Israele e Palestina, c’è un unico modo per raggiungere la pace

Ott 2, 2023 | Notizie

di Giorgio Pagano,

Città della Spezia, 1 ottobre 2023. 

Palestina, muro di Betlemme, graffito di Banksy “Fate hummus non muri” (2018) (foto Giorgio Pagano)

Il frastuono delle armi è in tutto il mondo, non solo in Ucraina. In Palestina è assordante da molti anni. Dal 2022 la tensione si aggrava sempre più. Centinaia di giovani palestinesi sono stati uccisi dall’esercito israeliano, nel tentativo di arginare la rinascita della resistenza armata palestinese all’occupazione. Anche cittadini israeliani vengono uccisi da ragazzi disperati, che hanno conosciuto solo la vita nei campi profughi, gli insediamenti dei coloni, la violenza loro e quella dei militari. Hanno torto, ma non basta perorare “negoziati di pace” per convincerli. Bisogna andare alla radice: l’occupazione della Palestina da parte di Israele, la colonizzazione.

Il grande scrittore israeliano Abraham B. Yehoshua lo ha spiegato nel suo testamento, la breve novella “Il Terzo Tempio”. Il Terzo Tempio è il nuovo santuario che gli ebrei vogliono costruire dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme a opera dei babilonesi e poi dei romani. Ma, dice Yehoshua, non può avvenire a scapito dei luoghi santi costruiti dalle altre religioni: altrimenti la conseguenza sarà “incendiare il mondo con una terribile guerra”.

La chiave di volta del futuro di Israele sta nel rapporto con i palestinesi. Senza questo rapporto Israele si nega al futuro. Ce lo conferma il sanguinoso conflitto in atto.

Questa convinzione sta crescendo negli stessi ebrei. Il primo ministro Benjamin Netanyahu e i suoi alleati di estrema destra non sembrano più in grado di contenere la mobilitazione popolare. I manifestanti criticano la riforma della giustizia approvata dal governo, perché – ha sostenuto Gali Baharv-Miara, procuratrice generale di Israele – porterebbe a “un colpo fatale al sistema democratico”. A una dittatura: controllo del potere giudiziario, dei media e delle forze armate, privazione di ogni diritto per i palestinesi. Tamir Pardo, dal 2011 al 2016 direttore del Mossad, i servizi segreti di Israele, ha denunciato: “Netanyahu vuole trasformarci in una teocrazia. Israele potrà essere sicuro e sopravvivere a lungo solo se rimane ebreo e democratico. Se rimane ebreo, ma diventa teocratico, non sarà più democratico. Se smette di essere un paese democratico non merita di esistere”.

Ma l’opposizione al governo non si limita a questa critica. Molti ebrei mettono in dubbio ormai il carattere realmente democratico di uno Stato che ha occupato e colonizzato, per mezzo secolo, la terra di un altro popolo, attuando un sistema di apartheid. Uno Stato ebreo e democratico non può essere grande: perché deve riconoscere l’esistenza di un altro Stato confinante, quello palestinese. L’ex generale Amiram Levin ha dichiarato: “Non c’è mai stata democrazia in Cisgiordania da cinquantasette anni. C’è un’apartheid totale”.

A distanza di trent’anni dagli accordi di Oslo, Unione Europea e Stati Uniti non possono non prendere definitivamente atto che l’idea dei “negoziati di pace” è rimasta sulla carta, e che ha permesso a Israele di proseguire indisturbata nel suo obiettivo di espansione delle colonie.

Numerosi documenti delle Nazioni Unite e di importanti organizzazioni internazionali per i diritti umani, da Amnesty International a Human Rights Watch, sono giunti a questa conclusione: il superamento dei “negoziati di pace” a favore della decolonizzazione e dell’autodeterminazione del popolo palestinese. Bisogna affrontare le cause alla radice, altrimenti il regime coloniale andrà avanti, e la Cisgiordania diventerà una prigione come Gaza. Con il rischio di “incendiare il mondo”.
O l’Occidente saprà cogliere questa priorità, anche sulla spinta dell’altro Israele, o non ci sarà una soluzione duratura fondata sulla pace, la sicurezza umana, la giustizia non solo per i palestinesi ma anche per gli israeliani.

Palestina, veduta da Betlemme di una colonia israeliana tra Betlemme e Gerusalemme (2018) (foto Giorgio Pagano)

Anche la città della Spezia deve tornare a svolgere un ruolo di pace. Nel protocollo d’intesa, in vista del gemellaggio, sottoscritto nel 2005 dai tre sindaci di Jenin (Palestina), Haifa (Israele) e La Spezia era scritto che l’obiettivo di fondo era “rendere possibile l’esistenza di due Stati, quello israeliano e quello palestinese, liberi, sovrani e capaci di vivere in sicurezza, democrazia e pace”. La pace tra palestinesi e israeliani deve essere obiettivo strategico della città di Exodus, da realizzarsi facilitando il dialogo tra persone, associazioni della società civile, governi locali.

Fin dai primi anni dei miei viaggi in Palestina e in Israele ho conosciuto l’esperienza dei “Parents Circle”, un’organizzazione di base di palestinesi e israeliani che hanno perso parenti stretti, soprattutto figli, nel conflitto, e che si battono per la riconciliazione e la pace. “Apeirogon” è un grande romanzo di Colum McCann, che racconta l’epica storia vera di due uomini divisi dal conflitto e riuniti dal dolore della perdita: Bassam Aramin, che ha perso la figlia Abir, e Rami Elhanan, che ha perso la figlia Smadar. Per Bassam e Rami il nemico comune è l’occupazione.

Dice Bassam: “L’Occupazione agisce in ogni aspetto della tua vita, ti sfinisce, ti amareggia in un modo che nessuno da fuori riesce davvero a capire. Ti sottrae il domani. Ti impedisce di andare al mercato, all’ospedale, alla spiaggia, al mare. Non puoi camminare, non puoi guidare, non puoi raccogliere un’oliva dal tuo stesso albero che si trova dall’altra parte del filo spinato. Non puoi nemmeno alzare lo sguardo al cielo. Lassù hanno i loro aeroplani. Possiedono l’aria che sta sopra e il suolo che sta sotto. Per seminare la tua terra devi avere il permesso. […] La maggior parte degli israeliani nemmeno lo sa che succedono queste cose. Non che siano ciechi. É che non sanno quello che viene fatto in loro nome. Non viene permesso loro di vedere. I loro giornali, le loro televisioni queste cose non gliele dicono. Non possono entrare in Cisgiordania. Non hanno alcuna idea di come viviamo. Ma questo succede ogni giorno. Ogni singolo giorno. Non lo accetteremo mai. Nemmeno tra mille anni, lo accetteremo. […] Porre fine all’Occupazione è la nostra sola speranza per la sicurezza di tutti, israeliani e palestinesi, cristiani, ebrei, musulmani, drusi, beduini, non importa”.

Dice Rami: “Per quanto sembri strano, in Israele non sappiamo cosa sia davvero l’Occupazione. Sediamo nei caffè e ci divertiamo, e non dobbiamo farci i conti. Non abbiamo la minima idea di cosa significhi dover superare un checkpoint ogni giorno. O vedere confiscata la terra della nostra famiglia. O svegliarci con un fucile puntato sulla faccia. Abbiamo due ordini di leggi, due ordini di strade, due ordini di valori. Alla maggior parte degli israeliani questo sembra impossibile, una bizzarra distorsione della realtà, ma non è così. È che noi, semplicemente, non lo sappiamo. Per noi la vita è bella. Il cappuccino è buono. La spiaggia è libera. L’aeroporto è lì a due passi. Non abbiamo alcun accesso all’effetto che fa vivere in Cisgiordania o a Gaza. Nessuno ne parla. Non ti è permesso mettere piede a Betlemme, a meno che tu non sia un soldato. Guidiamo lungo le nostre strade percorribili solo dagli israeliani. Scansiamo i villaggi arabi. Costruiamo strade sopra e sotto di loro, ma solo per farne gente senza volto. Forse la Cisgiordania una volta l’abbiamo vista, durante il servizio militare, o magari la vediamo di tanto in tanto in tv, il nostro cuore sanguina per una mezz’ora, ma non sappiamo quello che succede là veramente. Finché non accade il peggio. E a quel punto ti si capovolge il mondo.

La verità è che non può esserci occupazione che sia compassionevole. Non esiste proprio. È impossibile”.

Le testimonianze di Bassam Aramin e di Rami Elhanan sono la conferma, incarnata nelle forme concrete della vita, del discorso giuridico e politico che è diventato più che mai necessario: de-occupazione, de-colonizzazione, diritto dei palestinesi all’autodeterminazione.

Post scriptum
Le fotografie di oggi sono state scattate a Betlemme nel 2018: la prima ritrae il graffito di Banksy “Fate hummus non muri” sul muro costruito da Israele; la seconda un insediamento di coloni israeliani tra Betlemme e Gerusalemme.
Sul tema rimando ai miei ultimi articoli:
“Cisgiordania: l’altro Israele faccia sentire la sua voce”, Critica sociale, maggio-giugno 2023, leggibile su www.funzionarisenzafrontiere.org
“Palestina dimenticata”, Patriaindipendente.it, 2 gennaio 2023
“Natale in Palestina”, Città della Spezia, 1° gennaio 2023

https://www.cittadellaspezia.com/2023/10/01/israele-e-palestina-ce-un-unico-modo-per-raggiungere-la-pace-514818/

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