In Israele e negli Stati Uniti, l’apartheid è l’elefante nella stanza

di Ishaan Tharoor,

The Washington Post, 11 agosto 2023.  

Proteste dopo il voto del parlamento sul contestato disegno di legge che limita i poteri della Corte Suprema di annullare alcune decisioni del governo. Nei pressi della Knesset a Gerusalemme, 24 luglio. (Amir Cohen/Reuters)

Il mese scorso, il video di un manifestante israeliano inzuppato di acqua è diventato quasi virale. Mentre i cannoni ad acqua sparati dalla polizia colpivano i suoi compagni che stavano manifestando contro i piani del governo israeliano di estrema destra di rivedere il sistema giudiziario, l’uomo gesticolava vigorosamente verso un giornalista locale con una telecamera. Ha raccontato che – proprio quando lui stava manifestando contro i piani del Primo Ministro Benjamin Netanyahu – suo figlio era stato inviato come soldato israeliano nella città cisgiordana di Huwara, dove, non molto tempo prima, i coloni ebrei avevano compiuto furti di case e proprietà palestinesi.

“Mio figlio è ora a Huwara”, ha detto l’uomo, indicando le forze di sicurezza che gli puntavano contro i cannoni ad acqua. “E questo è ciò che fanno a me”.

Questa vicenda mette in evidenza la dissonanza concettuale che ha accompagnato il gigantesco movimento di protesta israeliano. Per mesi, decine di migliaia di israeliani sono scesi in piazza in difesa della loro democrazia, temendo che essa possa essere fortemente minacciata dal desiderio della coalizione governativa di estrema destra di ridurre i poteri indipendenti della magistratura del Paese. Ma le proteste sono state raramente accompagnate dal riconoscimento dell’altro profondo oltraggio in atto contro la democrazia israeliana: l’occupazione in corso della Cisgiordania e la negazione a milioni di palestinesi degli stessi diritti dei loro vicini israeliani, tra cui mezzo milione di coloni ebrei.

In una lettera con più di mille firmatari, un gruppo di accademici di spicco negli Stati Uniti e in Israele ha sottolineato proprio questo “elefante nella stanza”. La dichiarazione pubblicata per la prima volta online lo scorso fine settimana e che ha raccolto centinaia di firme ogni giorno, denuncia il “regime di apartheid” che vige per i palestinesi che vivono sotto il controllo di Israele. E offre un’ulteriore prova del cambiamento del discorso su Israele anche tra alcuni dei più convinti sostenitori dello Stato ebraico negli Stati Uniti.

“Non ci potrà essere democrazia per gli ebrei in Israele finché i palestinesi vivranno sotto un regime di apartheid, come lo hanno descritto gli esperti legali israeliani”, si legge nella lettera. Secondo gli autori, è impossibile separare il tentativo di Netanyahu di estendere il controllo legislativo sul sistema giudiziario dal desiderio dei suoi alleati di estrema destra di annettere le terre palestinesi e di erodere ulteriormente i diritti dei palestinesi.

“Lo scopo ultimo della revisione giudiziaria è quello di inasprire le restrizioni su Gaza, privare i palestinesi di uguali diritti sia al di là della Linea Verde che all’interno di essa, annettere più terra e ripulire etnicamente tutti i territori sotto il dominio israeliano dalla loro popolazione palestinese”, prosegue la lettera. “I problemi non sono iniziati con l’attuale governo radicale: il suprematismo ebraico è cresciuto un anno dopo l’altro ed è stato sancito dalla Legge sullo Stato Nazione del 2018”.

Ciò che rende il documento sorprendente, al di là del suo linguaggio crudo, è la nutrita schiera di intellettuali pubblici che lo sostengono. Tra questi vi sono molti personaggi che si autodefiniscono sionisti, come l’acclamato storico Benny Morris. In una rubrica del Wall Street Journal pubblicata l’anno scorso, Morris aveva messo in dubbio l’accuratezza del paradigma dell'”apartheid” per interpretare la situazione in Israele e nei territori occupati. Ma la sua posizione è cambiata, da quando i membri del gabinetto Netanyahu, dichiaratamente estremisti, come il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir e il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, sostengono apertamente politiche razziste e discriminatorie e spingono per l’annessione.

La loro ascesa al potere, ha detto Omer Bartov, storico israeliano della Brown University e uno dei principali promotori della lettera, segna “un cambiamento molto radicale che ha portato alla luce “le tensioni e le ingiustizie che da tempo si celano sotto l’asserita temporanea – ma ormai più che secolare – occupazione israeliana della Cisgiordania. “C’è un legame tra la decennale occupazione e questo tentativo del governo di cambiare la natura del regime stesso”, mi ha detto.

Bartov, un eminente studioso dell’Olocausto, ha descritto i pericoli posti dalla coalizione di Netanyahu in termini di minaccia storica. “Sono uno storico del XX secolo e non faccio analogie alla leggera”, ha detto Bartov, prima di parlare di come il fascismo europeo abbia preso piede quando movimenti politici un tempo marginali sono riusciti a entrare nei governi e a mettere le mani sulle leve del potere. “Ma questa è la situazione attuale in Israele. È terrificante vederla accadere”.

Negli Stati Uniti, anche un blocco crescente di sostenitori di Israele sta esprimendo la propria inquietudine. Il mese scorso, l’editorialista del New York Times Thomas Friedman ha scritto una lettera aperta al Presidente Biden esortando la Casa Bianca ad arrestare il percorso intrapreso da Netanyahu perché compromette non solo la democrazia israeliana, ma anche gli interessi strategici degli Stati Uniti. Il suo collega Nicholas Kristof ha intervistato due ex ambasciatori statunitensi in Israele che hanno raccomandato di condizionare o tagliare gli aiuti militari allo Stato ebraico, in un momento in cui le lamentele degli Stati Uniti sull’espansione degli insediamenti israeliani o su altri passi che rendono impossibile un futuro Stato palestinese vengono regolarmente ignorate dagli israeliani.

 “Gli aiuti elargiti non forniscono agli USA alcuna leva o influenza sulle decisioni israeliane di usare la forza; ma poiché ce ne stiamo seduti in silenzio mentre Israele persegue politiche che non condividiamo, siamo visti come ‘sostenitori’ dell’occupazione israeliana”, ha dichiarato Daniel Kurtzer, uno degli ex ambasciatori. “E gli aiuti statunitensi forniscono un cuscinetto multimiliardario che permette a Israele di evitare scelte economiche difficili e che quindi permette a Israele di spendere più soldi per politiche a cui ci opponiamo, come gli insediamenti”.

L’editorialista del Washington Post Max Boot, da sempre sostenitore di Israele, ha fatto eco all’idea di limitare gli aiuti, chiedendo allo stesso tempo di rivalutare le relazioni con Israele, visto l’estremismo che sta caratterizzando la sua politica. “Israele è ora un alleato sempre più illiberale e difficile: l’Ungheria del Medio Oriente”, ha scritto Boot. (Nella conversazione che ho avuto con lui, Bartov ha notato che la metafora dell’Ungheria ha i suoi limiti: “Israele è una potenza occupante in cui circa la metà della popolazione non ha diritti reali”, ha detto. “Non è questo il caso dell’Ungheria”).

Una serie di sondaggi sull’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti di Israele mostra un costante spostamento di simpatia verso i palestinesi, soprattutto tra i giovani americani e gli elettori democratici. Ma la più ampia conversazione su Israele non ha ancora avuto un impatto sulla Washington ufficiale, in particolare sul Congresso, dove praticamente qualsiasi critica a Israele è vista come controversa e qualsiasi menzione di “apartheid” nel contesto israeliano porta ad accuse di antisemitismo.

“Potete chiamarmi un ebreo che odia se stesso, chiamarmi antisemita”, risponde Bartov. “La gente usa questi termini per coprire la realtà, per ingannare se stessa o per ingannare gli altri. Bisogna guardare a ciò che accade sul campo”.

È un’argomentazione simile a quella avanzata da Benjamin Pogrund, giornalista e scrittore israeliano nato in Sudafrica. Per anni, Pogrund si è opposto con tenacia all’applicazione del termine “apartheid” a Israele, soprattutto da parte di chi suggerisce le stesse tattiche di boicottaggio e di sanzioni utilizzate un tempo per fare pressione sul regime di apartheid del Sudafrica. Ora Pogrund si rende conto della giustezza dell’accusa.

“Neghiamo ai palestinesi ogni speranza di libertà e di una vita normale. Crediamo alla nostra stessa propaganda secondo cui pochi milioni di persone accetterebbero docilmente l’inferiorità e l’oppressione perpetue”, Pogrund ha scritto giovedì in una rubrica su Haaretz. “Il governo sta spingendo Israele sempre più in basso, verso un comportamento disumano e crudele, al di là di qualsiasi difesa. Non c’è bisogno di essere religioso per sapere che questo è un vergognoso tradimento della morale e della storia ebraica”.

Ha concluso: “Ho lottato con tutte le mie forze contro l’accusa che Israele sia uno Stato di apartheid: in conferenze, articoli di giornale, in TV e in un libro. Tuttavia, quella che era un’accusa sta diventando un fatto compiuto”.

Ishaan Tharoor è un editorialista di affari esteri del Washington Post, dove è autore della newsletter e della rubrica Today’s WorldView. Nel 2021 ha vinto l’Arthur Ross Media Award in Commentary dell’American Academy of Diplomacy. In precedenza è stato redattore senior e corrispondente della rivista Time, prima a Hong Kong e poi a New York. Twitter

https://www.washingtonpost.com/world/2023/08/11/israel-palestine-apartheid-israel-scholars/

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

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