Come questa famiglia palestinese si sta proteggendo dagli attacchi continui dei coloni

di Gideon Levy e Alex Levac,

Haaretz, 15 aprile 2023. 

La famiglia Eid si è fortificata contro i coloni predoni che vengono dall’avamposto di Givat Ronen. La loro casa è dotata di un sistema di allarme, di finestre pesantemente sbarrate, di telecamere di sicurezza e di una pesante porta d’ingresso in ferro. Una vita sotto il terrore.

Manal e Bashar Eid nella loro casa del villaggio di Burin, questa settimana. “Non ci arrenderemo mai”.Alex Levac

L’ultima casa di Burin è in realtà la penultima. A un certo punto la paura ha spinto la famiglia Suheib a non usare, dopo il tramonto, la propria casa, che era l’ultima, prima della montagna; solo durante le ore di luce osano trascorrere del tempo al suo interno. La casa della famiglia Eid è a pochi minuti di cammino, in direzione del resto del villaggio. Gli Eid si rifiutano di cedere, di abbandonare la loro casa ben tenuta, di fronte alle continue intimidazioni dei coloni della montagna.

“Una bella casa”, diciamo ai padroni di casa quando entriamo.

“Bella, ma non sicura”, risponde il proprietario con un sorriso amaro.

La visita alla residenza di Eid inizia con la presentazione dei mezzi di difesa e dei dispositivi di allarme che la famiglia ha installato durante gli anni in cui si sono verificati i pogrom dei coloni. Come se la decantata unità cibernetica 8200 di Israele fosse stata trapiantata in un villaggio palestinese appena fuori Nablus, nel nord della Cisgiordania. Il padre della famiglia, Bashar Eid, che si è autonominato coordinatore della sicurezza, si ferma sulle scale che portano al tetto per mostrarci gli schermi che mostrano le registrazioni delle sue telecamere di sicurezza. Uno schermo diviso in due permette la vista di tutti gli angoli esterni della casa. Qui è dove entrano i predoni, qui è il loro percorso d’assalto e qui è da dove arrivano. La memoria del telefono di Eid è piena di centinaia di filmati che documentano gli attacchi alla casa e ai suoi dintorni negli ultimi anni.

Bashar Eid sul suo tetto. Alex Levac

Eid trascorre parte del suo tempo, di giorno e di notte, sul tetto. È la sua torre di guardia. Da qui le case del malefico avamposto di Givat Ronen, eretto illegalmente alla fine degli anni ’90, sono visibili sulla montagna di fronte, un centinaio di metri a est, in linea d’aria. Non lontano si trova l’insediamento di Yitzhar.

Anche il tetto della casa degli Eid è irto di dispositivi di sicurezza: potenti fari che illuminano un’ampia area intorno alla casa, telecamere e un sistema di allarme che ora il capofamiglia attiva per noi: una spaventosa sirena antiaerea oscillante. Tutte queste apparecchiature sono installate tra serbatoi d’acqua, antenne paraboliche e stenditoi. Vita di campagna.

La vista dal tetto evoca uno spettacolare paesaggio quasi toscano di uliveti in collina, campi arati e alberi rigogliosi. Quasi un ettaro di uliveti di proprietà privata, già parzialmente saccheggiati quando fu costruito l’avamposto di Givat Ronen e presi di mira ancora oggi, mentre gli Eid lottano per rimanere sulla loro terra. Non passa anno senza che alcuni degli ulivi della famiglia vengano incendiati, e non c’è raccolto in cui qualche membro della famiglia non venga ferito, insieme ai volontari – alcuni dei quali israeliani – che arrivano per aiutare gli Eid. Anche il raccolto viene saccheggiato dai coloni. Tutto questo è documentato nei video di Eid.

Passiamo ora alle finestre della casa a due piani: sbarre di ferro in mezzo a grate metalliche a maglie fitte, destinate a proteggere la famiglia dalle raffiche di pietre che le vengono lanciate contro. La porta d’ingresso è in metallo pesante, così come la serratura.

Il sistema di sicurezza della famiglia Eid. Alex Levac

Questa è ‘casa dolce casa’ per la famiglia Eid: Bashar, 50 anni, ufficiale in pensione della polizia palestinese, ha trascorso 25 anni nelle forze dell’ordine, parte dei quali come guardia del corpo dell’allora primo ministro Rami Hamdallah. Per arrotondare lo stipendio, si occupava della ristrutturazione di case e di lavori agricoli per altri abitanti del villaggio. Ma ora non è più in grado di lavorare, essendo stato ferito in uno dei pogrom dei coloni. Manal, sua moglie, ha 38 anni. Hanno tre figlie – Zein, 17 anni, Zumrud, 15 anni, e Jena, 14 anni, sorridenti e timide studentesse delle superiori. È il Ramadan, tutti sono a casa. Due piccole sculture “LOVE” sono appoggiate sul mobile del soggiorno.

Hanno iniziato a costruire la loro casa cinque anni fa, mentre nel frattempo vivevano in un’altra casa più piccola del villaggio. La violenza è scoppiata il primo giorno, subito dopo che gli operai avevano lasciato il cantiere. Quando Eid è arrivato la mattina dopo, ha trovato solo mattoni spaccati e ha visto che non c’era più l’attrezzatura degli operai. Sulle rocce intorno erano state scritte frasi di odio in ebraico. Burin è un villaggio collinare, situato anche vicino all’insediamento di Yitzhar.

L’ultimo attacco agli Eid è avvenuto poco più di un mese fa, la stessa notte del pogrom nella vicina città di Hawara.

Givat Ronen, noto anche come Sneh Yaakov – fondato nel 1999 in memoria di un colono che era stato ucciso lì vicino qualche anno prima – è un’escrescenza selvaggia dell’insediamento di Har Bracha, a nord-ovest. Se Givat Ronen fa notizia, è quasi sempre per la violenza e la delinquenza dei suoi abitanti.

Bashar Eid in ospedale dopo essere stato ferito. Alex Levac

L’attacco più grave alla casa e alla famiglia è avvenuto nel giugno 2022. Eid fu ferito e costretto a letto per un certo periodo nell’ospedale universitario An-Najah di Nablus. Una fotografia di quel periodo lo ritrae con il braccio ingessato e la gamba e la testa fasciate, appoggiato a una stampella. Era stato colpito dalle pietre dei coloni e poi picchiato, in presenza delle figlie e della moglie, mentre giaceva inerme sulla strada vicino a casa sua. In un altro attacco, un colono ha cercato di trascinare la figlia Zumrud, quando era più piccola, sul suo cavallo. In un’occasione i coloni hanno gridato a Bashar: “Faremo a te e alle tue figlie quello che abbiamo fatto alla famiglia Dawabsheh a Duma”, riferendosi all’incendio nel 2015 di una casa palestinese che causò tre vittime.

Ogni anno, dice Eid, alcuni ulivi vanno distrutti a causa di incendi dolosi. Anche la sua auto è stata incendiata qualche mese fa dai coloni, un incidente pienamente documentato dalle telecamere di sicurezza. Il filmato mostra un colono che arriva con un recipiente di benzina, innaffia l’auto malridotta e poi la incendia. A Burin c’è un’autopompa dei vigili del fuoco, ma i coloni hanno impedito che raggiungesse il sito, aggiunge Eid. È riuscito a salvare e riparare l’auto, che ora ha delle superfici di plastica al posto dei vetri, che sono stati spaccati dai coloni durante un attacco più recente. I coloni, dice, aspettano che in estate i campi vicino alla casa si asciughino e poi danno fuoco anche a quelli.

Quanti attacchi ci sono stati alla casa? Bashar non è in grado di dare un numero esatto. Ma, a parte due, tutti sono avvenuti in pieno giorno. I fine settimana sono particolarmente inclini alla violenza, dice, notando che il numero di razziatori fluttua da un incidente all’altro. Scendono sempre a piedi dalla cima della collina, lungo il sentiero tortuoso, brandendo bastoni e a volte anche pistole; poi attaccano sempre, spaccano e bruciano. Eccoli nei filmati: la maggior parte di loro sono giovani, alcuni sono mascherati, spesso indossano camicie bianche. Oh, benvenuta Regina Shabbat!

Le ragazze e Manal volevano andarsene già da tempo, ma Bashar non ne vuole sapere. “Questa è la mia casa”, dichiara alzando la voce. “I coloni devono andarsene, non io”.

L’auto della famiglia Eid incendiata.Alex Levac

Manal dice: “A volte penso che dovremmo prendere le bambine e trasferirci a casa della mia famiglia a Biddya”, una piccola città non lontana da Nablus, pochi chilometri a nord.

Da parte loro, le ragazze raccontano che i loro amici si rifiutano di andare a trovarle a casa a causa del pericolo che ciò comporta. In alcuni filmati di sicurezza si sentono le sorelle urlare terrorizzate durante un attacco. In altri, si sente il padre che le avverte: “Attenzione, ragazze, attenzione!”. La madre racconta che quando le figlie erano piccole, durante gli attacchi metteva la musica a palla per coprire i rumori esterni. A volte, aggiunge Manal, le ragazze si svegliano terrorizzate di notte e gridano che qualcuno ha bussato alle finestre della loro stanza, per poi scoprire che non c’è nessuno.

Uno degli abitanti del villaggio ha perso un occhio durante la raccolta delle olive della famiglia Eid. Un filmato mostra un colono che picchia furiosamente un volontario israeliano venuto ad aiutare la famiglia nella raccolta. Un altro filmato, girato attraverso la grata e le sbarre di una finestra, è davvero spaventoso. La notte del pogrom di Hawara, a febbraio, i coloni scesi a Burin si sono accontentati di prendere a sassate la casa degli Eid da lontano, forse perché avevano fretta di raggiungere Hawara (la città della Cisgiordania dove centinaia di coloni scatenati hanno incendiato case e veicoli e in generale hanno creato scompiglio, per vendicare l’uccisione di due fratelli israeliani). I coloni di Givat Ronen hanno preso parte in modo particolarmente attivo a quell’attacco, in cui è stato ucciso un palestinese, anche se naturalmente nessuno di loro è stato arrestato.

Alla domanda se hanno mai presentato una denuncia alla polizia, la famiglia risponde con assoluto stupore: “La polizia? La polizia israeliana?”. Ci sembra di aver fatto una domanda davvero stupida. Gli attacchi, sottolineano, vengono perpetrati sotto gli occhi dei soldati dell’Esercito Israeliano che sorvegliano Givat Ronen. Di solito i soldati arrivano sulla scena molto tardi, dopo il fatto, dando apparentemente il tempo agli scatenati di fare il loro lavoro prima di evacuarli, dice Eid.

Fuori fischia e sibila il vento, e noi siamo un po’ ansiosi. Ma la famiglia è tranquilla quando andiamo a trovarla il lunedì di questa settimana, probabilmente perché sa che i vicini non graditi partecipano quel giorno alla marcia dei coloni verso l’avamposto vuoto di Evyatar. Certo, è possibile che sulla via del ritorno facciano una visita di cortesia qui. Il sogno di Eid è quello di accumulare abbastanza denaro per costruire un muro intorno a tutta la casa, con l’ingresso costituito da un cancello di filo spinato. Ma ora che non può lavorare, non ha le risorse per portare a termine il progetto: la sua speranza è di trovare persone che lo aiutino.

“Non ci arrenderemo mai”, afferma e, giusto per sicurezza, fa scattare ancora una volta la sirena che suona e fa paura.

https://www.haaretz.com/israel-news/twilight-zone/2023-04-15/ty-article-magazine/.highlight/how-this-palestinian-family-is-protecting-itself-from-relentless-attacks-by-settlers/00000187-8213-d484-adef-e297336c0000 Inizio modulo

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

.

Lascia un commento