di Sylvain Cypel,
Orient XXI, 17 aprile 2023.
Nel 1959, Shmouel Oswald Rufeisen, ebreo polacco, arriva in Israele. Lui è anche… un sacerdote cattolico, essendosi convertito al cristianesimo durante la Seconda Guerra Mondiale, nella quale si era comportato eroicamente per salvare gli ebrei dai nazisti in Polonia. Si presenta come un “monaco cattolico ed ebreo“, definendosi cristiano per religione ed ebreo per “nazionalità”. Il termine “nazionalità” deve essere inteso qui nel suo significato predominante nell’Europa orientale dal XIX secolo, dove non è legato alla cittadinanza, ma si riferisce al gruppo etnico di origine. Si era cittadini dell’impero austro-ungarico o zarista, anche se si era di nazionalità rutena, kazaka, tedesca o ebraica, ecc. Rufeisen chiede quindi il “diritto al ritorno”, secondo una legge del 1950 che concedeva automaticamente la cittadinanza israeliana a qualsiasi ebreo che ne facesse richiesta. Ma questo diritto gli viene negato. Rufeisen si rivolgerà alla Corte Suprema, dove perderà di nuovo. “Qualsiasi ebreo che si converte ad un’altra religione perde il suo accesso preferenziale alla cittadinanza israeliana“, sentenzierà il tribunale. Padre Daniel fondò poi una comunità di San Giacomo a Haifa.
Il caso, oggi dimenticato, è significativo sotto diversi aspetti. Innanzitutto, per ciò che racconta sul rapporto di Israele con l’ebraismo: un ebreo ha una sola identità, dove nazionalità e religione sono una cosa sola. È anche indicativo del tipo di nazionalismo che contiene. Nell’Europa orientale, dove è nato il sionismo, gli ebrei erano i più oppressi e discriminati di tutti. Molti di coloro che lottavano per l’emancipazione si rivolsero a una qualche versione del socialismo. Ma altri optarono per un nazionalismo paragonabile a quello di altri popoli: un nazionalismo etnico. Il sionismo era un’espressione di questo nazionalismo che adottò fin dalla sua nascita. È questo tipo di nazionalismo che, centoventi anni dopo, ha portato all’approvazione della legge israeliana sullo Stato-nazione del popolo ebraico, che fissa nel diritto israeliano l’esistenza di due categorie: i cittadini con pieni diritti (gli ebrei) e coloro che ne sono parzialmente privati, i non ebrei –in altre parole, i palestinesi di Israele, che tuttavia rappresentano il 21% della popolazione.
Musulmani, cristiani, circassi, drusi…
Da quel momento in poi, lo status individuale concesso dai governanti di Israele fin dalla creazione dello Stato si è basato sull’inserimento di tre nozioni diverse nei documenti amministrativi (carta d’identità e stato civile): cittadinanza, nazionalità (nel senso di etnia) e religione. La combinazione dei tre elementi permetteva di ridurre il peso della cittadinanza. E offriva un altro vantaggio: unire gli ebrei israeliani con un’identità comune –sono tutti israeliani come cittadinanza e sono ebrei come nazionalità e religione–, mentre gli altri si disperdono in identità multiple. Anche tutti gli israeliani sono stati separati in arabi e non arabi – i cittadini di origine circassa, ad esempio, sono musulmani ma non arabi; così come si distinguono gli israeliani musulmani da quelli cristiani; e si può anche differenziare lo status di specifiche popolazioni arabe: i beduini, i drusi e altri di minore importanza (gli armeni, ad esempio).
La concezione etnicista ha quindi permesso allo Stato, per decenni, di riferirsi a un gruppo presumibilmente coerente –gli ebrei israeliani– e ad altri presumibilmente privi di un’identità collettiva, definiti “minoranze” (la popolazione ebraica li chiamava semplicemente “gli arabi“). In Israele esiste da tempo un “ministro delle minoranze”. I palestinesi non “esistevano”, e tantomeno esisteva un’identità nazionale palestinese. Questa finzione discorsiva è durata 40 anni. La prima Intifada palestinese del 1987 ha iniziato a eroderla. Sei anni dopo, gli Accordi di Oslo, in cui Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina si sono “riconosciuti reciprocamente“, hanno amplificato il processo. Oggi, il termine “palestinesi” è di uso comune in Israele, anche se l’estrema destra lo rifiuta ancora.
Poi sono avvenuti dei cambiamenti. La religione è sempre stata inclusa nei registri dello stato civile, ma il riferimento alla nazionalità è stato rimosso dalle carte d’identità nel 2002 da un Ministro degli Interni ultra-religioso che ha rifiutato di concedere lo status di “ebreo” alle persone convertite da rabbini non “ortodossi” (cioè non ultra-conservatori). Ma anche in questo caso, la nazionalità-etnia è ancora presente nei registri dello stato civile. Nonostante l’uso ormai frequente in Israele di termini collettivi come “arabi israeliani” o “palestinesi di Israele”, la vecchia nomenclatura rimane in vigore nell’amministrazione.
Sylvain Cypel è stato membro del comitato editoriale di Le Monde, e in precedenza direttore editoriale di Courrier international. È autore di Les emmurés. La société israélienne dans l’impasse (La Découverte, 2006) e L’État d’Israël contre les Juifs (La Découverte, 2020).
Traduzione a cura di AssoPacePalestina
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