di Mohammed El-Kurd,
Progressive International, 19 giugno 2023.
Nei decenni successivi all’evento che i palestinesi conoscono come “la Catastrofe”, l’espropriazione è diventata un tema sempre attuale dell’esperienza palestinese.
Se si percorre in auto il nostro territorio ferito, si incontrano in vari punti delle macerie. A volte sono le macerie di una casa di Gerusalemme, demolita una o più volte negli ultimi decenni. Altre volte sono le rovine di un villaggio, spopolato nel 1948, ora mal celato sotto una foresta di pini piantati dal Fondo Nazionale Ebraico. A volte sono le macerie di una casa crivellata di proiettili nel Golan siriano occupato, messo in ginocchio dall’invasione del 1967. Altre volte sono le macerie di un edificio residenziale bombardato durante uno degli assalti alla Striscia di Gaza assediata nel 2008, ’09, ’12, ’14, ’19 o ’21. Oppure, se leggeste queste righe tra qualche anno, potrebbero essere le macerie di Silwan, Masafer Yatta e Naqab, città ancora vitali ma sotto minaccia.
Attraversando questo paesaggio, è probabile che vi imbattiate in città e campi profughi che hanno manifesti dei nostri martiri affissi su tutti i muri. La data di alcuni manifesti può essere difficile da decifrare, ma si può intuire quando sono stati affissi per la prima volta osservando il loro stato: se sono immacolati e vivaci, sono freschi di stampa; se sono fragili e sbiaditi, danneggiati dalla pioggia, dalla sporcizia o da proiettili vaganti e si staccano dai muri, potrebbero risalire a qualche tempo fa, alla Seconda Intifada o a una delle intifade successive. Molti, probabilmente la maggior parte, dei volti non vi saranno familiari, perché sono stati uccisi al di fuori del ciclo di notizie internazionali e le loro morti sono state segnate solo da fugaci titoli locali. Se vi soffermate a leggere, potreste trovare i ritratti di un padre e di un figlio che condividono lo stesso muro, di uno zio e di una nipote, a volte dello stesso anno, a volte di generazioni diverse.
Tutto questo – manifesti a brandelli, villaggi semisepolti e macerie, macerie, macerie – è la prova materiale della Nakba. È un termine che viene usato spesso per indicare la catastrofica creazione dello Stato israeliano, quando le milizie sioniste intrapresero una brutale campagna di pulizia etnica, espellendo tre quarti di milione di palestinesi e rendendoli rifugiati al di fuori dei confini della loro patria. Dovrebbe essere un termine familiare, anche se non lo è.
Quest’anno ricorre il 75° anniversario della Nakba. Mentre mi sforzo di evocare tutta la sua devastante portata, sono tentato di riempire i prossimi quattro paragrafi con fatti e cifre che ne descrivono le crudeltà principali: i nomi dei vari paramilitari terroristi che hanno formato l’esercito israeliano che oggi ci terrorizza; il numero di massacri, di esiliati, di rifugiati; i chilometri di terra rubata; i ventri gravidi squarciati a Deir Yassin. Ma ripeterei ciò che è già stato detto in migliaia di libri e articoli e che in questa ricorrenza sarà stato pubblicato anche da alcuni siti web non principali.
Da dove cominciamo a parlare della Nakba nel suo 75° anniversario? Tanto per cominciare, dobbiamo riconoscere che l’inclusione delle parole “anniversario” e Nakba nella stessa frase è un errore di valutazione; l’arco temporale, 75 anni, è un errore di calcolo. Anche la traduzione di Nakba come “Catastrofe” – è riduttiva, perché la Nakba non è stata un disastro improvviso, né una tragica reliquia del passato. Non è iniziata né finita nel 1948. Si tratta piuttosto di un processo di pulizia etnica pianificato, organizzato e, soprattutto, ancora in corso.
Per i palestinesi, la Nakba è implacabile e ricorrente. Accade al presente e accade ovunque sulla mappa. Non un angolo della nostra geografia è stato risparmiato, non una generazione dagli anni Quaranta in poi. Per la mia famiglia, la Nakba è stata l’esperienza dell’espulsione di mia nonna da Haifa da parte dell’Haganah nel 1948, ma è stata anche la storia dei suoi ammonimenti che mi mettevano in guardia da quello che sarebbe stato inevitabilmente il mio destino. Infatti, nel 2009, coloni con accento di Brooklyn, sostenuti dall’esercito, si sono impossessati di metà della mia casa a Sheikh Jarrah, dichiarandola loro per decreto divino. Per altre famiglie, la Nakba è iniziata quando un amato nonno è stato espulso da Jaffa e ha cercato rifugio a Gaza, dove continua a vivere col rombo degli aerei da guerra che sganciano bombe su campi profughi sovraffollati, e accompagna i nipoti alla loro prima (o forse terza o sesta) guerra. Sono i loro volti che devono ancora essere stampati sui manifesti.
Anche se questa continua catastrofe sembra spesso implacabile, è importante sottolineare che non era un evento inevitabile. Ha un colpevole: il sionismo, e per parlare della Nakba bisogna parlare del sionismo, l’ideologia politica, nata nell’Europa centrale e orientale del XIX secolo, che sosteneva che la creazione di uno Stato ebraico sarebbe stata l’unica soluzione possibile alla persecuzione degli ebrei. La più nota formulazione di questa idea è quella di Theodor Herzl, giornalista viennese e uno dei pionieri del sionismo, nel suo pamphlet Der Judenstaat (Lo Stato ebraico) del 1896.
Persone diverse definiscono il sionismo in modi diversi, e molte lo definiscono in molti modi contemporaneamente. I funzionari israeliani, ad esempio, lavorano instancabilmente per spingere la narrativa secondo cui il sionismo è sinonimo di ebraismo (nonostante quest’ultimo abbia preceduto il sionismo di migliaia di anni) e spingono a criminalizzare ogni opinione anti-israeliana come antisemita. Altri, tra cui molti sionisti liberali, sostengono che il sionismo sia un movimento di liberazione, nato dalla persecuzione e reso necessario dall’Olocausto, anche se i palestinesi non hanno nulla a che fare con l’Olocausto. I sionisti religiosi, invece, affermano che il sionismo è un destino biblico, la realizzazione della promessa fatta da Dio di una terra promessa, come se Dio fosse una sorta di agente immobiliare. E negli Stati Uniti, sionisti orgogliosi come Joe Biden affermano che “inventerebbero” un Israele se non fosse già stato inventato, un regime satellite per servire i loro interessi strategici nella regione.
Il sionismo, come definito da coloro che hanno vissuto sotto il suo dominio negli ultimi 75 anni, è un’ideologia di espropriazione, un’impresa coloniale espansionistica e razzista. In più occasioni, i primi pionieri del movimento sionista non si sono sottratti a questo inquadramento: per citare solo due brevi esempi, ricordiamo David Ben Gurion, che scrisse di come “dobbiamo espellere gli arabi e prendere il loro posto”; o Ze’ev Jabotinsky, il cui famoso saggio “Muro di ferro” era un’aperta meditazione sulla “colonizzazione della Palestina” e sulla probabile reazione della “popolazione nativa” che, scriveva, “prova almeno lo stesso istintivo amore geloso per la Palestina, come gli Aztechi provavano per l’antico Messico, e i Sioux per le loro ondulate praterie “.
Ma nessuna di queste definizioni o testimonianze ha importanza, perché il sionismo è meglio definito dalle sue manifestazioni materiali e la Nakba, duratura e in corso, rimane la cristallizzazione più chiara dell’ideologia sionista.
Nel 2020, quando la mia famiglia e i miei vicini iniziavano la loro battaglia contro le espulsioni a Sheikh Jarrah, scrissi per The Nation: “Se non sei sfrattato dalla tua casa, viene demolita; se non sei imprigionato, ti sparano per strada; se non ti sparano per strada, c’è un drone nel cielo della tua Striscia di Gaza; se non è una bomba, è l’esilio. A un certo punto della vita di ogni palestinese, ci rendiamo conto che la Nakba è tutt’altro che finita”. Ed eccomi qui, tre anni dopo, a scrivere di nuovo la stessa cosa.
Voglio dire che quelle parole del 2020 sono attuali, ma la terrificante verità è che sono senza tempo. Il movimento sionista ha lavorato per rendere l’espropriazione un tema senza tempo dell’esperienza palestinese: storici che guardano a ieri e giornalisti che guardano all’oggi si ritrovano a raccontare storie simili sulla Nakba. Siamo arrivati a un punto in cui le macerie si accumulano così velocemente che non riusciamo a stargli dietro.
Quando ho iniziato a scrivere questo articolo, il 6 maggio un colono israeliano armato aveva ucciso il diciannovenne Diyar Omari, nel villaggio di Sandalah, in pieno giorno; il suo omicidio mi ha riportato alla mente il massacro di Sandalah del 1957, quando un ordigno israeliano tolse la vita a 15 scolari e ragazzi del villaggio, e ho pensato di incentrare questo saggio sulla sovrapposizione di storie. Ma il pensiero degli scolari mi ha ricordato i residui delle bombe israeliane che continuano a uccidere o mutilare gli scolari di Masafer Yatta, nelle colline a Sud di Hebron, che è stata dichiarata “zona di tiro” chiusa, al solo scopo di espellere i suoi residenti. E ho pensato di scrivere di quell’imminente espulsione, e poi di un’altra, e di un’altra esecuzione, di un’altra demolizione, di un altro arresto arbitrario, di un altro assedio cancellato dai titoli dei giornali, di un altro omicidio riportato in voce passiva, e di un altro e di un altro ancora…
Poi le bombe israeliane hanno iniziato a cadere su Gaza.
Si è tentati di terminare il saggio lì, anticipando, passivamente, un’ulteriore disastro. Dichiarare che la Palestina è una condizione spezzata, un “ciclo di violenza” in cui i bombardamenti sono banali come la prima colazione. Ma il motivo per cui continuiamo a stampare altri manifesti è che le persone qui non hanno ancora accettato la sottomissione come loro status quo, possono ancora produrre una realtà in cui sono liberi. I palestinesi continuano a resistere alle catene del sionismo. Non si sono mai fermati.
Se percorrete in auto il nostro territorio ferito, passerete accanto a donne e uomini che sceglieranno, una volta dopo l’altra, la morte piuttosto che l’indegnità. Se rallentate per ascoltare i loro discorsi, vi renderete conto, anche se per un breve momento, che fareste lo stesso.
Mohammed El-Kurd è il corrispondente dalla Palestina di The Nation. Scrive principalmente di espropriazione a Gerusalemme e di colonizzazione in Palestina. Il suo libro d’esordio è un volume di poesie, Rifqa
Traduzione a cura di AssoPacePalestina
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