Da Nablus a Napoli: come in Italia i murales raccontano la storia della resistenza palestinese

di Vittoria Volgare Detaille,

Middle East Eye, 5 luglio 2023, da Invicta Palestina

Negli anni è sbocciato un legame tra Napoli e le città palestinesi, con la solidarietà manifestata attraverso l’arte e l’attivismo.

Eduardo Castaldo ha creato questo murale a Napoli da una fotografia scattata in Cisgiordania (MEE/Eduardo Castaldo)

In un vicolo del centro storico di Napoli c’è un murale raffigurante due soldati in divisa ed elmetto che salgono una scala che conduce alla finestra di un’anziana signora. La donna rovescia loro addosso un secchio d’acqua. Invece della consueta fila di vestiti stesi ad asciugare fuori dalle finestre, allo stendibiancheria è appesa una bandiera palestinese.

L’immagine è opera del fotografo Eduardo Castaldo che, nel tempo libero, utilizza la street art in questa città del sud Italia per sensibilizzare sulla Palestina.

L’ispirazione per questa opera d’arte è venuta da una foto che ha scattato in Cisgiordania.

“Questa immagine mi ha colpito, poiché questi due soldati sembravano personaggi del videogioco Metal Gear Solid”, dice Castaldo a MEE.

In un altro vicolo, un murale raffigura i volti dei palestinesi incontrati da Castaldo al checkpoint israeliano 300, le loro espressioni intrappolate dietro le sbarre di una prigione.

Nel corso degli anni è sbocciato un legame speciale tra la città italiana di Napoli e le città palestinesi, con la solidarietà di Napoli manifestata attraverso l’arte della resistenza, le organizzazioni culturali e la difesa dei diritti dei palestinesi.

Attivismo giovanile

Il lavoro di Castaldo in tutta Napoli ha guadagnato l’attenzione mondiale grazie ai social media.

Descrive la resilienza delle persone che ha incontrato, trattando la causa palestinese, la rivoluzione egiziana e la guerra in Ucraina.

Originario della periferia di Napoli, a 18 anni si trasferisce nel centro storico, e la sua passione per la Palestina si radica durante la frequenza  presso l’Università Orientale della città, la più antica scuola di Studi Orientali d’Europa.

La reinterpretazione di Castaldo dell’iconico poster Visit Palestine del 1936 di Franz Krausz, su un power box (MEE/Eduardo Castaldo)

Lì è entrato in contatto con la comunità palestinese locale, arrivata negli anni ’70. Gli studenti palestinesi hanno svolto un ruolo significativo nella sensibilizzazione sulla loro patria all’interno dei circoli accademici, contribuendo a rafforzare i legami tra Napoli e la Palestina.

“Anche se allora non conoscevo molti palestinesi, la loro influenza era palpabile e mi ha lasciato una forte impressione”, dice.

Nello stesso periodo scopre la fotografia. Il suo primo incarico è stato a Napoli nel 2006, con l’emergenza rifiuti prima ancora che fosse trattata pubblicamente.

Catturare la sofferenza

Nel 2007, Castaldo ha preso la decisione che gli ha cambiato la vita: trasferirsi nella città palestinese di Ramallah, in Cisgiordania.

Successivamente, si sarebbe trasferito al Cairo, per seguire la rivoluzione e la post rivoluzione, lavoro che gli è valso ampi consensi, tra cui un World Press Photo Award nel 2012.

Nel 2009 ha anche assistito all’Operazione Piombo Fuso, l’offensiva militare israeliana di tre settimane contro Gaza che ha provocato la distruzione di infrastrutture e la perdita di circa 1.400 vite palestinesi.

Man mano che approfondiva il suo ruolo di fotogiornalista, iniziarono a insinuarsi dubbi sulle dinamiche del suo lavoro.

“Da un lato mi sentivo lusingato, guadagnavo e avevo l’opportunità di lavorare; ma allo stesso tempo mi chiedevo spesso se avessi il diritto di documentare la sofferenza delle persone attraverso le mie foto”, dice Castaldo.

“Ad esempio, ho scattato una foto a una donna a Gaza tra le rovine della sua casa, insieme a suo marito e ai suoi figli, all’indomani dei bombardamenti. Oppure in Egitto le persone si sono fatte fotografare perché volevano  comunicare alcune cose e si sono affidate a me per  fare sentire la loro voce.

“Non ero sicuro di voler utilizzare quelle foto sui giornali.”

Secondo Castaldo, l’industria dei media aveva il potere di interpretare le sue foto come riteneva opportuno: “Sia che usino parole più morbide o più dure, manipolano sempre la narrazione”.

La fotografia per sensibilizzare

Una svolta importante nella vita di Castaldo arriva nel 2015 quando un collega, Luciano Ferrara, lo invita a esporre le sue opere nel cuore di Napoli.

“Lo spazio era unico, pieno di antichità e oggetti personali, diverso dalle tradizionali ambientazioni da galleria”, ha detto Castaldo.

Mostrare le sue foto, che aveva accumulato in otto anni, è stato liberatorio e ha mostrato a Castaldo che poteva usare il suo lavoro per aumentare la consapevolezza su questioni che lo interessavano.

Nel 2021 ha deciso di rendere pubbliche le foto scattate in una base militare israeliana nel 2009, durante una festa per le famiglie dei soldati.

Castaldo ha ritardato di 12 anni l’esposizione di questa foto di soldati israeliani che mostrano armi ai loro figli, coprendo i volti dei bambini con impronte (MEE/Eduardo Cast

Descrivendo una delle foto su Instagram, dove condivide il suo lavoro, aggiunge un contesto a ciò che viene mostrato nella foto.

“Decine di orgogliosi genitori [israeliani] mostravano felici ai propri figli come caricare lanciagranate e mitragliatrici. Soldati sorridenti organizzavano giochi e sfide in cui bambini di nove anni dovevano montare rapidamente fucili e sparare ad arabi immaginari.

“La quantità di violenza a cui ho assistito è stata insopportabile. Ho vagato tutto il giorno scattando foto con il  sorriso sul volto e la morte nel cuore”.

Castaldo ha condiviso il suo lavoro sulla Palestina solo 12 anni dopo aver scattato le foto, spinto dalla consapevolezza che quei bambini del 2009 “erano diventati soldati responsabili della morte dei palestinesi”.

Per salvaguardare le loro identità, ha sostituito i volti e i corpi dei bambini con tessuti a fiori, proteggendoli simbolicamente da ciò che erano diventati.

Tuttavia, condividere il suo lavoro gli ha permesso di vedere il potente potenziale delle sue immagini e come renderle pubbliche avrebbe potuto essere uno strumento per aumentare la consapevolezza della difficile situazione dei palestinesi.

Discussione attraverso l’arte

Il lavoro di Castaldo ha viaggiato oltre Napoli e ha suscitato discussioni in tutta Europa.

Durante una visita in Germania ha trasformato digitalmente una pubblicità Armani per il rossetto, coprendo la modella con una kefiah in bianco e nero. La sciarpa a scacchi, divenuta simbolo della resistenza palestinese, era accompagnata dalla scritta “Giorgio Armani per la Palestina”.

In maniera giocosa, Castaldo ha affermato di aver avviato una collaborazione con marchi di haute couture.

Castaldo usa il suo lavoro per stimolare discussioni sulla difficile situazione dei palestinesi (MEE/Eduardo Castaldo)

Sebbene molti spettatori lo abbiano scambiato per un vero e proprio murale, per Castaldo il successo di questa opera d’arte digitale risiede nella sua capacità di avviare discussioni, indipendentemente dalla sua autenticità in senso fisico.

L’opera di Castaldo non è l’unico esempio di arte a sostegno della causa palestinese in Italia.

Il famoso artista napoletano-olandese Jorit, arrestato nel 2018 a Betlemme per aver dipinto un volto di quattro metri di Ahed Tamimi sul muro di separazione, ha anch’egli adornato Napoli con murales filo-palestinesi.

I personaggi di Jorit – contrassegnati da strisce rosse sui  volti che ricordano le tecniche di scarificazione utilizzate nei rituali di iniziazione africana – simboleggiano la resistenza sociale.

Alla periferia di Napoli, un palazzo di cinque piani mostra su un’intera parete il volto di un ragazzo che indossa una kefiah e guarda fuori dal buco della serratura.

L’immagine simboleggia la chiave palestinese del ritorno, una rappresentazione del desiderio di una patria.

Sull’isola di Ischia, vicino a Napoli, un’intera parete di una scuola presenta una raffigurazione unica del santo patrono dell’isola. Ciò che lo rende speciale è che è ritratto come una figura nera che indossa una kefiah, con le bandiere del Sud Africa e della Palestina riflesse nei suoi occhi e, ancora, la “chiave del ritorno” in un angolo del murale.

Napoli solidale con la Palestina

Il sostegno alla causa palestinese a Napoli va oltre l’arte di strada, poiché le istituzioni accademiche, le organizzazioni culturali e i gruppi di solidarietà sostengono attivamente i diritti dei palestinesi.

È interessante notare che il nome di Nablus deriva dalla parola greca Neapolis (nuova città), che ha lo stesso significato di Napoli.

Il sostegno della città è evidente attraverso la sua partnership con la città di Nablus, con scambi culturali ed educativi che si svolgono regolarmente anche in altre parti della Cisgiordania.

“Nessuna amministrazione napoletana ha mai chiuso le porte alla comunità palestinese”, dice a Middle East Eye Omar Suleiman, palestinese residente a Napoli.

Suleiman è nato nel 1957 nel villaggio di Nisf Jubeil vicino a Nablus e si è trasferito in Italia negli anni ’70.

“La mia decisione di andare in Italia è stata guidata dalle limitate opzioni universitarie in Palestina e perché il costo della vita era inferiore rispetto ad altre destinazioni”, afferma Suleiman. “La mia intenzione era di studiare e poi di tornare”.

Invece Napoli è diventata la sua patria adottiva.

Secondo Suleiman, le persone che ha incontrato erano curiose e volevano imparare e capire di più sulla Palestina.

Dopo essersi iscritto a un programma di scienze politiche all’Orientale, Suleiman  iniziò a dedicare del tempo alla sensibilizzazione sulla sua terra natale.

“Abbiamo visitato fabbriche, facoltà e scuole per condividere informazioni sulla Palestina. Nonostante la nostra allora  limitata conoscenza dell’italiano, abbiamo comunicato il nostro messaggio nel miglior modo possibile”, afferma

Secondo Suleiman, oggi in città ci sono circa 70-80 palestinesi.

Nel 1991 Suleiman apre il Caffè Arabo, non lontano da dove si trovano i murales di Castaldo. Da oltre 30 anni il locale è diventato un vivace centro per la cultura palestinese e araba, con incontri con autori, presentazioni di libri e spettacoli teatrali.

Sin dal suo arrivo a Napoli, Suleiman ebbe l’impressione che la città fosse qualcosa di più di un semplice luogo in cui guadagnarsi da vivere.

“Ha usato il cibo, il cinema, la letteratura e il teatro per promuovere la Palestina”, dice Caterina Pinto, che ha studiato all’Orientale 20 anni fa e ora è docente universitaria di arabo. Ricorda con affetto di aver visitato il bar dopo le lezioni.

“Ricordo ancora la prima volta che l’ho visto. Indossava con orgoglio una maglietta con la scritta in napoletano ‘Io sono di Nablus’”.

Nel 1996 Suleiman ha aperto il Ristorante Amir, dove serve specialità palestinesi tra cui malfuf, maqluba e musakhan.

Più recentemente, ha anche co-organizzato il primo Festival palestinese di Napoli, chiamato Masarat Al-Fonun – viaggi artistici.

L’evento inaugurale ha visto la partecipazione della scrittrice Suad Amiry, del poeta Ibrahim Nasrallah, del regista e attore Mohammad Bakri e di molti altri, insieme a proiezioni di film e allo spettacolo My Name is Omar, ispirato alle esperienze di vita di Suleiman.

Anche se ha trascorso 40 anni a Napoli ed è diventato cittadino italiano, Suleiman continua a promuovere la causa palestinese.

“È qualcosa di radicato in me. Provenendo da una famiglia di agricoltori, ho un profondo legame con la terra.

“Se hai il senso della giustizia non puoi essere palestinese e non essere legato alla tua patria”.

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” – Invictapalestina.org

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2 commenti su “Da Nablus a Napoli: come in Italia i murales raccontano la storia della resistenza palestinese”

  1. Castaldo ha condiviso il suo lavoro sulla Palestina solo 12 anni dopo aver scattato le foto, spinto dalla consapevolezza che quei bambini del 2009 “erano diventati soldati responsabili della morte dei palestinesi”.

    Castaldi non ha fotografato nessun bimbo arabo palestinese che lanciava sassi e che a 12 anni di distanza sarà diventato un lupo solitario che ammazza ragazze in auto come un mafioso? Un patriota della grande umma a protezione dei luoghi santi e inavvicinabili.

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  2. Ogni uccisione è certamente da condannare, soprattutto quando le vittime sono dei civili. Ma cercare di equiparare le uccisioni di palestinesi con le uccisioni di israeliani è un patetico e ormai logoro tentativo di sopire la propria cattiva coscienza, ignorando la sproporzione quantitativa e soprattutto la motivazione delle violenze. Per i numeri, basta guardare a chi li raccoglie condannando ambo le parti (come le Nazioni Unite o Amnesty International). Per i moventi, basta soppesare il cinismo di un regime coloniale di apartheid che cerca di fare pulizia etnica per insediarsi su tutto il territorio e confrontarlo con la disperazione di chi si sente derubato, umiliato e schiavizzato ogni giorno, ormai da decenni.

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