Crisi israeliana: non si tratta di democrazia, ma di supremazia sionista liberale

Apr 4, 2023 | Notizie

di Sai Englert,

Middle East Eye, 28 marzo 2023.   

Israele è uno stato di apartheid basato sull’espropriazione dei palestinesi, con metà della popolazione che vive sotto il suo diretto dominio e a cui viene negato il voto. Alla faccia della preziosa democrazia liberale acclamata dai manifestanti.

Una manifestazione per il licenziamento da parte di Benjamin Netanyahu del ministro della Difesa che aveva chiesto una pausa nella revisione giudiziaria in corso. Gerusalemme, 27 marzo 2023 (Reuters)

Dopo tre mesi di mobilitazione in tutta la società israeliana, che ha visto centinaia di migliaia di manifestanti scendere in strada, il blocco ripetuto delle principali autostrade, il rifiuto di massa dei riservisti di presentarsi al servizio militare e un misto di azioni di sciopero e serrate dei datori di lavoro, il governo di Benjamin Netanyahu sembra – al momento in cui scriviamo – essere stato costretto a cedere almeno parzialmente alle richieste del movimento popolare.

Lunedì sera Netanyahu ha annunciato che avrebbe ritardato la controversa riforma dei tribunali del paese da parte del suo governo.

“Per senso di responsabilità nazionale, volendo evitare una frattura tra il nostro popolo, ho deciso di sospendere la seconda e la terza lettura del disegno di legge”, ha dichiarato all’assemblea legislativa del paese.

Dopo aver licenziato il suo ministro della Difesa, Yoav Gallant, per la richiesta di quest’ultimo di sospendere la riforma giudiziaria del governo, Netanyahu è sembrato perdere il controllo su una situazione già caotica. Le organizzazioni dei datori di lavoro e l’Histadrut –la più grande federazione sindacale israeliana e un pilastro storico del movimento coloniale sionista– hanno annunciato congiuntamente di voler fermare l’economia. Sono stati chiusi centri commerciali, università, ospedali e fabbriche, nonché l’unico aeroporto israeliano, oltre ad asili e scuole.

L’attuale crisi politica è emersa alla fine dello scorso anno, quando Netanyahu è stato rieletto Primo Ministro a capo di una coalizione di destra, che spaziava dal suo stesso partito Likud e dai suoi abituali alleati ultraortodossi, all’organizzazione più radicale della destra dei coloni.

Aggressivamente anti-palestinese e favorevole a un’espansione ancora più rapida degli insediamenti a Gerusalemme Est e in Cisgiordania, la coalizione ha promesso di fare lo stesso con i Palestinesi: violenza coloniale israeliana, furti e omicidi, ma tutto potenziato al massimo.

Allo stesso tempo, la coalizione ha posto al centro della sua narrazione il fatto che la sinistra israeliana ha controllato troppo a lungo le leve del potere dello stato e che il governo intende ora mettervi fine il più rapidamente possibile. Al centro di questo programma c’è una proposta di riforma giudiziaria che limiterebbe il potere dell’Alta Corte di Israele e la porrebbe sotto il controllo del Parlamento, cioè della coalizione al governo.

Assalto totale alla democrazia

In base a queste riforme, la nomina dei giudici diventerebbe una decisione parlamentare, mentre le sentenze emesse dalla corte potrebbero essere annullate da una maggioranza parlamentare. Questo, sostengono i critici della riforma, è un attacco totale alla democrazia israeliana e segnerebbe la fine del tanto acclamato ordine democratico liberale israeliano.

Ad aggiungere benzina al fuoco, il governo ha anche proposto e accelerato una serie di altre leggi che sono state ampiamente percepite –anche da commentatori di destra e sostenitori del governo– come palesemente auto-interessate. Dalla legalizzazione dei “regali” ai dipendenti pubblici all’abolizione del divieto di far parte del governo per i politici condannati, fino alla limitazione della possibilità per i giornalisti di pubblicare le registrazioni dei politici, la lista dei desideri del governo ha fatto infuriare un’opposizione già ostile.

Il fiore all’occhiello di questo pacchetto di riforme è stata la legge approvata con successo la scorsa settimana che rende l’incriminazione di un premier in carica una cosa così difficile che Netanyahu ha sostanzialmente l’immunità che lo protegge dai potenziali esiti del processo per corruzione in corso contro di lui.

La scena era pronta per uno scontro frontale tra i campi pro e contro Netanyahu nella società israeliana.

In effetti, i campi pro e anti-Netanyahu – o pro e anti coalizione di governo – sono il modo migliore per comprendere l’attuale lotta in Israele. Le idee tradizionali di destra e sinistra non colgono appieno le divisioni politiche di Israele in generale, e nel momento attuale in particolare.

Come già accennato, i principali partecipanti all’opposizione alle riforme del governo sono stati le organizzazioni dei datori di lavoro e i riservisti delle unità militari considerate “d’élite” in Israele, cioè addestrate alla battaglia.

Al centro di tutto ciò bisogna ricordare i piloti di caccia, gli stessi che si sono fatti un nome a livello internazionale bombardando regolarmente a tappeto gli abitanti della Striscia di Gaza con le orrende conseguenze che sono ben documentate.

Benny Gantz, leader dell’opposizione e figura chiave del movimento di protesta, ha fatto carriera politica grazie al massacro di Gaza del 2014, che egli ha supervisionato come capo di stato maggiore dell’esercito israeliano. A febbraio ha detto ai manifestanti che dovevano difendere l’Alta Corte perché: “Per decenni io vi ho custodito. E mentre io vi sorvegliavo, la corte sorvegliava me”.

Nessuno di questi gruppi, comunque, può essere considerato di sinistra.

Orrore diffuso

Allo stesso modo, le organizzazioni tradizionali del movimento operaio israeliano, come l’Histadrut o il Partito Laburista, sono state storicamente i principali artefici dell’espropriazione dei palestinesi.

Vale la pena ribadire, in mezzo agli attuali dibattiti, che è stato il movimento operaio israeliano –attraverso la sua federazione sindacale, i suoi kibbutzim [fattorie collettive], le sue milizie e il suo partito politico– a lottare per l’esclusione dei palestinesi dallo Stato e dal mercato del lavoro e a imporre il dominio militare ai cittadini palestinesi dello Stato fino al 1966, e ai palestinesi dei Territori Occupati dopo il 1967.

Sono stati questi stessi attori a espellere più di 700.000 palestinesi dalle loro case, a radere al suolo più di 500 villaggi e centri urbani e a impedire a tutti i rifugiati di tornare alle loro case in seguito alla guerra, in diretta violazione del diritto internazionale. È ancora una volta difficile considerare queste organizzazioni come particolarmente progressiste, o addirittura come votate alla difesa della democrazia.

Questa tensione è stata ben illustrata dal recente furore che ha circondato Bezalel Smotrich in una conferenza in Francia, in cui ha detto: “Non esiste una nazione palestinese. Non esiste una storia palestinese. Non esiste una lingua palestinese”.

Smotrich è l’attuale ministro delle Finanze, un colono della Cisgiordania e il primo politico civile (non un ufficiale militare) ad essere stato messo a capo del potere illegale di Israele sui territori palestinesi occupati.

I suoi commenti hanno suscitato un diffuso orrore – come è giusto che sia – per la loro palese negazione razzista del fatto più elementare dell’esistenza dei palestinesi. Persino gli Stati del Golfo, di solito così contenti di collaborare con Israele, hanno sentito il bisogno di chiedere agli Stati Uniti di intervenire.

Democrazia: per chi?

Tuttavia, le opinioni espresse da Smotrich non sono né nuove né sorprendenti.

Anzi, sono l’ovvio presupposto ideologico della colonizzazione in corso in Palestina da parte di Israele. Come recitava il vecchio slogan sionista: “Una terra senza popolo per un popolo senza terra”. Come è noto, Golda Meir –un’esponente dell’Histadrut e del Partito Laburista, la prima e unica donna premier di Israele– dichiarò nel 1969 che “i palestinesi non esistono”.

Un colono armato gesticola imperiosamente con un palestinese dopo gli attacchi dei coloni nel villaggio di Burin, nella Cisgiordania occupata. 25 febbraio 2023 (AFP)

Oltre a tutte le denunce della destra israeliana, sarebbe bene ricordare che la sinistra israeliana ha sempre condiviso idee simili. Il problema, a quanto pare, è il sionismo.

Riaffermare questi fatti storici fondamentali è importante perché ci permette di dare un senso alla forma – e ai limiti – dell’attuale movimento sociale in Israele.

Mentre una parte delle notizie internazionali sulle riforme si è concentrata sui loro potenziali effetti per i palestinesi –in quanto permetterebbero, ad esempio, la legalizzazione degli avamposti dei coloni contro le sentenze dell’Alta Corte– queste stesse considerazioni sono state praticamente assenti sia dal movimento che dal dibattito pubblico.

Invece, i manifestanti si sono avvolti nelle bandiere israeliane e si sono posizionati come difensori dello Stato e delle istituzioni che proteggono dagli illegittimi intrusi, le stesse istituzioni che hanno sviluppato e istituzionalizzato il regime di apartheid di Israele contro i palestinesi.

I pochi cittadini palestinesi d’Israele che hanno tentato, per convinzione ideologica, di intervenire nel movimento, si sono ritrovati esclusi, messi a tacere o censurati. Reem Hazzan, ad esempio, è stata invitata a parlare a una manifestazione anti-Netanyahu ad Haifa. Le è stato chiesto di presentare il suo discorso in anticipo agli organizzatori, che poi hanno preteso che lo modificasse.

Hazzan aveva programmato di dire ai manifestanti che c’è una connessione diretta tra il ridimensionamento delle istituzioni democratiche israeliane e l’occupazione militare in corso da decenni che è alla base della discriminazione razziale contro i palestinesi su entrambi i lati della linea verde. A quanto pare, non è questo l’obiettivo del movimento per la “democrazia”.

Supremazia ebraica

Hazzan non è la sola. L’esclusione sistematica dei palestinesi e il rifiuto di esaminare quale sia stata la realtà della “democrazia” israeliana per i milioni di palestinesi che vivono sotto il suo dominio –come cittadini di seconda classe o come sudditi del suo regime militare– è così grave che Tajammu (Balad), un importante partito politico palestinese che opera all’interno di Israele, ha rilasciato una dichiarazione che recita:

“Ignorare l’immediata connessione tra la continua violazione dei diritti del popolo palestinese su entrambi i lati della linea verde e il colpo di stato giudiziario ci fa capire che non è per una democrazia genuina e una cittadinanza sostanziale che le masse stanno attualmente scendendo in piazza, ma per la conservazione della formula “ebreo e democratico”, che mira a una democrazia procedurale fondata sul concetto di supremazia ebraica… Aspettarsi che l’opinione pubblica arabo-palestinese si mobiliti per questa lotta è più che infondato; è quasi un’insolenza”.

L’esclusione dei palestinesi e delle loro richieste è tanto più grave in quanto l’elezione del governo Netanyahu è stata intesa –giustamente– dai militari e dal movimento dei coloni come un’indicazione del fatto che ora essi hanno campo libero in Cisgiordania. Oltre 80 palestinesi sono stati uccisi dall’inizio dell’anno, con assalti militari che si sono intensificati in frequenza e violenza, in particolare nelle città di Jenin e Nablus.

L’esempio più eclatante dell’accresciuta fiducia che il governo ha accordato ai coloni è stato il pogrom nella città di Huwwara dove centinaia di coloni si sono scatenati per ore, attaccando i residenti, bruciando auto e distruggendo negozi e case.

Quasi 400 palestinesi sono stati feriti e uno ucciso. L’intero attacco si è svolto sotto l’occhio vigile dell’esercito. In risposta, Smotrich ha dichiarato: “Huwwara deve essere spazzata via. Penso che debba farlo lo Stato di Israele”.

È a dir poco inquietante che in un simile contesto centinaia di migliaia di persone scendano in piazza per salvare la separazione dei poteri, rifiutandosi di dare ascolto alle vittime del regime “liberaldemocratico” di Israele.

Quale democrazia liberale?

L’attuale movimento di protesta in Israele non è un movimento teso a trasformare la politica israeliana. Non è nemmeno un movimento per la democrazia. È un movimento che lotta per mantenere lo status quo israeliano: una società costruita sulla terra rubata e sull’esclusione continua dei palestinesi, che convalida il suo dominio coloniale attraverso un sistema legale che solo essa riconosce.

I gruppi sociali e le istituzioni che partecipano al movimento lo rendono del tutto chiaro, e i rapporti di potere che si ripetono al suo interno lo confermano ulteriormente. Ci si potrebbe chiedere se una società coloniale che legalizza le sue politiche espansionistiche attraverso l’Alta Corte sia migliore o più democratica, in qualsiasi senso, di una che lo fa attraverso il suo Parlamento.

Cosa significa parlare di Israele come una democrazia liberale, quando le sue istituzioni mantengono il blocco mortale su Gaza, continuano a espandere gli insediamenti in Cisgiordania, a Gerusalemme e sulle alture del Golan, e mantengono oltre 65 leggi specificamente rivolte ai palestinesi su entrambi i lati della linea verde?

Ha senso parlare di democrazia liberale in uno stato che non solo ha espulso centinaia di migliaia di futuri cittadini, ma continua a negare a loro e ai loro discendenti il diritto di tornare? Che tipo di democrazia –liberale o meno– si basa sulla negazione del diritto di voto a circa la metà della popolazione –circa sei milioni di persone– che vive sotto il suo diretto dominio?

Vale la pena ricordare che tutte queste decisioni sono state prese ed eseguite sotto l’occhio vigile dell’Alta Corte israeliana.

La verità è che non può esistere democrazia in condizioni di supremazia razziale. Un regime di apartheid è per definizione illiberale. La dominazione coloniale richiede il dominio forzato di un gruppo su un altro. La coalizione di Netanyahu potrebbe cadere. Potrebbe superare la tempesta. In ogni caso, la democrazia non uscirà vittoriosa tra il fiume e il mare.

Per ottenere un simile risultato sarebbe necessario mettere in discussione le idee più basilari del sionismo: uno stato democratico dovrebbe essere per e di tutti i suoi abitanti.

Questa lotta non è ora condotta nelle strade né dai sindacati, né dai soldati né dai datori di lavoro israeliani. La sua vittoria dipende, ed è sempre dipesa, dal raggiungimento delle richieste formulate tanto tempo fa dal movimento nazionale palestinese: liberazione e ritorno.

Sai Englert è docente di economia politica del Medio Oriente all’Università di Leida. È autore di “Settler Colonialism: an Introduction”. La sua ricerca si concentra sulle conseguenze del neoliberismo sul movimento operaio in Israele. Si occupa anche di colonialismo, trasformazione del lavoro e antisemitismo. È membro del comitato editoriale della rivista Historical Materialism e di Notes from Below.

https://www.middleeasteye.net/opinion/israel-crisis-not-about-democracy-liberal-zionist-supremacy

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

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