La triste verità dietro la “felicità” israeliana

di Asaf Calderon,  

+972 Magazine, 17 aprile 2023. 

Come può un Paese che amministra una violenza quotidiana e soffre di profonde disuguaglianze essere classificato come il quarto più felice del mondo?

Israeliani con la loro bandiera mentre partecipano alle celebrazioni per il 71° Giorno dell’Indipendenza di Israele. Gerusalemme, 8 maggio 2019. (Hadas Parush/Flash90)

Ecco una strana notizia: nel Rapporto Mondiale sulla Felicità 2023, Israele è al quarto posto tra i paesi più felici del pianeta. Siamo superati solo da finlandesi, danesi e islandesi e lasciamo nella polvere olandesi, svedesi e norvegesi. È un risultato impressionante in qualsiasi momento, e lo è ancora di più adesso che centinaia di migliaia di israeliani sono in strada per dimostrare quanto siano insoddisfatti del loro attuale governo di estrema destra.

A prima vista, è notevole che un Paese i cui cittadini sono costantemente esposti alla violenza (e la somministrano), che soffre di profonde disuguaglianze economiche e razziali e che si trova ad affrontare un’instabilità senza precedenti – un Paese che il suo stesso presidente ha recentemente dichiarato essere “sull’orlo dell’abisso” – sia riuscito a entrare nella metà superiore della lista. Come si spiega tutto ciò?

Potrebbe essere, come suggerito dal Jerusalem Post, che “le persone possono essere personalmente felici e soddisfatte, anche se a livello nazionale possono sentire che ci sono nuvole scure da tutte le parti”? Forse, se il sole è abbastanza luminoso e l’hummus abbastanza delizioso, la felicità può essere trovata anche sull’orlo dell’abisso? Forse. Forse il tentativo di misurare oggettivamente e quantitativamente la felicità nazionale sulla base di un campione di piccole dimensioni è un’impresa inutile, e questa apparente anomalia dimostra proprio questo? È più probabile. Ma i risultati sono comunque interessanti e meritano un approfondimento.

Prima di tutto: come la democrazia israeliana, la felicità di Israele è limitata ai suoi cittadini – poco più di nove milioni di persone, di cui circa il 75% ebrei e il 20% palestinesi. I palestinesi non cittadini di Israele nei territori occupati, che sono quasi cinque milioni, sono stati intervistati separatamente e si sono classificati al 99° posto, più felici dei marocchini ma più infelici degli iracheni. Il fatto che ci sia un’enorme discrepanza tra i cittadini israeliani e i palestinesi occupati non è una sorpresa, ma vale comunque la pena sottolinearlo.

Sebbene la maggior parte degli israeliani non sia colpita dalle turbolenze politiche e sociali che li circondano, come avviene invece per le loro controparti palestinesi, non per questo la loro vita personale ne è immune. Come potrebbe? Gli israeliani sono obbligati a prestare servizio in un esercito di occupazione – un’esperienza estenuante nel migliore dei casi e profondamente traumatizzante nel peggiore.

Donne musulmane palestinesi attraversano il checkpoint di Qalandiya, fuori dalla città di Ramallah, in Cisgiordania, per partecipare alla preghiera del venerdì del mese di digiuno del Ramadan presso la Moschea di Al-Aqsa. Gerusalemme, 15 aprile 2022. (Flash90)

Anche la violenza continua a essere terribilmente comune nella vita civile, sotto forma di crimini, brutalità della polizia, abusi domestici e razzi transfrontalieri. I salari sono bassi, il costo della vita è alto (Tel Aviv è stata recentemente classificata dall’Economist come la città più costosa del mondo) e il divario tra i pochi ricchi e la maggioranza in difficoltà è in continua crescita. Il razzismo istituzionalizzato contro i Mizrahim e altri gruppi ebraici emarginati, per non parlare dei cittadini palestinesi, è quanto mai pernicioso.

I problemi sono numerosi e profondi e gli israeliani di solito non esitano a lamentarsene. Quindi l’idea che gli israeliani vivano tra i più felici del mondo è semplicemente assurda.

Ma c’è un problema: lo strumento principale utilizzato per misurare la felicità nel rapporto, la scala di Cantril, in realtà non misura la felicità nel vero senso della parola. Agli intervistati viene chiesto di classificare la propria vita su una scala da 1 a 10, dove 1 indica la peggiore vita possibile e 10 la migliore. L’indice di felicità misura quindi l’immaginazione: la capacità di immaginare una vita migliore viene valutata rispetto alla capacità di immaginarne una peggiore.

È in questo esercizio di immaginazione che gli israeliani hanno ottenuto il quarto punteggio, e non sorprende che si siano piazzati in alto in questo test. Per anni, il discorso politico dominante in Israele è stato un esercizio di soffocamento dell’immaginazione. In effetti, l’intera carriera politica del Primo Ministro Benjamin Netanyahu si è basata sull’idea che, nonostante la vita sotto il suo governo sia oggettivamente terribile, è in realtà la migliore che si possa desiderare.

L’utopia non c’è più

Non è sempre stato così. Il sionismo è nato come progetto utopico e per le prime generazioni ha suscitato l’immaginazione di sognatori che abbracciavano tutto lo spettro politico, dai comunisti ai revisionisti di destra.

Giovani coloni sionisti tedeschi ballano la hora nel kibbutz Ein Harod, 3 gennaio 1936. (Zoltan Kluger/GPO)

La maggior parte di questi sogni è stata poi abbandonata, ognuno per le proprie ragioni. Alcuni sogni potrebbero essere falliti perché costruiti su contraddizioni. La progressiva scomparsa dei kibbutzim, ad esempio, è notoriamente romanzata come un sogno perduto, ma quelle presunte realizzazioni di utopie socialiste erano in realtà comunità recintate che offrivano il socialismo quasi esclusivamente agli ebrei europei e, attraverso la concessione di terre, espropriavano non solo la popolazione palestinese indigena, ma anche le “delopment towns” [città di sviluppo] decisamente non utopiche costruite per i cittadini Mizrahi.

Oggi, l’unica visione utopica ancora forte è il sionismo messianico del rabbino Abraham Isaac Kook, che subì un’evoluzione fascista per mano dei seguaci del rabbino estremista americano-israeliano Meir Kahane. Il sogno di un regno halakhico, di un Terzo Tempio sul Monte del Tempio/Haram al-Sharif di Gerusalemme e di una vittoria “decisiva” sui palestinesi è visto da molti esponenti dell’estrema destra come più vicino di quanto non sia mai stato, il che li rende davvero molto felici. Gli aderenti a questa visione – nella gioventù delle colline, nella Knesset e nel Ministero della Sicurezza Nazionale – non mancano certo di immaginazione.

Anche se un tempo numerosi, gli idealisti utopici non sono mai stati la maggioranza. Per la maggior parte degli israeliani, la promessa centrale del sionismo era semplicemente quella di creare un rifugio sicuro per gli ebrei del mondo. I miei nonni comunisti, ad esempio, sono diventati sionisti dopo essere sopravvissuti all’Olocausto perché il sionismo aveva promesso loro quel rifugio sicuro. I loro figli sono rimasti sionisti anche quando hanno abbandonato il sogno del comunismo, essenzialmente perché credevano in quella promessa di sicurezza, per lo meno.

Ma la sicurezza non è mai arrivata. Nel 1948 fu dichiarato lo stato di emergenza, che non è stato mai revocato, nemmeno per un solo giorno. Le guerre si susseguono, con periodi di relativa stabilità visti come semplici intervalli tra l’ultima escalation e la successiva. Invece di mandare i nostri figli all’università, li mandiamo alla polizia e a tormentare una popolazione occupata, dove rischiano lesioni fisiche e morte e dove il danno morale è garantito.

Quando stavo crescendo, mi dicevano ancora che questa è una situazione temporanea, che la pace arriverà, che è solo questione di tempo –forse non dovrò nemmeno fare il militare quando sarò grande, chissà. Oggi ai bambini non viene più insegnato questo. Lo status quo è tutto ciò che abbiamo.

Un simbolo eloquente di ciò è stato l’emergere dell’idea di “gestire il conflitto” o, più recentemente, di “ridurre il conflitto“. Quasi nessuno in Israele oggi crede che la violenza costante tra israeliani e palestinesi finirà mai. Non c’è soluzione; al massimo, possiamo contenere la violenza mantenendo le vittime israeliane a un tasso accettabile, reprimendo le rivolte palestinesi quando inevitabilmente emergono e “falciando periodicamente il prato” a Gaza e nel Libano meridionale per tenere sotto controllo Hamas e Hezbollah.

Soldati israeliani festeggiano durante la cerimonia ufficiale del 68° Giorno dell’Indipendenza di Israele sul Monte Herzl. Gerusalemme, 11 maggio 2016. (Hadas Parush/Flash90)

Questa routine deprimente e prevedibile è tutto ciò che un’intera generazione di giovani israeliani ha conosciuto. Con lievi variazioni, questa è la politica non solo di Netanyahu ma anche dei suoi principali rivali “centristi”, Benny Gantz e Yair Lapid. La promessa di sicurezza del sionismo si è trasformata nella promessa di Netanyahu che “vivremo per sempre con la spada in mano”.

È difficile stabilire con esattezza quando questo estremo soffocamento dell’immaginazione israeliana sia iniziato: forse con l’affermazione dell’allora primo ministro Ehud Barak che “non c’è un partner palestinese per la pace” nei primi anni 2000; o forse con l’assassinio di Yitzhak Rabin nel 1995. La soluzione dei due Stati, per quanto imperfetta e conservatrice, permetteva almeno agli israeliani di immaginare un futuro di pace. Non c’è quasi nessuno in Israele che ci creda ancora seriamente. Con la morte dei due Stati, e senza un’alternativa immediatamente praticabile (una soluzione a uno Stato in cui ogni persona tra il fiume e il mare riceve uguali diritti è troppo radicale per essere presa in considerazione dalla maggior parte degli israeliani), il misero status quo è stato ampiamente accettato come l’unica realtà possibile.

In seguito a questo sviluppo, il “conflitto” è gradualmente scomparso dai notiziari. È difficile spiegare quanto poco interessi all’israeliano medio la politica del governo nei territori occupati, a meno che non sia direttamente collegata alla “sicurezza” o al “terrorismo”. Anche l’imponente (e, nelle sue frange estreme, positivamente eroico) movimento di protesta contro la revisione giudiziaria di Netanyahu è intrinsecamente conservatore, poiché cerca di “salvare la democrazia israeliana”, una cosa che chiaramente non è mai esistita per cinque milioni di sudditi dello Stato.

Anche quando accendono fuochi nelle strade, gli israeliani fanno fatica a immaginare un futuro migliore. Tutt’al più, riescono a immaginare solo un futuro più o meno uguale.

Asaf Calderon è un attivista ebreo-israeliano che vive a New York.

https://www.972mag.com/happiness-report-israel-zionism/

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

.

Lascia un commento