Al Shabaka, 14 giugno 2023.
Nonostante le politiche sempre più di destra del regime israeliano, il sionismo liberale ha ancora un ruolo dominante nell’ideologia sionista. Svolge la specifica e cruciale funzione di fornire al progetto sionista di insediamento colonialeuna patina di civiltà occidentale illuminata e di politica democratica e progressista. Di conseguenza, raramente il regime israeliano viene descritto nei principali circoli occidentali per quello che è: uno stato di insediamento coloniale che pratica l’apartheid.
Politici e media di tutto lo spettro politico in Europa, Nord America e altrove descrivono ampiamente Israele come “l’unica democrazia in Medio Oriente“, esaltando i valori occidentali che lo rendono un faro di politiche progressiste in una regione altrimenti autoritaria e irredimibile. Questa retorica viene poi utilizzata per giustificare il sostegno sfrenato dell’Occidente al regime israeliano, anche tramite la fornitura dei mezzi diplomatici, economici e militari necessari per mantenere ed espandere la colonizzazione della Palestina.
Mentre le ideologie sioniste di destra abbondano e hanno i loro sostenitori globali – soprattutto tra i sionisti cristiani – e devono certamente essere affrontate, è fondamentale sfatare il sionismo liberale. Mentre i leader mondiali e i media principali continuano a esprimere preoccupazione per il governo di coalizione estremista israeliano e a chiedere il ritorno alla soluzione dei due Stati, è necessario confutare l’idea che esista una forma liberale di sionismo degna di essere salvata. Dopo aver definito il sionismo liberale, denunciato le sue basi coloniali e di apartheid e offerto un caso di studio dagli Stati Uniti, questo policy brief [documento politico di Al-Shabaka] propone un quadro di riferimento per affrontare e invalidare la nozione di sionismo liberale.
Capire il sionismo liberale
Il sionismo liberale contemporaneo ha origine dal sionismo laburista, il cosiddetto braccio socialista di sinistra del movimento sionista, emerso oltre un secolo fa e che ha svolto un ruolo fondamentale nella formazione dello stato sionista. Dalla fondazione dello Stato, il sionismo liberale si è manifestato nelle politiche dei successivi governi di sinistra e nei programmi delle organizzazioni non governative, dei gruppi di pressione, dei partiti politici e delle reti e istituzioni accademiche che promuovono Israele come stato ebraico liberale. Il sionismo liberale ha goduto di un’egemonia ideologica per molti decenni dopo il 1948. Come scrive il sionista liberale Yehuda Kurtzer in riferimento ai primi sionisti: “I sionisti trionfanti erano convinti che quello che stavano facendo era la costruzione di un movimento politico liberale. Il sionismo liberale è stato inserito nel sionismo politico che alla fine ha portato alla costruzione dello Stato”.
Come Kurtzer, la maggior parte degli analisti israeliani si concentra sull’interazione tra le ideologie di destra e di sinistra come una questione di politica intra-israeliana e intra-ebraica. Il sionismo, tuttavia, è meglio definito attraverso le esperienze delle sue vittime: i palestinesi. Da questo punto di vista, il sionismo liberale può essere inteso solo come un processo di insediamento coloniale, dall’inizio alla fine, in quanto direttamente responsabile della Nakba del 1948. Sebbene il sionismo liberale non sia un monolite, i suoi sostenitori hanno operato per decenni nei circoli del grande pubblico con le seguenti convinzioni centrali:
- l’istituzione dello stato israeliano è l’unico metodo per garantire la sicurezza degli ebrei e metter fine all’esilio ebraico;
- gli ebrei hanno rivendicazioni innate e bibliche di sovranità sulla terra di Palestina;
- il progetto sionista è un’impresa eroica e miracolosa che ha portato la fiaccola della modernizzazione e della civiltà nella cosiddetta terra d’Israele;
- la “guerra d’indipendenza” del 1948 era necessaria e i risultati della guerra – cioè l’espulsione di più di 750.000 palestinesi dalle loro terre e case e la distruzione della Palestina – erano naturali e devono essere accettati.
Non tutti i sionisti liberali concordano con ciascuno dei quattro punti. Ad esempio, alcuni usano un linguaggio molto diverso per il quarto punto, sostenendo che i palestinesi se ne sono andati e non sono stati espulsi. Tuttavia, in tutte le sue varianti, l’ideologia sionista liberale prevalente ritiene che la conquista coloniale della Palestina nel 1948 sia stata giusta, legittima, valida e pienamente giustificabile e che, pertanto, nessuna critica seria possa essere rivolta alla creazione di Israele nel 1948.
Il sionismo liberale è ostile alle critiche anticoloniali palestinesi riguardo al 1948 e spesso le dipinge come antisemite per emarginarle e censurarle. La cancellazione della critica palestinese attraverso la nozione di “nuovo antisemitismo” risale almeno ai primi anni ’70, quando il ministro degli Esteri israeliano del governo laburista, Abba Eban, iniziò a promuovere la narrativa secondo cui l’antisionismo è antisemitismo. Inoltre, i sionisti liberali utilizzano queste convinzioni di fondo per criticare l’occupazione del 1967 della Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, e di Gaza, evitando accuratamente di richiamare l’attenzione sul 1948.
Un articolo del 2023 pubblicato sul Washington Post dai sionisti liberali Paul Berman, Martin Peretz, Michael Walzer e Leon Wieseltier è una buona illustrazione di queste critiche tattiche. Gli autori collocano Israele, fin dal momento della sua fondazione, all’interno delle “nazioni amanti della libertà” del mondo, sostenendo che il nuovo governo di destra di Benjamin Netanyahu “minaccia la posizione di Israele negli affari mondiali”. La centralità del problema dell’immagine è accentuata alla fine dell’articolo, dove si insiste sulla necessità di continuare a finanziare pienamente Israele dal punto di vista militare e si chiede che gli Stati Uniti sostengano gli israeliani che protestano contro il governo di coalizione di destra di Netanyahu.
Il “doppio, ma non contraddittorio, sostegno”, come dicono loro, è una descrizione accurata, ma non perché, come suggeriscono, proteggerebbe la democrazia nella battaglia globale tra “democrazia e autocrazia”. Piuttosto, è perché alla base di questa richiesta all’amministrazione Biden c’è un implicito riconoscimento che: (a) ciò che è stato preso con la forza nel 1948 può essere mantenuto solo con la forza – da qui la necessità continua e perpetua di finanziamenti militari indipendentemente dall’ideologia politica al potere – e (b) il rifiuto delle politiche espansionistiche e annessionistiche del nuovo governo salverà lo Stato ebraico come stato per una maggioranza ebraica, impedendo in modo cruciale che la critica palestinese a Israele possa entrare nel discorso pubblico.
Ciò dimostra che il sostegno dei sionisti liberali alle proteste israeliane del 2023 nei territori del 1948 non è affatto un’opposizione al progetto coloniale dello stato sionista, ma piuttosto un’indicazione della loro preoccupazione che il percorso della destra possa distruggere la patina liberale del colonialismo d’insediamento israeliano. In definitiva, la sinistra e la destra sono sulla stessa lunghezza d’onda per quanto riguarda la creazione e la “difesa” di Israele come stato a maggioranza ebraica.
Infine, è fondamentale vedere il sionismo liberale come parte integrante del colonialismo moderno. In altre parole, la modernità, concepita come fenomeno occidentale, non può essere separata dagli strumenti utilizzati per raggiungerla: la colonizzazione e la schiavitù. Non sorprende che i sionisti liberali non riescano a confrontarsi criticamente con le basi violente e coloniali delle cosiddette democrazie liberali occidentali. Al contrario, accettano come saggezza convenzionale e come dato di fatto che la civiltà occidentale sia superiore a tutte le altre e che vanti i sistemi democratici più avanzati del mondo.
Inoltre, l’Occidente sta giustamente e globalmente diffondendo una civiltà che si è sviluppata in modo endogeno al suo interno. Ne è un esempio l’ultimo libro di Walzer, in cui elogia e promuove la “morale liberale” e il “liberalismo” come “prodotto dell’Illuminismo e del trionfo… dell’individuo emancipato – una figura occidentale”. Sostiene che questa presunta invenzione occidentale, di cui Israele fa parte, è necessaria per evitare che diventiamo “monisti, dogmatici, intolleranti e repressivi”. Nel libro manca un paradigma decoloniale che metta al centro le esperienze e le aspirazioni di coloro che hanno sofferto e sono stati cancellati a causa del progetto coloniale occidentale. Separando la civiltà dell’Occidente da ciò che l’Occidente fa, il sionismo liberale giustifica, legittima e naturalizza il violento progetto sionista d’insediamento coloniale nella Palestina colonizzata e altrove.
Le politiche d’insediamento coloniale e di apartheid del sionismo liberale
Come dimostrato dall’espulsione in massa dei palestinesi nel 1948 e dalla successiva giustificazione e legittimazione ideologica di tale espulsione, tutte le politiche che nascono all’interno del quadro del sionismo liberale sono coloniali e di apartheid. Fondamentalmente, la creazione dello stato sionista nel 1948 è stata un atto di insediamento coloniale e ha reso necessaria l’espulsione e l’esproprio dei palestinesi. Subito dopo, Israele ha promulgato una serie di leggi di apartheid per rendere permanente l’espulsione e iniziare il processo di ebraicizzazione della Palestina colonizzata: la Legge del Ritorno del 1950, la Legge sulla Proprietà degli Assenti del 1950 e la Legge sulla Nazionalità del 1952, tra le tante.
Per la loro grande attenzione al problema dell’immagine di Israele, i sionisti liberali evitano un linguaggio che riveli questa realtà di insediamento coloniale. Ad esempio, nella loro critica all’ultimo governo di coalizione di Netanyahu, Berman, Peretz, Walzer e Wieseltier descrivono le politiche coloniali e di apartheid di Israele come “una campagna sempre più aggressiva” per stabilire ulteriori insediamenti e “sfide crescenti” per i cittadini palestinesi di Israele. Dicono inoltre che il governo di Netanyahu incoraggia il “vigilantismo ebraico estremista” e gli “etno-nazionalisti”, avvertendo che Israele si sta avvicinando all’Ungheria di Viktor Orban. Nel loro discorso, Israele diventa un’altra vittima dell’ondata globale di etnonazionalismo che sta minacciando le democrazie liberali occidentali – un punto che altri, come Kurtzer, sostengono più esplicitamente per riaffermare l’immagine di Israele come democrazia intrinsecamente liberale.
Questo quadro non è affatto vero. Israele continua a rafforzare un sistema che, dal punto di vista geografico, politico, militare, economico e legale, pone i coloni in una posizione superiore rispetto alla popolazione indigena. Ciò avviene in modo tale da avvantaggiare materialmente e simbolicamente i coloni; da un lato, gli insediamenti vengono ampliati e, dall’altro, i coloni vengono indigenizzati mentre i palestinesi vengono sfollati. In questo senso, l’apartheid è un passo su quel continuum di violenza coloniale che inizia con l’espulsione e lo spostamento in massa delle popolazioni indigene. È un processo che elimina la sovranità indigena, servendo così come strumento per cementare ed espandere la conquista d’insediamento coloniale.
Poiché i sionisti liberali sostengono una soluzione a due Stati lungo i confini del 1967, in teoria non dovrebbero più essere interessati all’espansione; anzi, essi considerano l’occupazione pericolosa per il progetto dello Stato ebraico. Ciò viene talvolta espresso attraverso una critica delle politiche e delle pratiche di apartheid (senza usare il termine apartheid) che espandono lo stato israeliano scatenando un potere totalitario sui palestinesi.
Tuttavia, questo sostegno alla soluzione a due Stati deve essere inteso come basato sul timore finale di una soluzione a uno Stato, in cui la sovranità israeliana “non ufficiale” sui palestinesi si trasformerà in sovranità israeliana “ufficiale” sull’intera Palestina colonizzata, lasciando Israele con una popolazione palestinese significativa che minaccia lo status di Israele come stato ebraico. Poiché il sionismo liberale non può conciliare il sogno sionista di uno stato ebraico etnocratico con una vera democrazia, la realtà di uno stato unico smaschererà questa fallacia fondamentale. In questo modo, le politiche coloniali e di apartheid sono incorporate nell’ideologia sionista liberale che rifiuta di affrontare i fatti di ciò che il sionismo è ed è sempre stato.
Un caso di studio del sionismo liberale statunitense
Una delle principali organizzazioni sioniste liberali negli Stati Uniti è J Street, che si descrive come un’organizzazione “pro-Israele, pro-pace, pro-democrazia” che lavora contro “bigottismo, disuguaglianza e ingiustizia”. È importante notare che J Street sostiene che Israele condivide questi “principi democratici” con gli Stati Uniti, dipingendo la “forte minaccia” alla “democrazia liberale” in Israele come parte di una recente ondata globale di estremismo ed etnonazionalismo che minaccia anche gli Stati Uniti. Inoltre, sostiene di lavorare “in coalizioni multireligiose e multirazziali con le comunità che si sforzano di superare… l’oppressione e rafforzare la democrazia liberale”. Infine, ritiene che Israele debba affrontare “nemici pericolosi” e abbia il diritto di difendere se stesso e, per estensione, la democrazia, il progresso e la civiltà.
Partendo da questa base che rende illegittimo “mettere in discussione il diritto fondamentale di Israele a esistere come patria ebraica”, J Street costruisce la sua opposizione all’occupazione. L’organizzazione riconosce infatti che i palestinesi “meritano pieni diritti civili e la fine dell’ingiustizia sistemica dell’occupazione” e “sostiene la creazione di uno Stato palestinese indipendente, non militarizzato e con confini definiti”. In questo modo, J Street si posiziona come liberale e ragionevole.
Tuttavia, J Street non spiega perché ritiene che uno Stato palestinese debba essere smilitarizzato. Questo è un esempio eloquente di come i sionisti liberali ritengono che i palestinesi siano già – o possano sempre potenzialmente diventare – nemici pericolosi che, se avessero accesso alla violenza militare organizzata, la scatenerebbero inevitabilmente. Questo linguaggio rientra perfettamente nei discorsi e nelle politiche sioniste che da decenni “razzializzano” come violento chi ha un corpo palestinese.
Anche la posizione di J Street sui confini è rivelatrice. Sul sito web dell’organizzazione si legge che Israele deve “cedere la stragrande maggioranza del territorio occupato su cui può essere costruito uno stato palestinese in cambio della pace”. Chiedendo a Israele di “cedere” il territorio, J Street riconosce implicitamente che Israele ha dei diritti su di esso, riflettendo la logica fondamentale del sionismo liberale secondo cui Israele ha diritto alla terra dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo.
Inoltre, J Street chiarisce nella sua politica sui confini che la sua idea di un piano di pace “consentirebbe di incorporare nello Stato di Israele i quartieri ebraici consolidati a Gerusalemme Est e alcuni dei grandi blocchi di insediamenti in Cisgiordania vicini alla Linea Verde”. Questa politica indica il sostegno all’annessione e si allinea con i governi israeliani di tutto lo spettro politico.
Il dilemma dell’annessione
Per J Street e organizzazioni simili, l’annessione deve essere limitata, per timore che l’espansione metta in luce le basi coloniali di Israele. Sebbene i sionisti liberali ignorino che le terre occupate nel 1948 sono diventate ebraiche e democratiche – solo per gli ebrei – attraverso politiche e leggi coloniali e di apartheid, questa realtà è sempre presente nella loro ideologia. Si manifesta innanzitutto nell’opposizione al diritto dei palestinesi di ritornare nelle loro terre d’origine. Ma appare anche nella loro preoccupazione che la crescente visibilità della violenza quotidiana di Israele contro i palestinesi – grazie alla rivoluzione digitale e all’attivismo palestinese – possa portare gli osservatori internazionali a mettere in discussione tutte le politiche di Israele e, forse, le sue stesse fondamenta.
Questa paura spinge i sionisti liberali a criticare il governo di coalizione di destra di Netanyahu. Come possono sostenere la narrativa di Israele come stato democratico ed ebraico se annettono l’intera Palestina colonizzata? Pertanto, il principale pericolo del nuovo regime israeliano per il sionismo liberale è che esso lo smascheri come il mito fasullo che è. In altre parole, il nuovo regime israeliano accompagna le pratiche di eliminazione con un’onesta ammissione dell’aspirazione che sta dietro a queste pratiche – come quando il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha invitato lo Stato israeliano a “spazzare via” la città cisgiordana di Huwara – smantellando così la patina di politiche democratiche e progressiste che i sionisti liberali hanno cercato di costruire per decenni.
Nel tentativo di salvare quella patina, i sionisti liberali hanno risposto protestando contro l’attacco a Huwara usando il linguaggio dell'”anti-occupazione“, dei “coloni estremisti” e persino del “terrore ebraico“. Ma continuano a ignorare che le terre che chiamano “Israele propriamente detto” – da cui portano avanti le loro proteste – sono state stabilite come “israeliane” dalla stessa struttura di violenza coloniale che cerca di cancellare Huwara.
Nel migliore dei casi, il sionismo liberale si colloca all’interno di una politica liberale multiculturale che vede le fondamenta delle politiche coloniali come forse tragiche, ma sostanzialmente solide e orientate al progresso e alla civiltà. In questo senso, si unisce a una lunga lista di apologeti dei progetti coloniali occidentali, nascondendone i fondamenti e le strutture e quindi emarginando ed eliminando le alternative a tali strutture. Se oggi le politiche progressiste non considerano il progetto antirazzista come un progetto che deve necessariamente essere decoloniale e impegnato a smantellare le strutture del colonialismo moderno, allora non sono affatto politiche progressiste.
La de-sionizzazione è l’unica strada da percorrere
Il sionismo liberale è un’ideologia che fornisce una copertura alla conquista coloniale della Palestina in nome della razionalità, del progresso, dell’uguaglianza, della tolleranza, della democrazia e persino dell’antirazzismo. È quindi fondamentale contrastare questa ideologia in tutti gli spazi in cui opera. Ciò significa rifiutare il sionismo liberale come “partner di pace” e insistere sulla liberazione decoloniale palestinese per l’intera Palestina colonizzata e per i palestinesi ovunque si trovino.
Un quadro di liberazione decoloniale è vantaggioso anche per gli ebrei israeliani nel lungo periodo. È a questo che si riferisce la de-sionizzazione: inizia con il riconoscimento da parte degli ebrei israeliani che il sionismo non ha mai risolto la “questione ebraica” in Europa, ma piuttosto l’ha interiorizzata e ha replicato in Palestina il progetto coloniale occidentale; e termina in un luogo in cui gli ebrei israeliani non sarebbero più “nativi o coloni nella Palestina storica”, ma piuttosto “immigrati… graditi residenti in una patria storica”. È importante notare che questo concetto implica un nuovo modello dello stato, del nazionalismo e della sovranità, lontano dai modelli coloniali occidentali.
Al di là della Palestina colonizzata, il sionismo liberale deve essere confutato in tutti i partiti e le istituzioni politiche, nei media e nei collettivi della società civile. Dagli ambienti degli attivisti a quelli del pubblico generale, le persone devono formare coalizioni intersettoriali impegnate nella giustizia decoloniale. Questi collettivi devono organizzare attività come lezioni comunitarie, petizioni, campagne di invio di lettere e così via, al fine di avere una strategia per affrontare l’inevitabile reazione sionista.
Queste coalizioni devono seguire cinque pratiche principali per garantire la de-sionizzazione:
- Contrastare l’ideologia con la realtà: giornalisti, studiosi e attivisti dovrebbero rifiutare le posizioni delle organizzazioni sioniste liberali, come J Street, riguardo alla sovranità su Gerusalemme, al significato di autodeterminazione palestinese e così via. I sionisti liberali non vogliono affrontare il tema della liberazione decoloniale dei palestinesi, quindi è necessario spostare la conversazione su questo argomento e rifiutare la normalizzazione del colonialismo d’insediamento israeliano.
- Rifiutare l’arma dell’antisemitismo: il sionismo liberale non ha risposte sostanziali alle critiche decoloniali e quindi, quando viene sollecitato, risponde con l’accusa di antisemitismo. Le istituzioni e le organizzazioni devono rifiutare le definizioni di antisemitismo che incorporano in qualsiasi modo la questione della Palestina (da destra, l’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), da sinistra, la Dichiarazione di Gerusalemme sull’Antisemitismo).
- Mettere al centro la narrativa palestinese: non è sufficiente ascoltare le storie di sofferenza dei palestinesi. Il discorso pubblico deve incentrarsi su storie palestinesi che spieghino perché e come i palestinesi soffrono e, soprattutto, forniscano una piattaforma per le aspirazioni palestinesi alla liberazione. Per consentire questo cambiamento, è necessario fare pressione sui media affinché sfidino lo status quo di censura e silenzio della narrativa palestinese.
- Enfatizzare l’antirazzismo decoloniale: gli uffici per l’Equità, la Diversità e l’Inclusione (EDI) sono diventati molto diffusi nelle istituzioni politiche e sociali. Però molti di essi operano sulla base di un antirazzismo corporativo, multiculturale e liberale, e ritengono che le critiche decoloniali a Israele siano antisemite e quindi non trovino posto negli spazi antirazzisti. Opporsi all’iniziativa corporativa dell’EDI è necessario non solo per la liberazione dei palestinesi, ma per la liberazione di tutti coloro che continuano a subire la violenza del colonialismo moderno.
- Smantellare il sionismo: Il sionismo non può portare alla liberazione decoloniale. Che sia liberale o di destra, sionismo vuol dire sovranità ebraica esclusiva sulla terra, che stabilisce Israele come potere supremo e indivisibile. Questo significa necessariamente la continua espulsione dei palestinesi dalle loro terre e l’eliminazione della sovranità indigena palestinese. Solo lo smantellamento della sovranità coloniale sionista può portare a un progetto davvero decoloniale e antirazzista. Perché ciò sia possibile, le comunità ebraiche e israeliane – in nome delle quali gli interessi sionisti pretendono di parlare – devono partecipare al progetto di de-sionizzazione.
M. Muhannad Ayyash è nato e cresciuto a Silwan, Gerusalemme, prima di immigrare in Canada, dove ora è professore di sociologia alla Mount Royal University. È autore di A Hermeneutics of Violence (UTP, 2019). Ha pubblicato diversi articoli su riviste come Interventions, European Journal of International Relations, Comparative Studies of South Asia, Africa and the Middle East e European Journal of Social Theory. Ha scritto articoli di opinione per Al-Jazeera, The Baffler, Middle East Eye, Mondoweiss, The Breach e Middle East Monitor. Attualmente sta scrivendo un libro sulla sovranità del colonialismo d’insediamento in Palestina/Israele.
Traduzione a cura di AssoPacePalestina
Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
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