Per un’altra città, 6 dicembre 2022.
Dall’operazione dell’esercito israeliano “Break the Wave” alle incursioni dei coloni israeliani fino agli attentati di Gerusalemme. La tensione fra Palestina e Israele continua a crescere. Mentre ricorre la 45esima Giornata Internazionale di Solidarietà con il popolo palestinese.
La violenza dei coloni israeliani nei confronti della popolazione palestinese è diventata ormai parte integrante della vita quotidiana degli abitanti della Cisgiordania. Dal 2020 ad oggi si sono verificati 306 episodi di violenza che hanno coinvolto le proprietà palestinesi, 290 casi di danni a beni agricoli e 226 casi di assalti fisici, stando a quanto riferito da B’Tselem, centro di informazione israeliano per i diritti umani nei territori palestinesi occupati.
Questa è la situazione, nonostante siano passati ben 45 anni dall’istituzione della Giornata internazionale di solidarietà con il popolo palestinese, indetta su mandato dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per ricordare l’adozione, il 29 novembre del 1947, della Risoluzione 181 che stabiliva la creazione di uno stato ebraico e di uno arabo. Sono passati 75 anni, ma la creazione di uno stato palestinese, dotato di indipendenza economica e continuità territoriale, ancora non è stata realizzata. E se in Cisgiordania gli abitanti devono convivere ogni giorno con una occupazione militare che complica ogni aspetto della vita quotidiana, nella Striscia di Gaza la situazione è sempre più drammatica. Secondo Oxfam Italia il 90% dell’acqua pubblica di Gaza è contaminato o non potabile. L’unica acqua utilizzabile per uso domestico è quella imbottigliata e venduta da privati a prezzi esorbitanti, con oltre il 60% delle famiglie che vive al di sotto della soglia di povertà, mentre la sopravvivenza di più della metà della popolazione dipende in modo diretto dagli aiuti umanitari.
Le azioni messe in atto dai coloni e talvolta anche da altri civili israeliani che vivono negli insediamenti, comprendono il blocco di strade e di macchine palestinesi, le incursioni in villaggi e terreni agricoli soprattutto nei periodi di raccolta delle olive, fino al danneggiamento vero e proprio dei raccolti, agli incendi ed estirpazioni delle piante di olivo e danneggiamento delle proprietà. Molto spesso si verificano vere e proprie aggressioni fisiche armate. Alla violenza dei coloni negli ultimi mesi si sono aggiunte le incursioni dell’esercito israeliano nell’ambito dell’operazione militare “Break the Wave”, lanciata 250 giorni fa con l’obiettivo ufficiale di rintracciare palestinesi sospettati di terrorismo. Le operazioni si sono concentrate in particolare nelle zone di Nablus e Jenin, nel nord della Cisgiordania e dall’inizio dell’intervento militare ad oggi sono stati uccisi 130 palestinesi, 13 civili israeliani e 4 membri delle forze di sicurezza israeliane. Il numero di operazioni israeliane si è ulteriormente intensificato negli ultimi giorni in seguito alla doppia esplosione del 23 novembre a Gerusalemme, in cui ha perso la vita uno studente sedicenne originario del Canada e altre 21 persone sono rimaste ferite.
All’alba dello scorso 4 ottobre, vigilia della festa ebraica Yom Kuppur, un gruppo di circa 100 coloni israeliani si è riunito sulla strada che porta dalla città palestinese di Huwara a Nablus. Secondo la ricostruzione effettuata dal giornale israeliano +972 Magazine, i coloni, alcuni dotati di armi automatiche, hanno bloccato la lunga fila di auto palestinesi che tentavano di entrare in città. I coloni sono stati scortati da soldati israeliani e agenti della polizia di frontiera, che hanno chiuso un cancello di metallo situato lungo la strada per impedire il passaggio dei veicoli palestinesi. Da allora, quasi ogni giorno, i coloni si sono riversati all’ingresso sud della città per impedire ai palestinesi di entrare e uscire. In alcune occasioni hanno partecipato ai blocchi anche politici israeliani locali e membri della Knesset, il parlamento israeliano. L’attenzione particolare su Nablus è dovuta al fatto che in città si trova il quartier generale dei Lions’ Den, gruppo di militanti palestinesi responsabili di diverse azioni contro le forze di occupazione israeliane. Nablus, come Jenin, altra città sotto controllo speciale, ricade sotto il pieno controllo amministrativo e di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese (A.N.P.) in quanto zona A, secondo la divisione sancita dagli accordi di Oslo (Zona A: a controllo amministrativo e di sicurezza dell’ANP; Zona B: a controllo amministrativo dell’ANP e di sicurezza Israeliano; Zona C: a controllo sia amministrativo che di sicurezza israeliano).
Nonostante questo le forze di sicurezza israeliane fanno frequentemente incursioni in città e nei campi profughi per compiere arresti e operazioni militari. In questo contesto sociale estremamente infiammabile sono in corso in Israele le trattative da parte del leader del Likud e premier incaricato Benjamin Netanyahu e il partito di estrema destra Otzma Yehudit per la creazione di un nuovo ministero per la Sicurezza Nazionale, che potrebbe portare a un inasprimento del controllo militare sui territori palestinesi occupati. Da nord a sud della Cisgiordania la situazione non cambia. A metà novembre 30.000 ebrei israeliani si sono riuniti a Hebron per una marcia celebrativa fino alla tomba di Abramo, nel cuore della città. Decine di migliaia di israeliani hanno marciato accompagnati da soldati attraverso il mercato, attaccando negozi e residenti palestinesi e dando il via a uno degli scontri più gravi degli ultimi decenni.
Le varie città e villaggi palestinesi sono tutti relativamente vicini, ma viaggiare da un luogo all’altro sta diventando sempre più difficile per gli abitanti a causa della continua crescita degli insediamenti israeliani, che restringe sempre di più l’area in cui ai palestinesi è permesso vivere, lavorare, giocare e viaggiare in sicurezza. Sempre più spesso infatti i palestinesi non possono spostarsi tra varie zone della Cisgiordania che distano solo pochi minuti tra loro senza passare da un insediamento. Gli insediamenti costruiti dal governo israeliano all’interno dei territori occupati, considerati illegali dal diritto internazionale, sono più di 280 e ospitano 450 mila persone. Di questi, 150 sono avamposti non ufficialmente riconosciuti nemmeno dallo stato di Israele. Alcune di queste aree sono state occupate tramite ordini militari che dichiaravano la zona in questione “terra demaniale”, “zona di tiro”, o “riserva naturale”. Altre aree sono state conquistate dai coloni con atti di quotidiana violenza, che consentono allo stato di continuare ad espandersi.
La stessa mattina dell’attentato a Gerusalemme, intorno alle 9 le forze di sicurezza israeliane hanno demolito una scuola elementare costruita nella comunità di Masafer Yatta, insieme di 19 frazioni nelle colline a sud di Hebron. La demolizione è stata approvata dal giudice della Corte Suprema Isaac Amit, che ha annullato il precedente ordine provvisorio che bloccava la demolizione. A denunciarlo è sempre l’ONG israeliana B’Tselem, che sottolinea come “gli ostacoli all’istruzione stiano diventando insormontabili per studenti e insegnanti palestinesi”. “La decisione della Corte Suprema israeliana dello scorso maggio di sfollare 8 villaggi palestinesi nell’area ha distrutto la vita delle centinaia di persone che vivono in questi villaggi da generazioni”. Una delle maggiori vittime di questa decisione e degli sforzi di Israele per rafforzare ulteriormente l’occupazione, è stata appunto l’istruzione. Le 4 principali scuole di Masafer Yatta sono infatti sotto immediata minaccia di demolizione e questo rende molto incerto il futuro degli studenti. Spesso gli insegnanti vengono trattenuti dalle forze dell’ordine mentre si stanno recando a scuola e l’esercito confisca regolarmente le loro auto. Secondo +972 Magazine solo negli ultimi mesi sono state sequestrate 6 auto agli insegnanti e tutte devono ancora essere restituite.
I palestinesi che vivono in Cisgiordania non possono utilizzare gli aeroporti israeliani e per recarsi all’estero devono passare attraverso tre diversi uffici di immigrazione: quello dell’Autorità Palestinese, quello israeliano e quello della Giordania. L’uscita dal paese può avvenire solo attraverso il ponte Al-Karameh, noto come il ponte di Allenby in Israele, unico attraversamento di terra concesso ai palestinesi della West Bank verso la Giordania. Il quotidiano israeliano Haaretz scrive che nel 2021 sono ben 10.594 i palestinesi che hanno ricevuto divieti di viaggio. In molti casi il divieto scatta automaticamente, come nel caso di parenti di persone coinvolte in casi di terrorismo e in appello alla fine molti divieti vengono revocati. Il controllo del territorio e della libertà di movimento dei palestinesi è una delle caratteristiche principali di quello che Amnesty International ha classificato come regime di apartheid imposto dallo stato di Israele alla popolazione palestinese. <Frammentazione territoriale, segregazione e controllo, espropriazione dei terreni e delle proprietà dei palestinesi e negazione dei diritti economici, sociali e civili> : sono questi i componenti principali individuati da Amnesty alla base del <sistema di oppressione e dominio sui palestinesi>.
Elementi che hanno spinto l’organizzazione a parlare di “apartheid”, termine che storicamente fa riferimento alle politiche di discriminazione razziale applicate dalla minoranza bianca nella Repubblica del Sudafrica dal 1948 al 1991. <Israele deve smantellare questo sistema crudele e la comunità internazionale deve esercitare pressioni affinché ciò avvenga>, si legge nelle conclusioni dell’ultimo rapporto di Amnesty. “L’apartheid di Israele contro i palestinesi: sistema crudele di dominio e crimine contro l’umanità”. Naturalmente Israele ha come sua abitudine reagito rabbiosamente, accusando Amnesty International di antisemitismo. Non si tratta di tracciare un parallelismo diretto con quella che era la situazione in Sudafrica, ma nel documento si accusa Israele di crimini contro l’umanità secondo le leggi internazionali, fra cui la Convenzione sull’apartheid del 1973 e lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale, che definisce l’apartheid come dominio razziale sistematico. Miko Peled, scrittore e storico ebreo israeliano, si spinge oltre: il continuo espandersi degli insediamenti, le distruzioni delle case e delle proprietà, le violenze e le uccisioni che hanno l’evidente scopo di scacciare la popolazione palestinese dalle proprie case e dalla propria terra , può far prefigurare il crimine di genocidio.
L’organizzazione ha documentato l’illegittimità degli atti commessi da Israele contro i palestinesi, il cui intento sarebbe quello di mantenere uno status quo fatto di trasferimenti forzati, uso della detenzione amministrativa (arresto senza accuse precise), negazione e violazioni dei diritti e delle libertà fondamentali. La conclusione è che l’insieme di questi atti, che caratterizzano, non solo la quotidianità dei cittadini palestinesi di Gaza e Cisgiordania, ma anche degli arabo israeliani che vivono in Israele, costituisce un crimine contro l’umanità. Così nelle 280 pagine del rapporto sono descritti e analizzati i massicci sequestri di terreni e abitazioni dei palestinesi, i numerosi casi di demolizione di unità abitative, ma anche di scuole e infrastrutture, le drastiche restrizioni alla libertà di movimento che i cittadini dei territori palestinesi occupati debbono subire ogni giorno.
“Il nostro rapporto rivela la reale portata del regime di apartheid di Israele. Sia che vivano a Gaza, a Gerusalemme Est, nel resto della Cisgiordania o nello stesso Israele, i palestinesi sono trattati come un gruppo razziale inferiore e sistematicamente privati dei loro diritti. Abbiamo scoperto che le crudeli politiche di segregazione, espropriazione ed esclusione praticate da Israele in tutti i territori sotto il suo controllo equivalgono chiaramente a un sistema di apartheid”, ha dichiarato Agnes Callamard, segretaria generale di Amnesty.
Poi ci sono i razzi di Hamas e le risposte indiscriminate di Israele, per non parlare di una sistematica discriminazione che dura da decenni. “Tornare allo status quo non è la risposta”, come dice Human Rights Watch. “La violenza esiste in un sistema di repressione sostenuto da una forza schiacciante e orchestrato dal governo israeliano per assicurare la dominazione della popolazione ebraica”. A questo scopo è stata varata nel 2018 la legge sullo Stato Nazione del popolo ebraico, che sancisce ufficialmente la vera connotazione di quello stato come stato etnocratico, in barba all’unico stato democratico del Medio Oriente. Nella notte tra il 20 e il 21 maggio 2021 è stato raggiunto un cessate il fuoco fra il governo di Israele e Hamas – il partito militante palestinese stanziato nella Striscia di Gaza – dopo 11 giorni di sangue che hanno causato 248 vittime palestinesi a Gaza e 12 in Israele. I feriti sono stati quasi 2.000 e anche in Cisgiordania si contano vittime fra i palestinesi a seguito delle aggressioni e degli scontri esplosi in varie città.
Entrambe le parti si sono dichiarate vincitrici. Le autorità israeliane hanno dichiarato di aver assestato un colpo decisivo contro Hamas, specificando di aver distrutto le reti dei tunnel sotterranei dell’organizzazione, depositi di armi e di aver ucciso <più di 200 militanti e almeno 25 figure di spicco>. Tali numeri sembrano però in contrasto con il numero di vittime totali, di cui gran parte sono state riconosciute civili. Dal canto suo Hamas rivendica una vittoria di Pirro per aver resistito contro un oppressore più forte sia dal punto di vista economico che militare. Secondo la Croce Rossa Internazionale (CICR) la ricostruzione richiederà decenni e la situazione è al collasso: mancano acqua, cibo e medicine.
E l’Italia, che parte ha nella annosa vicenda israelo-palestinese? Nel corso degli anni il valore delle esportazioni di armi italiane verso Israele è esploso. Tanto che i piloti che hanno bombardato recentemente Gaza si sono esercitati su aerei e simulatori made in Italy. Armi automatiche, bombe, razzi e missili, veicoli terrestri, aeromobili e poi ancora munizioni, strumenti per la direzione del tiro, apparecchi specializzati per l’addestramento e la simulazione di scenari militari. C’è un ampio campionario dell’arsenale bellico negli oltre 90 milioni di euro di forniture di sistemi militari dall’Italia a Israele negli ultimi 6 anni (2015-2020). Sono tutti armamenti prodotti da una delle aziende del gruppo a controllo statale Leonardo (ex Finmeccanica) che fa la parte del leone nell’export di sistemi militari allo stato di Israele.
A conclusione di queste considerazioni, è importante ricordare che tutti i rappresentanti della legalità internazionale, ad iniziare dai Relatori Speciali per i diritti umani delle Nazioni Unite , condannano la politica espansionistica, razzista e coloniale di Israele, e con loro anche tante personalità israeliane e non della politica e della cultura. Ed anche se la lotta per la libertà, l’uguaglianza, la giustizia del popolo palestinese sembra ancora infrangersi contro lo scudo di impunità che protegge Israele e contro l’ipocrisia e il disinteresse dei media e della gran parte delle Istituzioni, la storia insegna che alla fine la giustizia e la libertà avranno la meglio sulla negazione dei diritti e l’oppressione. Il popolo palestinese ne è fermamente convinto e chiede al mondo degli onesti di sostenere la sua resistenza.
Pierluigi Caramelli fa parte della Comunità dell’Isolotto ed è uno dei referenti di Firenze di Assopace Palestina. L’Associazione è impegnata sul fronte della difesa dei diritti umani e della legalità internazionale e ha l’obiettivo di sostenere la lotta di tutti i popoli oppressi e di quello palestinese in particolare che da oltre 100 anni subisce un processo di pulizia etnica e violazioni dei diritti umani fondamentali.
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