Altreconomia, 11 Aprile 2023.
Attraverso l’analisi di numerosi documenti -dai verbali delle riunioni dei governi israeliani ai rapporti della Cia, dai diari personali alle autobiografie di politici e militari, fino a studi internazionali- lo storico israeliano ha ricostruito le fondamenta del “mega-carcere” imposto ai palestinesi. Una rassegna impietosa di abusi e distruzioni.
Leggere l’ultimo libro di Ilan Pappé in questi giorni spinge ancora di più a riflettere. Nella Pasqua cristiana, in pieno Ramadan, in Israele e nei Territori occupati la tensione è tornata altissima, dopo l’irruzione, a Gerusalemme, delle forze israeliane nella moschea di Al Aqsa, il terzo luogo sacro dell’Islam, con centinaia di fedeli musulmani lì riuniti, percossi e arrestati. Alle violenze sono seguiti lanci di razzi dalla Striscia di Gaza e dal Sud del Libano, a cui le forze armate israeliane hanno replicato bombardando entrambi i fronti. Tre israeliane e un italiano sono rimasti uccisi in due diversi attentati e il bilancio, secondo molti, è destinato a salire.
L’ultimo libro di Pappé, pubblicato da Fazi editore e tradotto da Michele Zurlo, si intitola “La prigione più grande del mondo” e questo, a una prima lettura, potrebbe trarre in inganno: siamo abituati a definire così la Striscia di Gaza, sotto embargo israeliano dal 2006, dopo che il partito islamista Hamas ha vinto le elezioni palestinesi e poi preso il potere a Gaza.
In realtà, lo storico israeliano -autore di oltre una dozzina di libri tra cui il bestseller tradotto in 15 lingue “La pulizia etnica della Palestina”- quando parla della più grande prigione al mondo non intende Gaza, o per lo meno non soltanto quella, ma un vero e proprio sistema strutturato di carcerizzazione, voluto dai vertici israeliani e imposto ai palestinesi, tutti, molto prima del 2006-2007. Le fondamenta del mega-carcere sarebbero state poste con la nascita del sionismo a fine ‘800, continuate nel 1948, con la creazione dello Stato di Israele e la prima guerra arabo-israeliana, ma soprattutto negli anni precedenti e successivi alla Guerra dei sei giorni, nel 1967, quando Israele conquistò i cosiddetti Territori occupati.
Attraverso l’analisi di numerosi documenti -dai verbali delle riunioni dei governi israeliani ai rapporti desecretati della Cia, dai diari personali alle autobiografie di politici e militari, fino a pubblicazioni e studi internazionali- Pappé esamina gli anni successivi al 1948, fino ad arrivare al primo decennio degli anni Duemila. In questo lasso di tempo, secondo lo storico, che analizza in particolare la situazione in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, sarebbero stati messi in atto due modelli di carcere, a seconda delle reazioni dei palestinesi e della fase storica attraversata: uno più morbido, a cielo aperto, e uno più duro di massima sicurezza. In entrambi, quelli che dovrebbero essere diritti fondamentali -come muoversi, lavorare, avere una casa, etc.- sarebbero stati di volta in volta concessi ai palestinesi o come ricompense per buona condotta, oppure negati, come punizioni, esattamente come avviene all’interno delle prigioni.
“Nel 1967 -scrive l’autore- Israele trasformò un milione e mezzo di individui in detenuti di un mega-carcere. Non si trattava però di una prigione riservata a pochi detenuti incarcerati a torto o a ragione: essa fu imposta a una società nella sua interezza”. Per farlo, Pappé dimostra come, già negli anni precedenti al 1967, fu progettata la gestione amministrativa, legale e militare della Cisgiordania, usando come modello quella già impiantata nelle zone arabe all’interno di Israele.
Partendo dal progetto della Grande Gerusalemme, passando dal sistema dei cunei -insediamenti ebraici di vario tipo per rompere la continuità territoriale palestinese- fino alla penetrazione progressiva e inarrestata della Cisgiordania, lo storico israeliano passa in rassegna le direttive e i decreti che regolano ogni aspetto della vita dei palestinesi. Ispirati dai regolamenti di emergenza mandatari emessi ai tempi della dominazione inglese, consentivano, per esempio, di dichiarare interi villaggi “aree militari chiuse” o autorizzare l’arresto amministrativo, cioè a tempo indeterminato, senza motivazioni né processo. Misure ancora oggi attuali.
Il sistema di carcerizzazione andrebbe letto nel contesto di un più complessivo, e mai interrotto, progetto di colonizzazione della Palestina storica. Il carcere sarebbe cioè uno degli strumenti che permettono quello strano fenomeno di “annessione-non annessione” portato avanti negli anni dai governi israeliani: ovvero di annessione della terra, ma non della gente che ci abita. Tutto questo per ottenere due grandi obiettivi: controllare il più possibile della Palestina storica, mantenendo al suo interno, però, una maggioranza ebraica.
Il sistema approntato nel 1967, tuttora in vigore, sottolinea Pappé, è un “organismo vivente assai difficile da combattere e smantellare, da qui dunque la comprensibile disperazione” dei palestinesi, sottoposti alla continua usurpazione dei loro diritti. Pappé parla anche della “pulizia del linguaggio” dei politici e dei media israeliani, sottolineando l’“ambiguità” voluta, nel dare, cioè, a parole, soprattutto verso l’estero, certi segnali, per poi di fatto comportarsi in maniera diametralmente opposta.
“Con la collaborazione del mondo mediatico e accademico -scrive- si è potuto preservare la validità morale e politica dell’ipotesi secondo cui la prigione a cielo aperto rappresenterebbe la miglior soluzione possibile del ‘conflitto’”. Questo sarebbe stato possibile anche grazie all’atteggiamento della comunità internazionale e in particolare degli Stati Uniti -con qualche eccezione- colpevoli di fatto di aver concesso carta bianca ai governi israeliani e alla loro politica espansiva sempre più aggressiva.
Per questo, secondo Pappé, mentre nella mega-prigione siamo già alla terza generazione di “detenuti”, si è potuto continuare a parlare di “processo di pace”, mentre la disumanizzazione e la parcellizzazione del territorio palestinese continuavano, rendendo di fatto impossibile la creazione di uno Stato indipendente di cui si è continuato a parlare in maniera illusoria, se non del tutto mendace. Passando in rassegna le tappe del cosiddetto processo di pace, e in particolare i famosi Accordi di Oslo, Pappé dimostra come fossero destinati a fallire nel momento stesso in cui venivano avviati.
Sebbene il maggiore interesse della colonizzazione sia sempre stata la Cisgiordania, “cuore della patria ebraica”, si analizza anche la condizione degli abitanti della Striscia di Gaza, sottoposti dal 2006 alla “massima forma di carcere duro”. L’autore ripercorre, inoltre, le relazioni tra il movimento dei coloni e i governi israeliani, a partire dal 1974, quando i primi divennero capaci di influenzare le politiche governative, fino a dettarle, dall’interno, come avviene ai giorni nostri.
Questo è un libro non sugli occupati ma sugli occupanti, il cui intento, precisa l’autore non è “demonizzare la società israeliana nel suo complesso, sebbene in parecchi diano il proprio sostegno al mega-carcere, mentre molti altri scelgono di chiudere un occhio”. È un elenco e un’analisi, spesso impietosa, che passa in rassegna la storia israeliana e chi nel 1967 istituì la macchina che ha dato origine al mega-carcere. Così come il racconto dei migliaia di funzionari, ufficiali, soldati, poliziotti che lo gestiscono, quelli che per Pappé sono servi della “burocrazia del male” e che in quanto “custodi della più grande prigione del Pianeta, operano costantemente abusi, disumanizzazioni e distruzioni. Quando anche l’ultimo di loro avrà ricevuto congedo dal proprio servizio, soltanto allora -conclude l’autore- sapremo che la mega-prigione della Palestina sarà stata abolita per sempre”. E forse le provocazioni e le violenze potranno avere fine.
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