Tagliare gli aiuti USA a Israele non basta

Ago 23, 2023 | Notizie, Riflessioni

di Tariq Kenney-Shawa,

The Nation, 21 agosto 2023. 

La capacità di Washington di fare pressione su Israele usando il denaro è svanita da tempo. I progressisti devono puntare molto più in alto.

Un israeliano sventola una bandiera statunitense durante una protesta contro la revisione giudiziaria del governo a Tel Aviv, giovedì 30 marzo 2023. (Oded Balilty / AP)

Per decenni, il sostegno incondizionato a Israele ha rappresentato una rara fonte di consenso nell’élite della politica statunitense. Quell’epoca sta finendo.

Mentre il governo più di estrema destra nella storia di Israele distrugge dalla radice le proprie istituzioni per emarginare ulteriormente i palestinesi e consolidare la supremazia ebraica, il sostegno ai palestinesi nella loro lotta per la liberazione sta aumentando in USA. Per la prima volta in assoluto, i sondaggi mostrano che i Democratici dichiarano di simpatizzare più con i palestinesi (49%) che con gli israeliani (38%) e le generazioni più giovani, di tutto l’arco politico, stanno diventando sempre più pro-palestinesi. Un’area del dibattito in particolare sta vedendo un’inaspettata convergenza di voci un tempo diametralmente opposte: l’area di coloro che chiedono di condizionare o tagliare gli aiuti militari statunitensi a Israele. 

A luglio, gli editorialisti del New York Times Thomas Friedman e Nicholas Kristof hanno scritto articoli separati in cui esortavano l’amministrazione Biden a condurre, come ha detto Friedman, una profonda “rivalutazione” dei suoi legami con Israele, e forse anche a considerare, come ha scritto Kristof, l'”innominabile“: “eliminare gradualmente gli aiuti americani a Israele”. Questi articoli sono stati preceduti dall’articolo di Jacob Siegel e Liel Leibovitz su Tablet che esortavano il Congresso a “porre fine agli aiuti americani a Israele”, che secondo loro servono solo a favorire il complesso militare-industriale americano.

Naturalmente, non c’è nulla di nuovo in queste argomentazioni, solo la loro fonte. Da decenni i palestinesi chiedono a Washington di condizionare o tagliare gli aiuti, nella speranza di rendere Israele responsabile dell’occupazione e dell’apartheid. Da altrettanto tempo, i loro sforzi sono stati accolti con disprezzo dai legislatori di Washington e con accuse di antisemitismo da parte degli apologeti di Israele. Quindi Friedman e Kristof sono, per usare un eufemismo, molto in ritardo nel riconoscere che l’occupazione israeliana non è temporanea e che il sostegno incondizionato di Washington a Israele ha solo favorito l’impunità a cui i suoi leader si sentono ora autorizzati. D’altra parte, Siegel e Leibovitz riprendono le argomentazioni dei conservatori israeliani secondo cui gli aiuti militari statunitensi in qualche modo legano le mani a Israele.

Indipendentemente dalle motivazioni individuali, questa cacofonia di voci indica un’importante crescita di un argomento che è stato a lungo considerato tabù nel discorso nazionale mainstream su Israele-Palestina. Ma piuttosto che dare semplicemente il benvenuto a Friedman, Kristof e agli altri per gli aspetti positivi delle loro argomentazioni, dovremmo usare questa apertura per spingere ulteriormente il discorso. Perché anche se gli Stati Uniti condizionassero o tagliassero del tutto i finanziamenti a Israele a causa del trattamento riservato ai palestinesi, probabilmente ciò non basterebbe a scoraggiare i leader israeliani, sempre più estremisti. Solo condizionando gli aiuti statunitensi, oltre ad adottare misure punitive più assertive come il disinvestimento e le sanzioni, gli Stati Uniti possono esercitare una pressione efficace su Israele affinché ponga fine all’occupazione e all’apartheid.

Secondo i dati forniti dal governo, gli Stati Uniti hanno fornito a Israele oltre 260 miliardi di dollari in assistenza bilaterale e finanziamenti militari. Ciò fa di Israele il maggior beneficiario cumulativo dell’assistenza estera statunitense dalla Seconda Guerra Mondiale in poi. Nel 2016, l’amministrazione Obama firmò un Memorandum d’Intesa decennale sugli aiuti militari, impegnando una cifra record di 38 miliardi di dollari in assistenza militare (circa 3,8 miliardi di dollari ogni anno). Secondo l’accordo, Israele deve utilizzare la maggior parte dei fondi che riceve da Washington per acquistare armi dai produttori statunitensi. In sostanza, Israele riceve gratuitamente attrezzature militari americane all’avanguardia per un valore di miliardi di dollari, mentre il complesso militare-industriale degli Stati Uniti fa soldi a palate, il tutto pagato da noi, il popolo americano.

Ciò solleva la questione: e se gli Stati Uniti arrivassero ad usare gli aiuti militari sotto condizione che Israele ponga fine all’occupazione e permetta l’autodeterminazione dei palestinesi, Israele accetterebbe?

Ebbene, analizziamo alcuni fatti. Il prodotto interno lordo pro capite di Israele è di oltre 50.000 dollari, simile a quello di Canada e Finlandia e superiore a quello di Francia e Giappone. Gli aiuti statunitensi rappresentano solo l’1% del PIL israeliano. Oltre alla sua economia sviluppata, Israele schiera uno degli eserciti meglio addestrati ed equipaggiati al mondo e vanta un complesso militare-industriale nazionale in rapida espansione. Solo nel 2022, le vendite di armi israeliane, che vanno dai droni da combattimento senza pilota a software di spionaggio avanzati, sono state pari a oltre 12,5 miliardi di dollari.

Quindi la risposta è: No, il ritiro degli aiuti statunitensi non eserciterebbe alcuna particolare pressione economica su Israele. Israele può finanziare molto bene l’occupazione anche da solo.

È evidente che Israele non ha più bisogno degli aiuti statunitensi per sostenere la sua sana economia o il suo mostruoso vantaggio militare qualitativo rispetto a tutte le minacce regionali. Ma ancora più importante da considerare è il fatto che, in realtà, l’apartheid israeliano non è una questione di soldi. Si tratta di una risorsa molto più inesauribile: l’ideologia. I leader israeliani sono ora più che mai determinati a realizzare le loro visioni coloniali espansionistiche estreme, a qualunque costo.

Nel 1937, il fondatore di Israele e primo ministro David Ben-Gurion scrisse una lettera al figlio a Londra per descrivere come i piani di spartizione della Palestina proposti si inserissero negli obiettivi a lungo termine del movimento sionista. “Uno Stato ebraico solo su una parte della terra non è la fine ma l’inizio”, scriveva. “Il resto seguirà nel corso del tempo”.

Per Ben-Gurion, qualsiasi cosa al di sotto dell’intera Palestina storica e oltre era solo un primo passo verso l’acquisizione dell’intera terra che i sionisti ritenevano fosse stata loro biblicamente assegnata. Ben-Gurion sapeva quindi che la realizzazione assoluta degli obiettivi coloniali del sionismo sarebbe dovuta avvenire gradualmente e con “altri mezzi”. Questi “altri mezzi” si manifestarono solo 10 anni dopo, quando Ben-Gurion supervisionò l’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi dalle loro case con l’avanzata delle milizie sioniste.

Arriviamo al giorno d’oggi. Il governo di estrema destra di Israele è deciso a ottenere il pieno controllo della “terra promessa” del sionismo. “Non si riceve una terra, la si conquista”, ha detto l’anno scorso in un video della campagna elettorale Itamar Ben-Gvir, leader del partito di estrema destra Jewish Power e ora ministro della Sicurezza Nazionale. Dall’annessione de jure della Cisgiordania al consolidamento della supremazia ebraica, fino all’incoraggiamento di violenti pogrom dei coloni contro i palestinesi, i leader israeliani stanno mettendo in atto le loro minacce e rendendo abbondantemente chiaro che la finestra di opportunità per Washington di influenzare le loro decisioni attraverso i soli aiuti condizionati si è chiusa da tempo. Se l’unico prezzo che Israele dovrà pagare per l’eliminazione della Palestina sarà di qualche miliardo di dollari all’anno, lo considererà uno dei migliori affari della storia mondiale.

Purtroppo, il dibattito a Washington sulla responsabilità di Israele è talmente fuori dalla realtà, ostaggio dell’influenza smisurata di una lobby pro-Israele determinata a sostenere la complicità degli Stati Uniti nell’occupazione israeliana, che i legislatori sono rimasti ciechi di fronte alla rapidità con cui i loro strumenti sono diventati obsoleti.

Anche proposte modeste per condizionare le porzioni di aiuti statunitensi direttamente legate ai crimini di guerra israeliani sono accolte con sforzi concertati per delegittimare non solo le proposte di legge stesse, ma anche coloro che osano proporle. Dal 2017, la rappresentante democratica del Minnesota Betty McCollum ha cercato di far passare diverse versioni di un disegno di legge che vieterebbe agli aiuti statunitensi di contribuire alla detenzione di bambini palestinesi e ad attività militari che faciliterebbero “l’ulteriore annessione unilaterale” della Cisgiordania occupata. Per aver osato difendere i diritti dei bambini e sostenere un processo di pace che gli stessi Stati Uniti hanno sponsorizzato per decenni, la McCollum è stata ripetutamente accusata di antisemitismo dai suoi colleghi pro-Israele e da potenti organizzazioni di lobby come l’AIPAC. Tutto questo nonostante la maggioranza degli americani sia favorevole a condizionare gli aiuti a Israele e un crescente gruppo di voci progressiste al Congresso stia intensificando i propri sforzi per far sì che la riconsiderazione della relazione “speciale” USA-Israele diventi realtà.

Dal momento che i sostenitori dei diritti dei palestinesi dovranno inevitabilmente affrontare questo tipo di reazione in risposta anche ai più piccoli sforzi per responsabilizzare Israele, perché non sostenere politiche che abbiano effettivamente la possibilità di scoraggiare i leader dell’estrema destra israeliana? È tempo di proporre una legislazione che descriva dettagliatamente i piani di disinvestimento e di sanzione nei confronti del regime di apartheid israeliano.

Queste richieste di responsabilizzazione non sono né drastiche né nuove. Chi ha bisogno di un promemoria dovrebbe guardare alla risposta globale coordinata nei confronti dell’apartheid in Sudafrica.

Quando nel 1977 gli Stati Uniti imposero un embargo obbligatorio sulle armi al governo sudafricano dell’apartheid, questo servì solo come primo passo della campagna di isolamento più completa che sarebbe seguita. La successiva mobilitazione contro l’apartheid nelle università, nelle chiese e nelle imprese americane sfociò nel Comprehensive Anti-Apartheid Act del 1986, che formalizzò le sanzioni e arruolò gli Stati Uniti a fianco della comunità internazionale nell’isolamento del governo razzista del Sudafrica. Questa campagna internazionale collettiva, unita alla campagna interna di disobbedienza civile dei neri sudafricani, fu un fattore chiave per rendere l’apartheid insostenibile. Il precedente è chiaro.

Nel 1958, Julius Nyerere, futuro presidente della Tanzania appena indipendente, rivolse un appello diretto al Movimento di Boicottaggio di Londra. “Non chiediamo a voi, popolo britannico, nulla di speciale. Vi chiediamo solo di ritirare il vostro sostegno all’apartheid non acquistando prodotti sudafricani”, disse. Nel 2023, i sostenitori dei diritti dei palestinesi stanno lanciando un appello simile: far rispettare a Israele gli stessi standard che gli Stati Uniti hanno definito e fatto rispettare nei confronti del Sudafrica; porre fine alla complicità degli Stati Uniti rifiutando di fornire a Israele le armi che usa per uccidere i palestinesi; esercitare pressioni economiche e politiche sul governo di estrema destra di Israele finché l’occupazione e l’apartheid non diventeranno insostenibili.

L’amministrazione Biden ha chiarito in modo inequivocabile che non ha intenzione di ritenere Israele responsabile di nulla. Washington non ha ancora alzato un dito in risposta all’uccisione di cittadini statunitensi da parte di Israele in pieno giorno, per non parlare delle violenze che Israele infligge quotidianamente ai palestinesi. Ma a prescindere dalle gaffe in politica estera che l’attuale amministrazione è determinata a compiere, il sostegno ai diritti dei palestinesi sta crescendo sia all’interno delle aule del Congresso che tra l’opinione pubblica. Le richieste di porre fine alla complicità degli Stati Uniti nell’occupazione israeliana si fanno sempre più forti. È ora che le nostre richieste politiche riflettano ciò che non solo è giusto, ma rappresenta anche la volontà democratica di una maggioranza crescente di americani.

Per questo motivo, i legislatori progressisti che stanno già mettendo in gioco la loro carriera a favore di un condizionamento degli aiuti statunitensi a Israele dovrebbero portare la conversazione sulla responsabilità di Israele al punto giusto, presentando il caso del disinvestimento e delle sanzioni. In questo modo, i nostri rappresentanti possono impegnarsi in un dialogo più onesto e produttivo su politiche che funzioneranno davvero, invece di mezze misure che non hanno più alcun peso.

Tariq Kenney-Shawa è un policy fellow statunitense presso il think tank e network politico palestinese Al-Shabaka. Ha conseguito un master in affari internazionali presso la Columbia University.

https://www.thenation.com/article/world/united-states-cutting-israel-aid-not-enough/

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

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