, in cui Hamas e altri gruppi armati palestinesi hanno ripetutamente preso di mira i civili israeliani, il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas e Salam Fayyad, suo primo ministro dal 2007 al 2013, hanno lavorato per ripristinare la cooperazione in materia di sicurezza e prevenire ancora una volta la violenza anti-israeliana. Ancora una volta, la strategia è fallita. Gli stessi leader israeliani che avevano applaudito Fayyad lo hanno minato dietro le quinte, finanziando la crescita degli insediamenti, ciò che ha convinto i palestinesi che la cooperazione per la sicurezza li avrebbe portati solo ad aggravare l’occupazione. Fayyad, in un’intervista rilasciata a Roger Cohen del Times prima di lasciare l’incarico nel 2013, ha ammesso che, poiché “il regime di occupazione è ora più radicato”, i palestinesi “dubitano che l’Autorità Palestinese possa mantenere i suoi impegni. Nel frattempo, Hamas ottiene riconoscimenti e si rafforza”.

Poiché i palestinesi hanno perso la fiducia che la cooperazione con Israele possa porre fine all’occupazione, molti si sono appellati al resto del mondo affinché ritenesse Israele responsabile della violazione dei loro diritti. In risposta, sia i presidenti democratici che quelli repubblicani hanno lavorato diligentemente per garantire il fallimento di questi sforzi nonviolenti. Dal 1997, gli Stati Uniti hanno posto il veto a più di una dozzina di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che criticavano Israele per le sue azioni in Cisgiordania e a Gaza. A febbraio, mentre il governo di estrema destra israeliano iniziava un’enorme espansione degli insediamenti, l’amministrazione Biden, secondo quanto riferito, ha esercitato una minaccia di veto per diluire drasticamente una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che avrebbe condannato la crescita degli insediamenti.

La risposta di Washington agli sforzi della Corte Penale Internazionale di indagare su potenziali crimini di guerra israeliani è altrettanto ostile. Nonostante la revoca delle sanzioni che l’amministrazione Trump aveva imposto ai funzionari della CPI che indagavano sulla condotta degli Stati Uniti in Afghanistan, il team di Biden rimane fermamente contrario a qualsiasi indagine della CPI sulle azioni di Israele.

Il movimento Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), fondato nel 2005 come alternativa nonviolenta alla seconda intifada assassina e che parla nel linguaggio dei diritti umani e del diritto internazionale, è stato similmente ostacolato, anche da molti degli stessi politici americani che hanno celebrato il movimento per boicottare, disinvestire e sanzionare il Sudafrica. Joe Biden, che è orgoglioso del suo ruolo nell’approvazione delle sanzioni contro il Sudafrica, ha condannato il movimento BDS, affermando che “troppo spesso sconfina nell’antisemitismo”. Circa 35 Stati – alcuni dei quali in passato hanno disinvestito fondi statali da aziende che facevano affari nel Sudafrica dell’apartheid – hanno approvato leggi o emesso ordini esecutivi che puniscono le aziende che boicottano Israele. In molti casi queste punizioni si applicano anche alle aziende che boicottano solo gli insediamenti israeliani in Cisgiordania.

Una veduta di Gaza oscurata dai blackout continui, 11 ottobre. Mohammed Salem/Reuters

I palestinesi se ne sono accorti. Nelle parole di Dana El Kurd, politologa palestinese-americana, “i palestinesi hanno perso fiducia nell’efficacia della protesta nonviolenta e nel possibile ruolo della comunità internazionale”. Mohammed Deif, comandante dell’ala militare di Hamas, ha citato questa disillusione durante l’attacco di sabato scorso. “Vista l’orgia dell’occupazione e la sua negazione delle leggi e delle risoluzioni internazionali, e visto il sostegno americano e occidentale e il silenzio internazionale”, ha dichiarato, “abbiamo deciso di porre fine a tutto questo”.

Hamas – e nessunaltro – è responsabile della sua sadica violenza. Ma può compiere tali violenze più facilmente, e con meno contraccolpi da parte dei palestinesi comuni, perché anche molti palestinesi che detestano Hamas hanno perso la speranza che le strategie morali possano avere successo. Trattando Israele in modo radicalmente diverso da come gli Stati Uniti trattarono il Sudafrica negli anni ’80, i politici americani hanno reso più difficile per i palestinesi seguire il percorso etico dell’ANC. Gli americani che sostengono di odiare Hamas più di tutti, l’hanno ancora una volta sostenuto.

Gli israeliani hanno appena assistito alla più grande perdita di vite ebraiche in un solo giorno dai tempi dell’Olocausto. Per i palestinesi, soprattutto a Gaza, dove Israele ha ordinato a più di un milione di persone del nord di lasciare le loro case, i giorni a venire porteranno probabilmente dislocazione e morte su una scala che dovrebbe tormentare la coscienza del mondo. Mai nella mia vita le prospettive di giustizia e di pace sono apparse più remote. Tuttavia, il lavoro di ricostruzione morale deve iniziare. In Israele-Palestina e in tutto il mondo, sacche di palestinesi ed ebrei, aiutati da persone di coscienza di ogni provenienza, devono lentamente costruire reti di fiducia basate sul semplice principio che le vite di palestinesi ed ebrei sono preziose e inestricabilmente intrecciate.

Israele ha un disperato bisogno di un partito politico autenticamente ebraico e palestinese, non perché possa conquistare il potere, ma perché possa modellare una politica basata su valori liberaldemocratici comuni, non su tribù separate. Gli ebrei americani che giustamente odiano Hamas ma sanno, nel loro intimo, che il trattamento riservato da Israele ai palestinesi è profondamente sbagliato, devono porsi una domanda dolorosa: quali forme nonviolente di resistenza palestinese all’oppressione sosterrò? Un numero maggiore di palestinesi e di loro sostenitori deve esprimere repulsione per l’assassinio di ebrei israeliani innocenti e affermare che la liberazione dei palestinesi significa vivere al loro fianco in sicurezza e libertà.

Da queste riflessioni possono nascere, e crescere, piccole e preziose comunità. E forse un giorno, quando finalmente sarà orribilmente chiaro che Hamas non può liberare i palestinesi uccidendo i bambini e che Israele non può sottomettere Gaza, nemmeno radendola al suolo, quelle comunità potrebbero diventare il germe di un movimento di massa per la libertà che stupisca il mondo, come fecero decenni fa i sudafricani bianchi e neri. Sono sicuro che non vivrò abbastanza per vederlo. Nessun giocatore d’azzardo scommetterebbe sul fatto che tutto ciò accada. Ma qual è l’alternativa, per quelli di noi le cui vite e storie sono legate a quel piccolo, orribile, luogo sacro?

Come molti altri che hanno a cuore la vita dei palestinesi e degli ebrei, negli ultimi giorni ho provato la più grande disperazione che abbia mai conosciuto. Mercoledì scorso, un’amica palestinese mi ha inviato un biglietto di consolazione. Lo ha concluso con le parole “soltanto insieme”. Forse questo potrebbe essere il nostro motto.

Peter Beinart (@PeterBeinart) è professore di giornalismo e scienze politiche presso la Scuola di giornalismo Newmark della City University di New York. È anche redattore di Correnti ebraiche e scrive Il Quaderno di Beinart, una newsletter settimanale.

https://www.nytimes.com/2023/10/14/opinion/palestinian-ethical-resistance-answers-grief-and-rage.html?campaign_id=2&emc=edit_th_20231015&instance_id=105257&nl=todaysheadlines&regi_id=70178108&segment_id=147389&user_id=189440506a0574962c5baaf044befaca

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

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