Jenin

di: Mouin Rabbani,

Jadaliyya, 4 luglio 2023. 

Un bulldozer militare israeliano sconvolge le strade e distrugge il centro del campo profughi di Jenin, durante un raid a Jenin, Cisgiordania, il 3 luglio 2023. (Nasser Ishtayeh/Sopa Images via Zuma Press Wire/Apa Images)

L’ultimo assalto israeliano al campo profughi di Jenin, il più massiccio dall’invasione del 2002 che distrusse quasi completamente il campo, è stato progettato per raggiungere una serie di obiettivi militari e politici. Nel loro insieme, questi obiettivi mirano a rendere la Cisgiordania senza pericoli per l’intensa colonizzazione israeliana e, in ultima analisi, per la sua annessione formale. 

Come per le precedenti operazioni israeliane in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, anche questa probabilmente danneggerà in modo significativo l’infrastruttura organizzativa palestinese, e allo stesso tempo infliggerà deliberatamente un costo enorme alla componente civile. Tuttavia il successo a livello strategico rimarrà incerto; non c’è motivo per credere che Israele riuscirà oggi dove ha fallito non solo nel 2002, ma varie altre volte negli anni successivi. In realtà, il fatto stesso  che Israele abbia dovuto ricorrere all’attacco attuale, e il fatto che lo debba attuare contro un avversario palestinese più coraggioso e più sofisticato che in passato, dimostra la natura temporanea dei suoi precedenti successi.

Allo stesso tempo, la debolezza di un movimento nazionale palestinese afflitto dalla frammentazione e dalla disintegrazione interna gli impedisce di tradurre i fallimenti di Israele in progressi palestinesi. La più volte proclamata “unità delle arene”, ad esempio, rimane per ora uno slogan piuttosto che un accordo di difesa collettiva, e all’inizio di quest’anno non si è concretizzata nemmeno all’interno della Striscia di Gaza, quando Israele ha assassinato un certo numero di alti quadri della Jihad Islamica e Hamas si è astenuto da un suo coinvolgimento diretto. La campagna di Israele per trasformare i palestinesi da popolo unito a una presenza demografica politicamente irrilevante può quindi proseguire. 

Si è tentati di vedere l’invasione israeliana di Jenin come un prodotto della composizione e del programma estremista dell’attuale governo israeliano. Ma in realtà i relativi piani operativi sono stati formulati un anno fa sotto il precedente governo Bennett-Lapid, dimostrando che la politica israeliana nei confronti dei palestinesi è caratterizzata soprattutto dalla continuità e viene attuata dalle istituzioni statali piuttosto che dall’arbitrio individuale dei leader. 

Il catalizzatore di questa operazione è stato il mutevole panorama della resistenza palestinese nel nord della Cisgiordania. Non più dominati né dalle fazioni né da iniziative individuali, nuovi gruppi come la Tana del Leone a Nablus, reclutati da ogni settore e slegati dai calcoli politici di qualunque leader, hanno cominciato a portare attacchi regolari e crescenti contro l’esercito di occupazione e i coloni israeliani. Le loro attività hanno guadagnato non solo il plauso popolare, ma hanno anche stimolato l’emergere di ulteriori gruppi militanti locali, come le Brigate Jenin. Col tempo queste formazioni hanno sviluppato collegamenti sia tra loro che con gruppi paramilitari affiliati a fazioni consolidate.  

Agendo in stretta collaborazione con Israele, l’Autorità Palestinese (AP) ha lavorato intensamente per sradicare questi gruppi. Ma essendo completamente succube di Israele e mai schierate per difendere i palestinesi dalle incursioni militari israeliane notturne o dai pogrom dei coloni, le forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese mancano della legittimità, del sostegno popolare e spesso anche della motivazione per svolgere i loro compiti. Nel 2004-2005 il rifiuto categorico di Israele di coordinare il suo ritiro da Gaza con l’Autorità Palestinese ha ridotto quest’ultima all’irrilevanza politica e ha contribuito a gettare le basi per la successiva presa del potere di Hamas. In Cisgiordania, la determinazione di Israele a ridurre l’Autorità Palestinese a un subappaltatore dell’occupazione, unita all’incapacità del leader dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas di andar oltre il ruolo di compiacente collaborazionista, ha contribuito al successo di chi metteva al primo posto la difesa armata del popolo.

Mentre i militanti palestinesi facevano attacchi sempre più audaci in risposta all’inesorabile invasione di Israele nelle loro terre e nelle loro vite, Israele attuava una serie di incursioni sempre più violente nei centri abitati palestinesi allo scopo di farli scomparire. Raramente prendeva prigionieri, e uccideva regolarmente e indiscriminatamente civili non combattenti, mentre infliggeva vaste distruzioni alle proprietà palestinesi. 

Diversi fattori hanno portato Israele a mettere in atto i suoi piani per una massiccia dimostrazione di forza a Jenin. Non solo i suoi intensi sforzi nella città e nel campo profughi avevano avuto un successo notevolmente inferiore rispetto a Nablus, ma le Brigate Jenin e altre stavano mostrando segni di crescente sofisticazione militare. Più di recente, nel giugno di quest’anno, avevano seminato bombe di nuova concezione lungo la strada percorsa da un’unità israeliana che aveva invaso il campo profughi di Jenin, ed erano riusciti a immobilizzare sette veicoli corazzati israeliani, ferendo almeno sette soldati. Un mezzo israeliano è stato bloccato per ore e ha potuto essere salvato solo dopo che gli elicotteri Apache forniti dagli Stati Uniti hanno lanciato quelli che erano i primi attacchi aerei in Cisgiordania in due decenni. Diversi giorni dopo, quattro israeliani sono stati uccisi vicino a Ramallah da due uomini armati affiliati ad Hamas, in rappresaglia per l’uccisione di sette palestinesi e il ferimento di altri 100 nel raid su Jenin.

In Israele la “deterrenza” ha uno status sacro, e la sua applicazione pratica – mantenere gli arabi al loro posto – è stata un’ossessione da quando i primi coloni sionisti sono arrivati ​​in Palestina alla fine del diciannovesimo secolo. Il visibile e rapido sgretolamento della deterrenza  ha inoltre rappresentato una sfida politica significativa per il primo ministro Binyamin Netanyahu; un fallimento nel garantire la sicurezza del progetto coloniale israeliano non solo avrebbe fatto rivoltare contro di lui una popolazione israeliana già in armi per il suo programma legislativo autocratico, ma avrebbe portato anche all’implosione della sua coalizione di governo, senza la quale la sua capacità di eludere la condanna per una varietà di accuse di corruzione sarebbe svanita.  

Mantenere la deterrenza è altrettanto importante per i fascisti residenti nel suo gabinetto, come il ministro delle finanze Bezalel Smotrich e il ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir. Sono essi stessi fanatici coloni in Cisgiordania e chiedono costantemente più sangue palestinese, trovando sempre più difficile scaricare la responsabilità del “deterioramento della sicurezza” sui palestinesi o su altri israeliani. Considerando il loro ruolo di alto livello nel governo, la loro demagogia sembra avere vita più breve di quanto ci si potrebbe attendere e sta registrando successi decrescenti. 

La politica israeliana nei confronti del popolo palestinese è di norma il prodotto del consenso istituzionale e di una pianificazione meticolosa. Eppure, in questa occasione è del tutto possibile che considerazioni di parte abbiano giocato un ruolo e che Netanyahu abbia visto l’assalto a Jenin come un pacificatore politico per i partner della coalizione contrari alla sua recente disponibilità a rinviare l’attuazione del programma autocratico del governo.

Comunque sia, l’assalto di Jenin è in definitiva parte integrante di un’agenda politica più ampia, che è quella di rendere la Cisgiordania sicura per la rapida accelerazione della colonizzazione israeliana, che porterà infine all’annessione formale. Ciò richiede che Israele stronchi non solo la resistenza dei palestinesi, ma anche le loro aspirazioni nazionali. Come precisato da Netanyahu alla fine di giugno alla commissione Affari Esteri e Difesa del parlamento: “Dobbiamo eliminare le loro aspirazioni a uno Stato”. Ben-Gvir si è espresso così: “La Terra d’Israele deve essere colonizzata e…. deve essere lanciata un’operazione militare. Demolire edifici, eliminare i terroristi. Non uno o due, ma decine e centinaia, se necessario anche migliaia”. Nel gergo israeliano, in particolare in circoli come quello di Ben-Gvir, “terrorista” è una scorciatoia per palestinese, sia esso uomo, donna o bambino, civile o combattente. 

L’ultima invasione di Jenin ha seguito uno schema prevedibile. Distruzione enorme e volontaria, fuoco indiscriminato, uso di civili non combattenti come scudi umani, deliberato ostruzionismo alle cure mediche per i feriti, bombardamento intensivo di un ospedale con gas lacrimogeni e sfollamento forzato di almeno 3.000 residenti. In questo caso, il tutto eseguito da circa 1.000 truppe d’élite sostenute da circa 150 carri armati, veicoli corazzati e da una forza aerea.

Resta da vedere se questo sia inteso come una grande mazzata che sarà seguita da una serie di raid minori, oppure come la prima fase di un’offensiva più ampia che si espanderà ad altre regioni della Cisgiordania e potenzialmente alla Striscia di Gaza. In ogni caso, Israele dichiarerà vittoria e affermerà di aver eseguito l’operazione esattamente come previsto e senza intoppi.

Quello che si può già confermare è che ancora una volta c’è una netta discrepanza tra la più vasta comunità internazionale e l’Occidente. A guidare il gruppo di quest’ultimo sono gli Stati Uniti, che si sono affrettati a proclamare che considerano l’invasione di un campo profughi straniero da parte di Israele come un atto di legittima autodifesa che essi sostengono pienamente, e a denunciare come “terroristi” coloro che difendono il loro campo rispondendo al fuoco di soldati armati in uniforme. A Londra, il governo e l’opposizione hanno dato una risposta unificata agli ultimi crimini di Israele, approvando una legge parlamentare che rende illegale per le autorità locali boicottare Israele o i suoi insediamenti illegali. A Bruxelles, l’Unione Europea sta presumibilmente discutendo gli ultimi ritocchi di una dichiarazione che esprime seria preoccupazione, prima di commissionare l’ennesima indagine sui libri di testo palestinesi. 

Non meno codardo è il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres. Con lo stile di un funzionario di basso rango del Dipartimento di Stato, è scivolato ancora una volta attraverso una serie di luoghi comuni per evitare di condannare Israele per azioni che ha invece denunciato immediatamente in altri contesti. Val la pena ricordare che nel suo precedente incarico Guterres ha servito due mandati consecutivi come Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, e continua fino alla noia a fare riferimento a questo decennio della sua carriera. Eppure, di fronte al bombardamento aereo di un campo profughi densamente popolato e allo sfollamento forzato di migliaia di suoi abitanti, sembra non abbia visto nulla che meritasse censura.

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Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

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