L’eredità coloniale della Gran Bretagna si fa sentire ancora oggi in Palestina

Mar 31, 2023 | Notizie

di Gabriel Polley,

The New Arab, 30 marzo 2023. 

Già prima del Mandato di Palestina e della Dichiarazione Balfour, l’intervento britannico in Terra Santa stava gettando le basi per l’occupazione di Israele, con conseguenze che si ripercuotono fino a oggi, scrive Gabriel Polley.

L’anno scorso si è celebrato il centenario del Mandato Britannico per la Palestina del 1922, che ha ufficializzato la presenza della Gran Bretagna in Terra Santa dopo la Prima Guerra Mondiale.

Il Mandato della Palestina rientrava in un sistema ideato dalla Società delle Nazioni, in cui le potenze imperiali europee dovevano teoricamente preparare i popoli non europei a un eventuale autogoverno. In realtà, coloro che vivevano sotto i mandati si rendevano conto che tali forme di governo erano una continuazione del colonialismo europeo con un altro nome.

In nessun luogo questo era più vero che in Palestina. Arthur Balfour, segretario agli Esteri in tempo di guerra, scrisse nel 1919 che “in Palestina non proponiamo nemmeno di passare attraverso la formalità di consultare i desideri degli attuali abitanti del Paese”.

Fino al caotico e disonorevole ritiro della Gran Bretagna nel 1948, le azioni britanniche durante il Mandato furono in gran parte guidate dalla politica a cui l’allora segretario agli Esteri diede il suo nome, la Dichiarazione Balfour, in cui il governo si impegnava a “fare del proprio meglio” per consentire la “creazione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico”.

Per contestualizzare, all’inizio del XIX secolo, le stime indicano che la popolazione ebraica in Palestina era di circa 7.000 persone, rispetto a 268.000 arabi musulmani e cristiani; nel 1914, gli ebrei erano 94.000, rispetto a 595.000 arabi. Le politiche di immigrazione della Gran Bretagna permisero alla percentuale ebraica della popolazione di crescere fino a un terzo del totale.

Come fanno capire le parole di Balfour, l’opinione dei palestinesi sui drastici cambiamenti nella loro patria non aveva alcuna influenza su Whitehall. Durante gli anni 1947-49, che videro l’operazione militare che accompagnò la creazione di Israele, indicata dai palestinesi come la Nakba o “catastrofe”, oltre 750.000 palestinesi divennero rifugiati apolidi, e i loro discendenti lo sono tuttora.

L’intervento britannico in Palestina nella prima metà del XX secolo è fondamentale per comprendere quello che alcuni giornalisti e politologi hanno definito il “conflitto arabo-israeliano”; si tratta oggi di un “conflitto” tra una popolazione in gran parte indifesa e una potenza occupante che ha uno degli eserciti più avanzati del mondo, mentre alcuni Stati arabi della regione si affannano a firmare accordi con Israele.

Tuttavia, durante le ricerche per il mio libro Palestine in the Victorian Age, ho scoperto che le radici dell’ingerenza britannica nella regione affondano molto più indietro, nel XIX secolo, con conseguenze che si ripercuotono ancora sulla situazione attuale.

La Gran Bretagna vittoriana era ossessionata da ciò che Isabel Burton, moglie del famigerato avventuriero e orientalista Richard Burton, descrisse accuratamente come la “Terra Santa nel cervello”.

I desideri imperiali per il territorio del fatiscente Impero Ottomano e le credenze protestanti evangeliche sul ruolo della Terra Santa e del popolo ebraico nella profezia biblica si combinarono per creare una vera e propria ossessione per la Palestina tra i vittoriani della classe media e alta.

I turisti si riversarono a migliaia nel Mediterraneo orientale: nel 1869, un gruppo di turisti viene portato in Egitto e Palestina dal predicatore battista Thomas Cook, segnando la nascita dei pacchetti turistici.

Ma gli inglesi non vennero solo per ammirare i luoghi sacri di Gerusalemme, di Betlemme e della Galilea. L’ufficiale militare Charles Warren, che aveva fatto dei sopralluoghi a Gerusalemme per il Palestine Exploration Fund, un’organizzazione fondata con il patrocinio della Regina Vittoria nel 1865, illustrò i suoi piani in un pamphlet del 1875 dal titolo minaccioso The Land of Promise [La Terra Promessa].

Warren prevedeva un’entità “simile alla vecchia Compagnia delle Indie Orientali” finanziata da capitali europei, che avrebbe sostituito gli Ottomani come amministratori della Palestina.

Tuttavia, il motivo di Warren non era solo il profitto per gli azionisti europei: oltre 40 anni prima della Dichiarazione Balfour, egli disse esplicitamente che era “intenzione dichiarata della Gran Bretagna di introdurre gradualmente l’ebreo [sic], puro e semplice, che alla fine occuperà e governerà questo Paese”.

Altri si spinsero oltre nei loro progetti di vedere la Palestina popolata da ebrei. James Finn, console britannico a Gerusalemme per 17 anni a metà del XIX secolo, era un cristiano evangelico così profondamente ossessionato dal popolo ebraico da definirsi “mezzo ebreo”, pur non avendo alcuna ascendenza ebraica.

Prima del suo consolato, fu strettamente associato alla London Jews Society, un’organizzazione missionaria anglicana che cercava di convertire gli ebrei al cristianesimo per realizzare una particolare interpretazione delle profezie.

Appena fuori dalle mura di Gerusalemme, Finn e sua moglie Elizabeth fondarono una fattoria per lavoratori ebrei nel 1854, nel tentativo di iniziare la trasformazione della Palestina in un Paese di coloni ebrei.

Dopo la morte di James Finn, la fattoria proseguì sotto la direzione di Elizabeth. Per raccogliere fondi per il progetto, Elizabeth non disdegnò di fare leva sull’antisemitismo britannico: sfruttando i timori di un afflusso di rifugiati ebrei dai pogrom russi degli anni Ottanta del XIX secolo, scrisse a un giornale che il suo obiettivo era quello di trovare per gli ebrei un “lavoro sano fuori dall’Inghilterra”.

Alcuni erano disposti a vedere le popolazioni ebraiche sostituire, se necessario, i palestinesi locali. Laurence Oliphant, un importante romanziere, avventuriero ed ex membro del Parlamento, viaggiò nel Mediterraneo orientale nel 1879, alla ricerca di una regione in cui si potesse stabilire una grande colonia ebraica sponsorizzata dalla Gran Bretagna.

Fu costretto ad ammettere che ciò era impossibile nell’attuale Israele/Palestina, poiché le regioni fertili erano già “nel più alto stato di coltivazione” da parte dei contadini palestinesi. Oliphant guardò quindi a est del fiume Giordano, dove la terra era più scarsamente popolata. Tuttavia, le tribù beduine seminomadi minacciavano ancora i suoi piani.

Per questo motivo, egli sostenne “una mano ferma sugli arabi”, senza escludere la loro pulizia etnica, scrivendo imperiosamente che “non ci sarebbe stata alcuna difficoltà a sgomberarli” dall’area che desiderava dedicare a una colonia. Oliphant è ricordato con affetto in Israele, dove tre strade portano il suo nome, e ce n’è un’altra nelle Alture del Golan occupate.

L’attuale situazione in Israele-Palestina, che nelle ultime settimane ha visto una triste ripresa della violenza in Cisgiordania (secondo le Nazioni Unite, il 2022 è stato l’anno più letale per i palestinesi dal 2005), oltre alle tensioni casate dagli alleati coloni di estrema destra di Benjamin Netanyahu, che rendono il nuovo governo israeliano il più ideologicamente estremo nella storia del Paese, tutto questo ha in parte le sue radici nelle azioni storiche della Gran Bretagna.

Non solo il Mandato Britannico per la Palestina, ma anche i decenni di interventi che risalgono fino al XIX secolo, hanno contribuito a spianare la strada alla condizione dei palestinesi di oggi.

Gabriel Polley ha completato nel 2020 il suo dottorato di ricerca in studi sulla Palestina presso il Centro Europeo di Studi sulla Palestina dell’Università di Exeter, Regno Unito, sotto la supervisione del professor Ilan Pappe. In precedenza ha insegnato nella Cisgiordania occupata. Attualmente lavora a Londra nei settori della traduzione e dello sviluppo internazionale. Palestine in the Victorian Age è il suo primo libro.

https://www.newarab.com/opinion/britains-colonial-legacy-still-felt-palestine-today

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

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