Come la Bibbia è stata usata per colonizzare la Palestina

Ago 19, 2023 | Notizie

di Jeff Wright,  

Mondoweiss, 16 agosto 2023.   

L’ultimo libro di Mitri Raheb è un esame provocatorio di come la Bibbia sia stata usata per sostenere il colonialismo d’insediamento israeliano. “La terra di Palestina viene colonizzata usando un hardware militare giustificato da un software teologico”, scrive Raheb.

Il Rev. Dr. Mitri Raheb (Foto: Mitriraheb.Org)

Recensione di: DECOLONIZZARE LA PALESTINA
La terra, il popolo, la Bibbia
di Mitri Raheb
184 pp. Orbis Books, 24,00 dollari

Mitri Raheb, pastore palestinese arabo e cristiano, è un affermato teologo. Nato a Betlemme da una famiglia le cui radici in Palestina risalgono a secoli fa, la sua vita è stata plasmata dalla dura occupazione di Israele. Ma la fede della sua famiglia e della sua comunità ha sempre prevalso.

Come pastore anziano, Raheb ha servito per trent’anni la Christmas Lutheran Church di Betlemme. È fondatore e presidente dell’Università Dar al-Kalima di Betlemme e membro fondatore di Kairos Palestine – il più ampio movimento cristiano in Palestina – e coautore del suo documento del 2009, Un momento di verità

Nel corso degli anni, Raheb è stato autore di oltre 40 libri.

Il suo ultimo libro, Decolonizzare la Palestina: The Land, the People, the Bible (Orbis Books), è un esame provocatorio di come la Bibbia sia stata usata per sostenere il regime di insediamento coloniale di Israele. Non è necessario essere un teologo per trarre beneficio dalla lettura di Decolonizing Palestine. È scritto per tutti coloro che cercano di capire le radici religiose del colonialismo d’insediamento e capire come i sionisti – ebrei e cristiani – usino una presunta rivendicazione della terra di Palestina per promuovere i propri programmi.

Per il Rev. Mitri Raheb, un passo essenziale nella decolonizzazione della Palestina è il lavoro in corso della Chiesa occidentale per “decolonizzare” le sue interpretazioni della Bibbia che, sia intenzionalmente che inconsapevolmente, hanno sostenuto una delle ultime vicende coloniali in quella che molti considerano un’era postcoloniale.

La critica di Raheb si concentra sulle interpretazioni bibliche dei cristiani evangelici e dei sionisti cristiani, che usano l’”arma della Bibbia” per sostenere il piano di Israele di conquistare l’intera Palestina storica. Raheb espone anche il lavoro di “teologi ben considerati, conosciuti e affermati di molte denominazioni” le cui teologie, accusa, “spogliano il popolo palestinese indigeno della sua terra, dei suoi mezzi di sostentamento e delle sue radici”. 

Decolonizzare la Palestina, scrive Raheb, “è un campanello d’allarme per le persone interessate a Israele/Palestina, affinché riconoscano la realtà sul campo, riflettano in modo critico e profetico sulle scritture e si impegnino a sostenere un nuovo paradigma”.

Un nuovo paradigma: il colonialismo d’insediamento

Il paradigma prevalente utilizzato dai media e dal mondo accademico per descrivere gli eventi in Palestina/Israele è quello di un conflitto: un conflitto tra due popoli, un conflitto per la terra e le risorse e, come scrive Raheb, “un conflitto per i luoghi sacri profondamente legati all’identità”. Ma la denominazione di conflitto e la realtà dell’occupazione – persino l’accusa di apartheid – non riescono a descrivere la radice della situazione, secondo Raheb.

Nel primo capitolo del libro, sostiene “la necessità di un nuovo quadro di riferimento e di un cambiamento di paradigma”, insistendo sul fatto che “la situazione prevalente in Palestina dopo la Dichiarazione Balfour è quella del colonialismo d’insediamento” che, sulla scorta del lavoro di altri studiosi, descrive in questo modo:

L’insediamento permanente di coloni in una terra occupata è la caratteristica principale… I coloni stabiliscono e impongono la sovranità statale e il controllo giuridico sulla terra indigena, con l’obiettivo finale di eliminare i nativi. Gli indigeni diventano estranei, mentre i coloni vengono presentati come indigeni attraverso diversi meccanismi politici, costrutti ideologici e narrazioni sociali. La terra indigena è descritta come ‘terra nullius’, terra vuota o sterile che aspetta solo di essere scoperta, diventando così proprietà privata dei coloni. I nativi sono rappresentati con una visione razzista come terroristi selvaggi e violenti, mentre i coloni sono ritratti come pionieri civilizzati e coraggiosi. Per difendere la proprietà dei coloni dai selvaggi, viene creato uno stato di polizia a cui viene concesso un potere straordinario sui nativi….

Il contributo di Raheb alla letteratura sul colonialismo d’insediamento nasce dalla constatazione del fatto che gli studiosi che ne scrivono non hanno avuto una formazione teologica e, quindi, non hanno pensato di esaminare come, nel corso dei secoli, la Bibbia sia stata usata come una giustificazione significativa per il colonialismo d’insediamento.

Decolonizzare la Palestina colma questo vuoto, portando per la prima volta la teologia cristiana palestinese nello studio della teoria dell’insediamento coloniale. Raheb dimostra che, come scrive, “la teologia cristiana ha svolto un ruolo in quasi tutti i progetti d’insediamento coloniale, compresi Nord America, Sudafrica e Australia”.

Colonialismo

“Mentre nessuno oserebbe oggi citare la Bibbia per giustificare l’insediamento coloniale in Australia o in Nord America”, insiste Raheb, “molti cristiani ed ebrei hanno fatto esattamente questo per quasi duecento anni”. Scrive:

La natura coloniale dello Stato di Israele è evidente e la realtà sul campo è chiarissima. La situazione non è “complicata” come alcuni sostengono per confondere la questione. Il diritto internazionale è decisivo su questo tema, come testimoniano le numerose risoluzioni delle Nazioni Unite. Eppure, passi biblici e termini come “diritti divini”, ” terra promessa”, “Giudea” e “popolo eletto” vengono costantemente ripetuti per conferire alla colonizzazione della Palestina una legittimità biblica e quindi una legalità politica. Questa terminologia viene usata nei circoli ecclesiastici, negli eventi popolari e ai più alti livelli politici del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Descrive cinque fasi del rapporto in evoluzione tra il progetto coloniale ebraico israeliano e la Bibbia, a partire dai grandi eventi mondiali e dalla rinascita religiosa negli Stati Uniti del 1800, fino alla strumentalizzazione delle storie bibliche per giustificare il progetto coloniale israeliano. Raheb offre una storia dettagliata dietro ciascuna delle varie fasi, documentando accuratamente le sue conclusioni. (Scritto da uno studioso pastore, il libro ha più di 200 note a piè di pagina, una bibliografia di oltre 90 opere e un indice di dieci pagine, che aiutano gli studiosi e coloro che vogliono approfondire la comprensione degli argomenti trattati da Raheb).

Sionismo cristiano

Raheb inizia il secondo dei quattro capitoli del suo libro, il Sionismo Cristiano, con una storia personale. Racconta che negli anni ’80, dopo una conferenza che era stato invitato a tenere agli studenti tedeschi che studiavano all’Università Ebraica di Gerusalemme, si era intavolata una conversazione con gli studenti incentrata sulla teologia cristiana nel contesto palestinese. Un noto professore tedesco di teologia sistematica intervenne, ricorda Raheb, “e dichiarò davanti a tutti gli studenti: “Signor Raheb, lei ostacola Dio. Se fossi in lei, farei le valigie e me ne andrei, lasciando questo Paese ai suoi legittimi proprietari, gli ebrei”. Rimasi scioccato e senza parole”.

Raheb era un giovane pastore, non ancora trentenne. L’intervento di quel professore ha lasciato in lui  un’impressione che ha contribuito a plasmare la nuova definizione che egli offre del sionismo cristiano, “basata non su ciò che le persone credono, ma su ciò che fanno in base a tale credenza”.

A sostegno di questa nuova definizione, Raheb descrive le interpretazioni bibliche e teologiche che ne derivano da parte di “fondamentalisti, letteralisti e fanatici” e di “un altro gruppo importante: … i sionisti cristiani liberali, colti e sottili”. Ognuna di queste diverse espressioni del sionismo cristiano, spiega Raheb, “si traduce in un sostegno indiscusso alle pratiche dell’insediamento coloniale dello Stato di Israele”.

“Mentre fanno lobby per ‘Israele'”, scrive, “i sionisti cristiani in realtà fanno lobby per altre questioni che sono importanti per loro”. Ognuno di loro, scrive, ha le proprie questioni locali e globali – “lotte, paure e motivazioni” – che contribuiscono a una qualche giustificazione del loro sostegno allo Stato di Israele. “È ingenuo”, insiste Raheb, “pensare che siano alcuni passaggi biblici ad alimentare il sionismo cristiano”. Scrive:

La narrazione sionista cristiana è sempre inserita all’interno di una metanarrazione, in modo che coloro che la sostengono non si sentano impegnati in un banale lobbismo politico, ma piuttosto come agenti di un grande piano secondo il quale leggono e interpretano sia le Scritture che la storia.

“Usando questo approccio”, scrive Raheb, “la chiave ermeneutica per comprendere il sionismo cristiano non è tanto il movimento interpretativo biblico o teologico, quanto piuttosto l’azione di lobby a sostegno di un movimento d’insediamento coloniale”. Per illustrare la questione, Raheb riporta un passo del teologo liberale Paul van Buren (1923-1998), citata da Rosemary Radford Reuther nel suo libro The Wrath of Jonah:

Il ruolo della chiesa cristiana è quello di estendere alle nazioni la rivelazione del Dio di Israele e l’opera di redenzione di Dio, all’interno e per mezzo di Israele. Il cristianesimo dovrebbe fare questo, non solo predicando questo Vangelo alle nazioni, ma anche rendendo servizio al popolo di Israele… Esternamente, la chiesa cristiana deve diventare l’estensione della Lega Antidiffamazione, combattendo ogni antisemitismo tra i gentili. Questo si concretizza anche nella difesa dello Stato di Israele, sia raccogliendo fondi per la difesa di Israele sia difendendo Israele da tutte le calunnie antisioniste. Tutte le critiche allo Stato di Israele, sia che si basino su una presunta ingiustizia nei confronti dei palestinesi sia che affermino che Israele è ingiusto nei confronti dei popoli del Terzo Mondo, sono semplicemente menzogne. È compito della Chiesa cristiana combattere tutte queste menzogne contro Israele, facendosi insegnare la verità dagli ebrei, cioè dal governo dello Stato di Israele.

Il territorio

Raheb dedica un capitolo all’importanza della terra, accusando molti teologi cristiani di scrivere sulla terra “come se la Palestina fosse una terra antica che esiste nel vuoto; la spogliano del suo contesto sociopolitico – del suo popolo reale” senza pensare al costo delle loro narrazioni coloniali occidentali per le vite, i mezzi di sussistenza e le case dei palestinesi.

Egli offre come esempio il fatto che sia i teologi che le guide cristiane continuano a riferirsi all’area del Monte al-Aqsa e della Cupola della Roccia come al Monte del Tempio. Scrive:

Perché un teologo cristiano dovrebbe chiamare quest’area “Monte del Tempio” quando non c’è stato alcun tempio negli ultimi duemila anni e due grandi e antichi santuari musulmani dominano l’orizzonte? L’espressione Monte del Tempio è comprensibilmente usata come riferimento storico al luogo in cui potrebbe essere sorto il Tempio ebraico o come riferimento archeologico ad alcuni resti delle mura erodiane. Tuttavia, ignorare e non fare riferimento a due attuali e importanti luoghi sacri musulmani, e riferirsi invece all’intera area come Monte del Tempio, non può più essere considerato innocente. Nell’odierno contesto politico di grande tensione, l’espressione stessa è a dir poco problematica.

“Ciò che vale per la Moschea di al-Aqsa vale per l’intera terra”, scrive Raheb. “Il modo in cui diamo un nome alle cose è importante, perché dare un nome è un esercizio di potere”. E prosegue descrivendo l’uso dei diversi nomi dati alla terra nel corso della storia, a partire dal più antico, Canaan, poi Palestina e Israele. “Con l’eccezione di Canaan“, scrive, “nessun altro nome per questa terra se non Palestina è stato usato ininterrottamente per quasi 2.500 anni, fino ai giorni nostri”.

Criticando il progetto coloniale israeliano, scrive: “Il nome Israele è stato scelto nel XX secolo da un’entità politica moderna, lo “Stato di Israele”, che ha proiettato nella Bibbia uno Stato etno-nazionale e religioso esclusivo, ora usato dall’attuale governo israeliano come pretesto per la colonizzazione del territorio”.

Al contrario, scrive Raheb, solo il nome Palestina ha “storicamente avuto un carattere inclusivo. In questo senso, ‘Palestina’ non si riferisce a un’entità politica, religiosa o etnica, ma piuttosto a una regione multietnica, multiculturale e multireligiosa che è stata in grado di includere diverse identità e popoli all’interno dei suoi confini”. Per secoli, ricorda Raheb, ebrei, musulmani e cristiani hanno vissuto fianco a fianco nella terra di Palestina.

Raheb si rivolge poi ai testi biblici che i sionisti e lo Stato di Israele hanno usato per giustificare la loro presa di possesso della terra. “Il libro di Giosuè”, scrive, “contiene spaventosamente tutti gli elementi del colonialismo d’insediamento come pratica politica”. Spiega:

Gli israeliani che attraversano il Giordano per entrare in Canaan sono visti come aventi un diritto divino alla terra. Essi sono rappresentati come appartenenti alla terra e come legittimi eredi, mentre gli indigeni sono descritti come malvagi e decadenti (Genesi 9:35), che devono essere sostituiti, spostati e sterminati (Deuteronomio 7:2). …..

“I teologi dovrebbero essere preoccupati quando la terra promessa diventa terra colonizzata”, scrive, “quando i popoli indigeni vengono derubati della loro terra e delle loro risorse e lasciati come rifugiati senza terra e confinati in riserve”.

In un’utile esegesi di una delle Beatitudini del Discorso della Montagna di Gesù (Matteo 5:5), Raheb propone come traduzione più accurata: “Beati i miti, perché erediteranno la terra, invece del più familiare “Beati i miti, perché erediteranno il mondo” che riflette più fedelmente l’incoraggiamento di Gesù ai palestinesi del primo secolo, che probabilmente pensavano che l’Impero Romano sarebbe durato per sempre. Nella terra in cui gli imperi di Assiri, Babilonesi, Persiani, Greci e altri erano andati e venuti, Gesù offre ai suoi seguaci quello che Raheb descrive come un “insegnamento decoloniale”, assicurando alla gente di Palestina che l’impero non sarebbe durato, che la terra sarebbe tornata un giorno ai suoi legittimi abitanti.

Popolo eletto

Nel capitolo finale del libro, Raheb affronta la questione della scelta o elezione, l’idea che Dio abbia scelto un popolo piuttosto che un altro. Scrive,

Molti cristiani palestinesi cercano di comprendere la questione dell’elezione nell’Antico Testamento, che costituisce una parte integrante del canone biblico… I cristiani palestinesi si sentono minacciati quando l’elezione viene collegata alla nozione di terra promessa come pretesto teologico per occupare la loro patria palestinese.

Raheb esplora le molte complessità di una simile affermazione. Per esempio: Cosa significa, dal punto di vista biblico, essere scelti? Dopo aver esplorato le risposte offerte da tre teologi palestinesi (Naim Ateek, protestante; Paul Tarazi, greco-ortodosso; e Michel Sabbah, cattolico), Raheb offre la propria interpretazione.

Egli insiste sul fatto che qualsiasi interpretazione della Bibbia e della teologia che ne deriva deve essere inserita nei contesti moderni del nazionalismo europeo, del colonialismo d’insediamento e dell’eccezionalismo americano da parte della destra religiosa e politica. In questo modo – insistendo sul fatto che i testi antichi devono essere interpretati nel contesto delle realtà contemporanee – rivela la sua risposta a una domanda fondamentale dell’ermeneutica biblica: La Bibbia è storia o solo un racconto?

“La Bibbia è un racconto”, sostiene. “L’ermeneutica biblica che privilegia la Bibbia come libro di storia, sia essa la storia di un certo popolo o la storia di Dio, è una caratteristica tipica del fondamentalismo religioso e non trova posto in un approccio teologico decoloniale al tema dell’elezione”.

Raheb riconosce che è comprensibile che un popolo consideri la propria storia con Dio come unica, ritenendosi eletto, sia che si tratti di pii ebrei, cristiani o musulmani. Ma insiste sul fatto che la nozione di elezione non deve essere usata per rivendicare violentemente una terra che non è la propria (come fa, ad esempio, il Libro di Giosuè).

Raheb indica una seconda interpretazione di ‘elezione’ nella Bibbia. In tempi di devastazione, scrive, la rivendicazione dell’elezione è stata usata anche “con l’obiettivo di ripristinare la speranza del popolo in se stesso, al di là della tragica realtà politica che stava vivendo [vedi Isaia 49:14-16]”.

Raheb insiste sul fatto che queste due diverse interpretazioni, l’una un messaggio di speranza per i deboli e i devastati, l’altra uno strumento di ideologia religiosa e nazionale, devono essere esaminate “attraverso una lente geopolitica e un’analisi dell’equilibrio di potere prevalente”. Oggi, lo Stato di Israele si è sviluppato fino a diventare la potenza regionale, un impero per procura. I palestinesi vivono ora in una situazione simile a quella degli israeliti della Bibbia: occupati, schiacciati, i loro figli mandati in esilio e lasciati con poca terra e nessuna risorsa”.

“L’elezione, correttamente intesa”, scrive, “è quindi una promessa per coloro che sono schiacciati dal potere imperiale, un incoraggiamento per coloro che sono scoraggiati dalla realtà politica e una consolazione per i disperati”. È una questione di fede e di speranza, secondo Raheb. “Altrimenti”, scrive, “la nozione di scelta diventa un’ideologia pericolosa che sancisce il nazionalismo su base religiosa, il colonialismo d’insediamento e l’eccezionalismo razziale con ramificazioni disastrose”.

Seguendo le notizie sul quotidiano peggioramento della situazione in Palestina e riconoscendo, come scrive Raheb, che il mondo occidentale “non ha ancora fatto i conti con le ramificazioni della sua eredità coloniale”, non si può fare a meno di sentirsi scoraggiati. Anche Raheb riconosce che “non ci sono indicazioni che questo cambierà nel breve termine”. Tuttavia, nel suo Epilogo, indica “alcune crepe nel muro che sono visibili”, scrivendo che “il progetto israeliano d’insediamento coloniale sta fallendo…. Non ho dubbi che tutti i muri cadranno. Non c’è futuro per questo progetto d’insediamento coloniale”.

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

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