di Michele Giorgio,
pagineesteri.it, 23 Gennaio 2023.
Il traffico è quello caotico di tutti i giorni. Fabbriche, laboratori di artigiani e negozi sono aperti. Come fanno ogni mattina gli studenti dell’università al Najah a passo veloce raggiungono il campus e di pomeriggio affollano i caffè intorno all’ateneo riempiendo l’aria di suoni, parole, risate. Nablus sembra vivere una tranquilla quotidianità. È solo apparenza. La seconda città palestinese della Cisgiordania dalla scorsa estate vive in un clima di guerra, una guerra che si combatte soprattutto di notte e che non risparmia nessuno. Il campo di battaglia principale è la casbah, la città vecchia. Gli uomini delle unità speciali dell’esercito israeliano, i mistaravim in abiti civili che si fingono palestinesi, di notte con azioni fulminee aprono la strada ai blitz dei reparti dell’esercito a caccia di militanti della Fossa dei Leoni, il gruppo che riunisce combattenti di ogni orientamento politico diventato l’icona della lotta armata palestinese. Incursioni che sono accompagnate da intensi scontri a fuoco e che terminano con uccisioni di palestinesi, compiute quasi sempre da cecchini.
«Viviamo come se fossimo in guerra, con gli occupanti (israeliani) che entrano quasi ogni notte nella città per uccidere o catturare qualcuno e spesso a pagarne le conseguenze sono i civili» ci dice Majdi H., un educatore che ha accettato di accompagnarci. «La casbah è l’obiettivo principale di Israele – aggiunge – perché rappresenta il rifugio della resistenza. Però i raid avvengono ovunque e si trasformano in battaglia alla Tomba di Giuseppe». Majdi si riferisce alle «visite» notturne periodiche dei coloni israeliani al sito religioso all’interno dell’area A, sotto il pieno controllo palestinese. Il loro arrivo, con una scorta di dozzine di soldati e automezzi militari, innesca scontri a fuoco violenti con la Fossa dei Leoni. «Vogliano vivere la nostra vita, senza più vedere coloni e soldati ma non ci viene permesso» prosegue Majdi che da alcuni anni svolge, assieme ad altri colleghi, attività di sostegno psicologico ai minori. «Sono i più colpiti da questo clima – ci spiega -, bambini e ragazzi sono i più esposti ai danni che procura questa guerra, a bassa intensità ma pur sempre violenta». La situazione attuale, ricorda a molti l’operazione Muraglia di Difesa lanciata da Israele nel 2002, quando l’esercito, nel pieno della seconda Intifada, rioccupò le città autonome palestinesi. Calcolarono in circa 300 i morti palestinesi a Nablus attraversata e devastata per mesi da carri armati e mezzi blindati. Oggi come allora, i comandi militari e il governo israeliano giustificano il pugno di ferro con la «lotta al terrorismo» e alle organizzazione armate palestinesi responsabili di attacchi che in qualche caso hanno ucciso o ferito soldati e coloni.
La bellezza della casbah di Nablus è paragonabile solo a quella della città vecchia di Gerusalemme. I lavori di recupero avviati negli anni passati dalle autorità locali, grazie anche a progetti internazionali, hanno ridato nuovo splendore a edifici antichi e ad angoli nascosti. Gli hammam (bagni) che contribuiscono a rendere nota la città, sono stati ristrutturati così come le fabbriche di piastrelle e del sapone all’olio d’oliva e i laboratori a conduzione familiare che producono le gelatine ricoperte di zucchero a velo. «Ma la regina dei dolci di Nablus era e resta la kunafa» puntualizza Majdi riferendosi a una delle delizie della cucina palestinese. L’atmosfera è piacevole. Dopo la moschea al Khader si incontrano ristorantini con vasi fioriti e luci colorate che si riflettono sulla pietra bianca delle abitazioni. I commercianti espongono merci di ogni tipo e gli ambulanti a voce alta descrivono la bontà di frutta e verdura che hanno portato in città.
Entrati nel rione Al Yasmin, Majdi si fa più serio e teso. «Siamo nella zona rossa, questa è la roccaforte della Fossa dei Leoni e di altri gruppi armati. Qui ci sono scontri a fuoco quasi ogni notte tra i nostri giovani e i soldati israeliani. Non puoi scattare foto e se incontriamo i combattenti, mi raccomando, non seguirli troppo a lungo con lo sguardo. Il timore di spie e collaborazionisti è forte» ci intima a voce bassa. Sopra le nostre teste, nei vicoli, sono stati stesi lunghi teli neri per nascondere ai droni israeliani i movimenti degli armati. I muri sono tappezzati di poster con i volti di martiri vecchi e nuovi, quelli uccisi durante la prima Intifada trent’anni fa e quelli colpiti a morte nelle ultime settimane. Una sorta di mausoleo ricavato in una piazzetta ne ricorda i più famosi, tra cui Ibrahim Nabulsi, che lo scorso agosto, circondato da truppe israeliane, preferì morire e non arrendersi. Nabulsi prima di essere colpito a morte inviò un audio alla madre virale per mesi. Per i palestinesi è un eroe. Per Israele invece il primo leader della Fossa dei Leoni era un «pericoloso terrorista» e tra i responsabili di gravi attacchi armati a soldati e coloni. I mistaravim israeliani hanno già decapitato un paio di volte i vertici della Fossa dei Leoni ma il gruppo vede crescere i suoi ranghi ogni giorno di più. Ne farebbero parte tra 100 e 150 abitanti di Nablus e dei villaggi vicini. Un paio di loro ci passano accanto, non possiamo fotografarli o fermarli per fare qualche domanda, ci ribadisce secco Majdi al quale nel frattempo si è unito Amer, un suo amico che vive nella casbah per garantirci un ulteriore «lasciapassare». L’uniforme degli armati è nera, il volto è coperto dal passamontagna, una fascia colorata con il logo del gruppo avvolge la parte superiore della testa. L’arma è quasi sempre un mitra M-16.
Una «divisa» simile la indossano i membri del Battaglione Balata nel campo profughi più grande della città, noto anche per essere un bastione della resistenza alle forze di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese che tanti a Nablus, anche del partito Fatah del presidente Abu Mazen, ormai considerano «al servizio» di Israele. Le operazioni di sicurezza (repressive) a Nablus delle forze speciali dell’Anp sono la causa di proteste violente e le strade del centro cittadino si trasformano in terreno di scontro tra giovani e poliziotti. «Chiediamo, invano, da decenni la fine dell’occupazione israeliana, il problema principale di Nablus, di ogni città, di ogni palestinese» dice Osama Mustafa, direttore del centro culturale Yafa nel campo di Balata. «Ci abbiamo provato con gli accordi di Oslo, con i negoziati ma non è servito a nulla, restiamo sotto occupazione, le colonie israeliane ci circondano» aggiunge Mustafa. «Israele afferma che la sua pressione su Nablus è dovuta alla presenza in città di uomini armati e attua misure punitive che colpiscono tutta la popolazione». La frustrazione è palpabile, l’esasperazione per il disinteresse dei paesi occidentali deteriora il rapporto con l’Europa. «Al centro Yafa svolgiamo attività culturali e a favore dell’infanzia» spiega Mustafa «sono progetti civili, quasi sempre per i bambini. Eppure, per assegnarci i finanziamenti l’Ue chiede di firmare dichiarazioni di condanna della resistenza all’occupazione. Lo fa perché è Israele ad imporlo. Ma nessun palestinese può farlo».