di Yuval Dag,
Rete di solidarietà dei Refusenik, 20 marzo 2023.
Mi chiamo Yuval Dag. Ho 20 anni e vivo in un moshav [comunità agricola] nel sud di Israele. Domani rifiuterò di arruolarmi nell’esercito israeliano perché non sono disposto a partecipare all’occupazione dei territori palestinesi e a consegnarmi allo Stato israeliano.
Sono cresciuto come sionista. L’esistenza di Israele, come Stato e come società, indipendentemente dalle sue azioni nel passato e nel presente, mi è sempre sembrata una cosa ovvia. Non l’ho mai messa in discussione. Ho partecipato a ogni festa ed evento nazionale con trepidazione. Ho goduto di quella sensazione di unità e comunione.
Un giorno, girando su Internet, mi sono imbattuto in un commento “anti-Israele”. Nel momento in cui l’ho letto, mi sono riempito di rabbia. Come è possibile che qualcuno osi criticarci? Noi siamo le vittime e lo siamo sempre stati. I giornalisti non possono sapere cosa significhi vivere nella nostra realtà. Ma per quanto il commento mi abbia scosso, sono stato ancora più scosso dalla mia stessa reazione. Mi sono sentito offeso in nome dello Stato, senza aver mai sviluppato una posizione consapevole e senza aver mai esaminato le mie convinzioni, tutto a causa della mia educazione e dell’atmosfera sociale in cui vivevo.
In quel momento mi son reso conto che la mia visione non era frutto del mio pensiero critico, ma di un indottrinamento. A quel punto, ho iniziato un itinerario per smontare le mie convinzioni ed esaminarle sotto una nuova luce, in modo imparziale e indipendente.
Ho cominciato a vedere come, contrariamente a quanto avevo creduto per tutta la vita, le due parti nel “conflitto israelo-palestinese” siano asimmetriche e il “conflitto” stesso non sia un conflitto, ma una guerra continua e prolungata. Ho visto che noi non siamo le vittime, ma gli occupanti e gli oppressori. Ho iniziato a capire l’assurdità del modo in cui trattiamo le vite umane; quando un cittadino israeliano viene ucciso, l’intera nazione piange, ma quando 7 palestinesi vengono uccisi dall’esercito israeliano in una settimana, non ne sentiamo parlare e, se lo facciamo, ci affrettiamo a mettere in dubbio l’innocenza degli assassinati o a giustificare il soldato che ha compiuto l’omicidio e che dovrebbe essere incolpato. Per noi lo status quo è una vita relativamente pacifica, con un’occasionale “operazione” a Gaza e un’ondata di attacchi terroristici dalla Cisgiordania, ma per molti palestinesi le invasioni militari, la violenza, le uccisioni e l’oppressione sono la norma quotidiana. Mi sono reso conto che i palestinesi della Cisgiordania non vivono a fianco dell’esercito israeliano, ma sotto il suo dominio. Il loro programma giornaliero di base, dal momento in cui si svegliano, se possano andare a scuola o al lavoro, dipende interamente dall’esercito. In un attimo, per motivi di “sicurezza”, Israele può mettere interi villaggi e quartieri in isolamento, anche se questo significa negare medicine e cibo a decine di migliaia di persone.
Mi sono reso conto che Israele è stato costruito sull’espulsione e sull’esilio e che l’unico modo per continuare a esistere come patria nazionale esclusivamente per il popolo ebraico è schiacciare, opprimere e mettere a tacere qualsiasi elemento che possa potenzialmente destabilizzare questo status, che si tratti della vita di milioni di persone o di una simbolica bandiera. Tutti hanno diritto alla sovranità, sia i palestinesi che il popolo ebraico, ma nessuna sovranità può avere un prezzo così alto, a spese di così tante vite.
Finalmente ho capito quello che ora mi sembra ovvio. L’organismo responsabile dell’esecuzione di questo progetto costruito sull’espulsione e che può essere attuato solo attraverso l’oppressione, è l’esercito israeliano. A differenza di quanto comunemente si crede, l’esercito non è animato da buone intenzioni e i suoi crimini non sono il risultato di pochi soldati disonesti. È un corpo che, di volta in volta, dimostra politiche ostili, razziste e chiaramente offensive. Terrorismo, omicidi di civili e giornalisti, pogrom, vandalismo, sfollamento e sabotaggio di cruciali infrastrutture di base sono eventi quotidiani perpetrati dall’esercito israeliano in Cisgiordania, con il suo aiuto e sotto il suo comando.
Nessuno può ignorare ciò che è accaduto a Huwara. È impossibile ignorare le case bruciate, le finestre in frantumi, le decine di feriti, gli assassinati e i soldati che sono rimasti a guardare. È impossibile ignorare anche il ministro israeliano che, dopo quelle violenze, ha chiesto che il villaggio fosse cancellato. Oggi più che mai sta diventando chiaro al grande pubblico quanto Israele e le sue politiche siano strettamente legate alla violenza e all’occupazione dei territori palestinesi. L’occupazione non può più essere vista come un fatto accidentale. Non può più essere considerata un’esigenza di sicurezza. L’occupazione è un’impresa politica gestita dall’esercito, che danneggia la grande maggioranza delle persone che vivono su questa terra. È al servizio di un’agenda razzista e colonialista di supremazia ebraica. Anche coloro che hanno chiuso gli occhi per tutti questi anni, che hanno cercato di ignorare e sopprimere l’esistenza dell’occupazione, non possono continuare a ignorarla dopo il pogrom commesso dai coloni sotto la protezione dei soldati dell’esercito israeliano. Il fatto che questa violenza, che ha origine nel governo, sia diventata così evidente e spudorata, ci impone di aprire gli occhi e di resistere.
La resistenza inizia, prima di tutto, con l’auto-riflessione e la comprensione. Con la comprensione che, indossando un’uniforme e i simboli di un certo corpo, si sceglie di rappresentare quel corpo. Con la comprensione che arruolarsi nell’esercito è una scelta politica, il cui significato consiste nel sostenere l’agenda militare e politica e prendervi parte. La consapevolezza che anche un piccolo ingranaggio contribuisce al funzionamento del più vasto sistema. La comprensione che una delle missioni e dei ruoli più importanti dell’esercito israeliano è quella di essere un corpo di occupazione e di oppressione. La comprensione che anche una brava persona che serve come soldato in questo sistema causa danni e sofferenze alla popolazione sotto occupazione. La comprensione che, anche se la coscrizione è una legge, non significa che sia una cosa morale e giusta da fare. La comprensione che nessun individuo da solo ha la capacità di cambiare le politiche di un organismo politico-militare. L’auto-riflessione dovrebbe avvenire quando ogni ragazzo o ragazza è chiamato ad arruolarsi. È nostra responsabilità fare un profondo esame di coscienza e decidere cosa siamo disposti a difendere.
Mi rifiuto. Mi rifiuto di dare il mio corpo e la mia vita a qualsiasi sistema, per qualsiasi Paese e, nella situazione attuale, soprattutto non allo Stato di Israele e all’esercito israeliano. Chiedo a tutti coloro che stanno per arruolarsi di riconoscere e affrontare la verità. Aprite gli occhi e guardate la nostra realtà. Mettete da parte la narrazione comune della società israeliana, che ha un chiaro interesse a trasformare tutti in soldati. Credo che, in questa realtà, la nostra unica scelta sia quella di rifiutare.
Yuval
Traduzione a cura di AssoPacePalestina
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