Normalizzazione e co-resistenza

Set 26, 2023 | Notizie, Riflessioni

di Jonathan Kuttab

Mondoweiss, 25 settembre 2023. 

La coesistenza tra ebrei e arabi non è possibile sotto l’apartheid israeliano, ma c’è la possibilità di lavorare per un futuro migliore basato sull’uguaglianza e su una vera democrazia attraverso la co-resistenza.

Una manifestante regge un cartello con scritto “No all’occupazione”, mentre le forze israeliane arrestano palestinesi e attivisti solidali che manifestano contro le politiche illegali di insediamento ed espulsione di Israele nel quartiere di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est, il 22 settembre 2023. (Foto: Saeed Qaq /Imago via ZUMA Press)APA images)

Con il fallimento della soluzione a due Stati, è ora più importante che mai che le persone di buona volontà, che lottano per la giustizia e la coesistenza pacifica tra ebrei israeliani e arabi palestinesi, cerchino nuovi modi di lavorare insieme per un futuro comune. 

Prima del processo di Oslo, era comune che ebrei e arabi lavorassero e manifestassero insieme contro i mali dell’occupazione, dell’annessione strisciante e del processo di oppressione ed espropriazione dei palestinesi, segnato soprattutto dal movimento degli insediamenti e dalle politiche oppressive di dominazione. Con il processo di Oslo, tuttavia, si è assistito a una netta riduzione di tali attività congiunte. Molti israeliani pensavano che il progresso verso una soluzione a due Stati richiedesse loro di astenersi dal recarsi in Cisgiordania. L’opinione prevalente era: “Noi siamo qui e loro sono là”.

Quando l’Autorità Palestinese ha iniziato a sviluppare le sue istituzioni, è caduta nella trappola della hafrada (separazione), una caratteristica fondamentale del sistema di apartheid nei Territori Palestinesi Occupati (PTO). Il sistema comprendeva la costruzione del Muro di separazione (Geder hafrada), l’elaborato sistema parallelo di strade, infrastrutture e processi amministrativi, nonché leggi diverse per arabi o ebrei nei Territori palestinesi occupati. I palestinesi dei Territori occupati non potevano recarsi in Israele e nemmeno negli insediamenti interamente ebraici senza un permesso. Allo stesso tempo, ebrei e israeliani venivano avvertiti che anche entrare nell’Area A, che in teoria è sotto il controllo dell’Autorità Palestinese, non solo era pericoloso, ma anche vietato dalla legge. Questo era di solito sufficiente a scoraggiare la maggior parte dei liberali israeliani dal tentare anche solo di incontrare i palestinesi nei Territori palestinesi occupati e di unirsi alla loro lotta contro l’occupazione, lasciandoli soli ad affrontare i coloni ebrei e l’esercito israeliano. Alcune coraggiose organizzazioni israeliane, come il Comitato Israeliano Contro le Demolizioni di Case, Breaking the Silence e il Circle of the Bereaved, hanno continuato a recarsi nei Territori occupati e a unirsi ai palestinesi nelle attività di confronto con l’occupazione e il suo sistema di apartheid, ma la maggior parte dei liberali ebrei israeliani si sono concentrati sulla lotta al fascismo all’interno di Israele, cercando di riconquistare il potere nella Knesset e di mantenere vivo il miraggio di una possibile soluzione a due Stati. 

Allo stesso tempo, i palestinesi sono diventati molto più sensibili al modo in cui le attività congiunte ebraico-arabe sono state utilizzate per legittimare e “normalizzare” la situazione attuale e smussare il loro messaggio anticoloniale e antisionista. Molte attività benintenzionate hanno cercato di far incontrare ebrei e arabi in condizioni altamente controllate, che apparentemente miravano a promuovere la coesistenza senza affrontare o sfidare veramente l’ingiustizia di fondo. Alcune di queste attività hanno dichiarato apertamente di voler sostenere il processo di pace di Oslo. Ciò è stato visto dalla maggior parte dei palestinesi come la normalizzazione di una situazione sempre più intollerabile e inaccettabile.

Inoltre, il movimento BDS ha cercato di utilizzare lo strumento nonviolento del boicottaggio non solo contro i prodotti israeliani e le attività di insediamento, ma ha anche chiesto di boicottare gli individui, le istituzioni e le organizzazioni israeliane che si riteneva “normalizzassero” lo status quo e cercassero solo miglioramenti cosmetici o minimi senza sfidare radicalmente il sistema stesso. Alcuni palestinesi hanno sviluppato un elaborato sistema per determinare quali israeliani fossero accettabili, nel senso che cooperare con loro non era “normalizzare”. Agli interlocutori israeliani veniva spesso chiesto di sostenere i tre principi del BDS ­–la fine dell’occupazione, il diritto al ritorno dei rifugiati e l’uguaglianza per gli arabi in Israele– prima di essere considerati “partner legittimi” per attività congiunte. Per molti palestinesi, tuttavia, è diventato più facile evitare del tutto la cooperazione con gli israeliani o i sionisti piuttosto che rischiare di essere etichettati come “normalizzatori”. La stessa AP, pur collaborando apertamente con le forze di sicurezza israeliane, si è impegnata in una retorica simile, denunciando come “normalizzatori” i membri della società civile che cercavano di collaborare con gli israeliani.

Ma anche a prescindere dalle pressioni dell’AP, molti palestinesi hanno pensato che fosse più facile evitare ogni contatto con gli israeliani che cercare attivamente attività congiunte contro l’occupazione e le strutture di insediamento. In un certo senso, proprio come il “processo di pace” ha dato alla pace stessa una cattiva reputazione, così la stretta collaborazione in materia di sicurezza tra l’amministrazione dell’AP e le forze di occupazione ha reso più difficile e sospetta qualsiasi cooperazione tra attivisti israeliani e palestinesi.

Anni prima che la “normalizzazione” creasse un tale dilemma per gli attivisti, ho scritto un articolo intitolato “Le insidie del dialogo” sui rischi insiti nel dialogo con gli israeliani e su come tale dialogo spesso assuma una falsa simmetria, diventi un sostituto dell’azione e/o legittimi e affermi i presupposti dello status quo oppressivo. Questa affermazione è valida anche oggi ed è rilevante per l’intero dibattito sulla normalizzazione.

Tuttavia, con il crollo della soluzione a due Stati, è sempre più evidente che per gli arabi in Israele esistono le stesse politiche di apartheid e colonizzazione che esistono nei Territori occupati. L’intero sistema è costruito sul privilegio e sulla supremazia ebraica. Per combattere il sistema, sia gli ebrei che gli arabi devono trovare un terreno comune.

Il privilegio, la libertà, la mobilità e la relativa immunità di cui godono gli ebrei sia in Israele che nei Territori occupati forniscono loro strumenti e protezione di cui gli arabi palestinesi non godono. La loro stessa presenza spesso attenua la violenza, poiché sia i coloni che i soldati hanno meno probabilità di usare la forza letale contro di loro. Inoltre, dispongono di strumenti di monitoraggio, ostruzione e persino di pressione sul governo israeliano che non sono disponibili per i palestinesi. Godono anche di maggiore credibilità. Questi privilegi, per quanto ingiusti, danno loro un vantaggio e permettono loro di svolgere un ruolo significativo nella lotta per la libertà e l’uguaglianza. Allo stesso tempo, sono i beneficiari del sistema che favorisce apertamente gli ebrei e i loro diritti rispetto ai palestinesi. Non è quindi sufficiente che scelgano alcuni degli elementi più scandalosi del sistema oppressivo per opporsi, rifiutando di riconoscere la propria complicità nel sistema. 

Gli eccessi dell’attuale governo israeliano e l’abbandono della facciata di democrazia da parte dei suoi elementi di destra offrono l’opportunità di ripensare il sistema nel suo complesso e di cercare una nuova visione comune per arabi ed ebrei, per realizzare insieme un futuro migliore basato non sulla supremazia, ma sull’uguaglianza e su una vera democrazia per tutti. Per fare ciò, entrambe le parti devono affrontare la questione della “normalizzazione”, cercare forme autentiche di co-resistenza e abbandonare la pretesa che la coesistenza sia possibile nel quadro di un sistema di apartheid in qualsiasi parte del Paese.

Jonathan Kuttab è un avvocato palestinese e un attivista per i diritti umani. È membro degli ordini degli avvocati di New York, Palestina e Israele. È direttore esecutivo di FOSNA (Friends of Sabeel North America) e ha fondato diverse organizzazioni per i diritti umani, tra cui Al Haq, la prima organizzazione palestinese per i diritti umani, il Mandela Institute for Palestinian Prisoners e lo Holy Land Trust. È anche membro del Consiglio di Amministrazione del Bethlehem Bible College e di Nonviolence International, ed è attivo in molte altre organizzazioni della società civile in Palestina e a livello internazionale. È un’autorità riconosciuta in materia di diritto internazionale, diritti umani e questioni palestinesi e israeliane.

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

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