Proteste israeliane: lo scontro tra differenti visioni di insediamento coloniale

Apr 12, 2023 | Notizie, Riflessioni

di Mohamad Kadan,

Al-Jazeera, 12 aprile 2023.   

Le manifestazioni che durano da settimane in Israele riflettono il conflitto all’interno di una società di coloni su come gestire la ‘minaccia demografica’ indigena.

Una manifestazione contro il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il piano di revisione giudiziaria del suo governo. Tel Aviv, 1° aprile 2023 [Reuters/Ronen Zvulun]

Sono passate due settimane da quando il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha rinviato il controverso processo di riforma giudiziaria introdotto dal suo gabinetto. Il ritardo non ha avuto l’effetto desiderato e le proteste contro il suo governo sono continuate. Sabato, centinaia di migliaia di israeliani hanno manifestato, chiedendo che la proposta di legge venga eliminata del tutto.

Nei media occidentali, lo stallo di settimane tra i manifestanti sostenuti dall’opposizione israeliana e la coalizione di Netanyahu, composta da partiti di estrema destra e ultrareligiosi, è stato presentato come uno scontro tra i sostenitori della democrazia e le forze del fascismo.

Ma uno sguardo più attento alle motivazioni dei manifestanti e dell’establishment da una parte e del governo di estrema destra dall’altra, rivela l’ansia israeliana per la percezione di una ‘minaccia demografica’ palestinese e una lotta tra due approcci diversi per affrontarla.

Contenere la ‘minaccia demografica’

L’obiettivo del movimento sionista è sempre stato la colonizzazione di tutta la Palestina storica. Ma lo sforzo delle forze sioniste di ottenere il controllo di tutte le terre palestinesi, ha sempre incontrato una sfida importante: la demografia. La popolazione palestinese era fin dall’inizio la maggioranza all’interno dei confini della Palestina, per cui, nel tentativo di creare uno stato, i sionisti hanno condotto una brutale campagna di pulizia etnica, uccidendo 15.000 palestinesi ed espellendone con la forza almeno 750.000 tra il 1947 e il 1949.

Ma anche dopo la Nakba, il neonato Stato israeliano ha continuato a percepire i palestinesi come una minaccia demografica al suo progetto coloniale. Questa ansia è aumentata anche dopo l’occupazione di Gerusalemme Est, della Cisgiordania e di Gaza a seguito della guerra del 1967.

L’occupazione ha dato allo Stato israeliano l’opportunità di allargare in modo aggressivo la costruzione di insediamenti ebraici in nuove parti della Palestina storica, cosa che è stata accompagnata dalla soppressione violenta della popolazione palestinese autoctona. La brutalità israeliana ha alimentato la rabbia dei palestinesi, che alla fine è sfociata nella prima Intifada del 1987.

La violenza che ne seguì attirò molta attenzione internazionale sui crimini che Israele stava commettendo come potenza occupante e sulla sua costante violazione del diritto internazionale. Nel frattempo, Israele era afflitto da una crisi economica sempre più profonda e da un’escalation della lotta politica tra il Partito Laburista, che aveva monopolizzato il potere fin dalla fondazione dello Stato, e il suo sfidante di destra, il Likud.

La leadership laburista sentiva che non era in gioco solo la sua sopravvivenza politica, ma anche la sopravvivenza del progetto coloniale di Israele. Per questo motivo, fece ricorso a una grande trasformazione dei settori giudiziario ed economico, al fine di rilanciare il paese come una ‘democrazia liberale’ e riconquistare l’approvazione occidentale e quindi la legittimità internazionale.

Negli anni ’80, sotto la guida di Shimon Peres, il governo laburista aprì l’economia israeliana al mercato globale. Nel 1992, fece approvare dalla Knesset le cosiddette Leggi Fondamentali, che rafforzavano il valore normativo dei diritti umani e conferivano alla Corte Suprema il potere di rivedere la legislazione e di annullarla se in contrasto con queste Leggi Fondamentali. Questa è stata definita la “rivoluzione costituzionale” di Israele.

Nel 1993, il governo laburista formato da Yitzhak Rabin iniziò i negoziati con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) con la mediazione degli Stati Uniti e alla fine firmò gli Accordi di Oslo, che diedero inizio al cosiddetto ‘processo di pace’ tra israeliani e palestinesi e alla fine portarono alla creazione dell’Autorità Palestinese (AP).

L’approvazione delle Leggi Fondamentali ha permesso a Israele di dare una mano di bianco alla sua occupazione, presentandosi come un campione dei diritti umani, mentre gli Accordi di Oslo hanno coperto l’oppressione dei Palestinesi parlando di “negoziati di pace”. Inoltre, l’AP ha permesso allo stato israeliano di controllare la popolazione palestinese senza doversi preoccupare di fornirle i servizi di base.

In questo modo, il governo laburista ha controllato la ‘minaccia demografica’ palestinese e ha allentato la pressione internazionale per fermare gli insediamenti illegali nei territori palestinesi occupati.

Ma non tutti erano d’accordo con l’approccio del Labour. La destra israeliana si opponeva ai ‘colloqui di pace’ con l’OLP, sostenendo che qualsiasi compromesso con i palestinesi avrebbe messo in pericolo quella che consideravano la sovranità del popolo ebraico sulla Palestina storica. Le loro incitazioni contro gli avversari laburisti portarono all’assassinio di Rabin nel 1995.

Una guerra civile tra coloni?

Le attuali proteste contro la ‘riforma giudiziaria’ di Netanyahu –che mira ad annullare la ‘rivoluzione costituzionale’ del 1992– sono solo l’ultima versione della lotta tra la destra israeliana e l’establishment centrista costruito dal Labour. L’estrema destra israeliana vuole annullare il potere della magistratura per facilitare il proprio piano per affrontare il ‘problema demografico’.

Vuole accelerare la costruzione di insediamenti ebraici, annettere i territori palestinesi occupati e sfollare con la forza altri palestinesi dalle loro terre. Affinché tutto questo proceda a passo spedito, lo stato, la politica e le normative israeliane devono essere svincolate dai valori liberali e dalla retorica dei diritti umani.

L’approccio dell’establishment centrista non è quello di rifiutare la pulizia etnica, ma di controllarne il corso e di ammantarla con la retorica della legalità e del rispetto dei diritti umani. Dal loro punto di vista, la “soluzione” di destra è dannosa per il progetto coloniale israeliano. Secondo loro, indebolire il sistema giudiziario e, per estensione, l’ordine democratico percepito e lo Stato di diritto nel paese, potrebbe diminuire il soft power di Israele e minare la sua legittimità internazionale.

 L’establishment centrista teme di trasformare Israele in uno Stato paria e di portarlo all’isolamento, come accadde al Sudafrica dell’apartheid. Le proteste delle ultime 14 settimane sono un’espressione di questa paura.

Israele non è l’unico Stato coloniale ad aver affrontato un conflitto interno a causa di una “minaccia demografica” percepita.

Il suo più grande alleato, gli Stati Uniti, ha attraversato un simile sconvolgimento. Tra i fattori che hanno portato alla Guerra Civile americana del 1861-1865 c’erano le visioni contrastanti su come gestire la demografia nella federazione coloniale.

Le élite bianche americane erano profondamente preoccupate per il crescente numero di persone di colore portate come schiavi dall’Africa, che avrebbero potuto sfidare il dominio bianco. Mentre nel Nord pensavano che la soluzione al ‘problema’ fosse smettere di portare altri schiavi, nel Sud i proprietari di aziende agricole ad alta intensità di lavoro non volevano rinunciare alla manodopera gratuita fornita dalla schiavitù e pensavano invece che la sottomissione fisica fosse sufficiente.

Inoltre, mentre la pulizia etnica delle popolazioni indigene progrediva verso ovest, c’era disaccordo su come affrontare la costruzione e l’espansione degli insediamenti bianchi nelle terre appena occupate. Mentre i nordisti volevano che questo processo fornisse opportunità di lavoro solo per i bianchi, i sudisti volevano introdurre gli schiavi come forza lavoro.

L’elezione di Abraham Lincoln alla presidenza e i suoi piani per una legislazione che i sudisti ritenevano contraria ai loro interessi, incoraggiarono la gente del Sud a muoversi verso la secessione, che sfociò nella Guerra Civile.

Naturalmente, le circostanze in Israele oggi sono molto diverse da quelle degli Stati Uniti del XIX secolo, e un vero e proprio conflitto armato tra le due parti è del tutto improbabile. Data l’ideologia sionista comune, è probabile che nessuna parte cerchi la “secessione”.

Ma il conflitto attuale sta avendo un effetto destabilizzante sullo stato israeliano e potrebbe persino interrompere il suo progetto di insediamento coloniale. L’estrema destra che domina il governo di Netanyahu difficilmente rinuncerà al potere o al suo piano di disaccoppiare lo stato israeliano dai “valori liberali”; anche l’establishment difficilmente lascerà la presa sullo Stato israeliano, anche se la sua strategia sta fallendo sotto gli occhi di tutti.

Quanto più a lungo continuerà questo sconvolgimento, tanto più la facciata liberale dello stato israeliano sarà erosa e verrà in evidenza l’illegittimità della sua occupazione militare. Questo legittima ulteriormente la lotta palestinese e la campagna per l’abolizione del regime di apartheid israeliano. Mentre il progetto coloniale negli Stati Uniti è sopravvissuto allo scontro tra coloni, in Israele potrebbe non esserlo.

Mohamad Kadan è uno scrittore palestinese. Ha conseguito una laurea in Sociologia e Storia del Medio Oriente presso l’Università di Tel Aviv. Attualmente è uno studente laureato in Sociologia presso l’University College Dubin. È un membro fondatore del “Forum Edward Said” dell’Università di Tel Aviv.

https://www.aljazeera.com/opinions/2023/4/12/israeli-protests-the-clash-of-competing-settler-colonial-visions

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

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