L’eredità di Mahmoud Abbas

Gen 10, 2023 | Notizie

di Tareq Baconi, Yara Hawari, Tariq Kenney-Shawa, Alaa Tartir,

Al-Shabaka, 9 gennaio 2023. 

Sostenitori palestinesi di Hamas dimostrano contro l’annullamento delle elezioni parlamentari e presidenziali. Gaza City 30 aprile 2021. Foto di Mohammed Salem

Il Presidente dell’Autorità Palestinese (AP) Mahmoud Abbas è uno dei leader più anziani del mondo e, poiché quest’anno la sua presidenza supera di 14 anni il mandato democraticamente assegnato, gli analisti politici di Al-Shabaka fanno alcune riflessioni sulla sua eredità. Oltre ad aver orchestrato gli accordi di Oslo del 1993, che hanno ridotto il movimento di liberazione palestinese a un progetto nazionale all’interno della Cisgiordania occupata e di Gaza, Abbas ha ridotto l’economia palestinese alla sostanziale dipendenza dagli aiuti dei donatori e ha istituito un settore della sicurezza impegnato a coordinarsi con il regime israeliano. Molti palestinesi ricorderanno quindi senza dubbio Mahmoud Abbas come il leader che ha consolidato la loro realtà di popolo sotto occupazione.

In questa tavola rotonda, Tareq Baconi, Yara Hawari, Alaa Tartir e Tariq Kenney-Shawa offrono critiche incisive alla leadership palestinese. Concordemente, chiariscono che Abbas ha presieduto alla continuazione dello status quo dell’occupazione israeliana e dell’apartheid, alla criminalizzazione della resistenza palestinese, alla soppressione del processo democratico e all’abbandono di una visione globale per un futuro palestinese decolonizzato.

Leadership senza una visione di liberazione

di Tareq Baconi

All’inizio del giugno 2022, Mahmoud Abbas ha fatto una rara apparizione per le strade di Ramallah e si è mescolato ai passanti per dissipare le voci di un suo ictus. Se lo avesse fatto più frequentemente, spinto non dalla necessità di dimostrare la propria longevità ma dal desiderio di entrare in contatto con il suo popolo, Abbas avrebbe potuto toccar con mano il risentimento e la disperazione che i palestinesi provano nei confronti della sua leadership autoritaria e ormai defunta, ben oltre un decennio dopo il suo mandato democratico.

Figura chiave dietro le quinte degli accordi di Oslo, Abbas è il burocrate che ha sostenuto l’architettura dell’autonomia inaugurata da quei negoziati: una forma di governance limitata che è sempre al di sotto dell’autodeterminazione o della statualità. Privo di una visione di liberazione o di effettive capacità strategiche, Abbas ha eccelso nel facilitare gli sforzi del regime israeliano per gestire lo status quo, rimanendo impegnato in una vasta infrastruttura di coordinamento della sicurezza, impedendo ogni forma di resistenza palestinese al continuo dominio di Israele e rafforzando le politiche israeliane di divide et impera tra le fazioni palestinesi in conflitto in Cisgiordania e a Gaza.

Per le controparti occidentali, Abbas è spesso descritto come un uomo di pace, una figura che sceglie la stabilità piuttosto che la resistenza, e un attore attivo in un’industria di pacificazione ampiamente intesa come finalizzata a sostenere l’asservimento dei palestinesi piuttosto che a garantire la statualità. Per molti palestinesi, la sua formulazione della pace si traduce nell’acquiescenza all’apartheid coloniale israeliano. Abbas ha istituzionalizzato questa visione negli stessi strumenti di liberazione palestinese che presiede. Infatti, sotto il suo mandato, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) è stata effettivamente svuotata e trasformata in un’organizzazione impotente. Questo non solo ha indebolito la capacità dell’unica rappresentanza del popolo palestinese di formulare una strategia efficace per la liberazione, ma ha anche ulteriormente frammentato il popolo palestinese.

Incorporando l’OLP negli uffici dell’AP, Abbas ha di fatto tagliato fuori la diaspora palestinese, che costituisce la maggioranza del popolo palestinese, e ha ridotto questa ampia e potente rappresentanza del popolo palestinese a una burocrazia inefficace e divisa in Cisgiordania e a Gaza, impegnata nell’autogoverno sotto occupazione. L’inettitudine della leadership di Abbas non sta solo nel minare la ricerca di liberazione dei palestinesi, ma nel farlo espandendo e rafforzando un dominio autoritario e minando ogni forma di democrazia palestinese.

Il suo sostituto, che attualmente dovrebbe essere Hussein al-Sheikh, Segretario Generale del Comitato Esecutivo dell’OLP, probabilmente approfondirà la sottomissione palestinese al regime israeliano mediante l’espansione del sistema di coordinamento della sicurezza che rimane caro ad Abbas e che si trova al centro degli accordi di Oslo. Al-Sheikh cercherà probabilmente di inserire queste politiche in un discorso di sfida, resistenza e diritti palestinesi, proprio come il suo predecessore. Se inizierà ad avventurarsi per le strade al di fuori dei suoi palazzi del potere, imparerà rapidamente quanto siano vuote le sue parole. In questo modo, l’ascesa di al-Sheikh racchiude l’eredità di Abbas: la creazione di una burocrazia di governo palestinese che manca di una visione per la liberazione della Palestina e che permette al sistema di apartheid di Israele di continuare a pagare un prezzo irrisorio.

Cementare l’autoritarismo e distruggere la democrazia

di Yara Hawari

Nel corso del suo regno, Abbas ha lanciato numerosi e insinceri appelli alle elezioni, l’ultimo dei quali nel gennaio 2021, quando ha emesso un decreto presidenziale che prevedeva lo svolgimento di elezioni legislative nel maggio successivo. Sebbene l’Autorità Palestinese abbia intrapreso iniziative che indicavano che le elezioni si sarebbero potute tenere – arrivando a creare un registro elettronico degli elettori – Abbas le ha infine annullate nell’aprile 2021, allegando il rifiuto del regime israeliano di permettere ai palestinesi di Gerusalemme Est di partecipare. Dal 2006, questo è stato il momento in cui l’Autorità Palestinese si è avvicinata di più a un reale svolgimento di elezioni e il gesto ha temporaneamente saziato l’appetito della comunità internazionale per una democratizzazione dell’Autorità Palestinese, un organismo che ha sostenuto per tre decenni.

Tuttavia, per i palestinesi, la richiesta di democratizzazione da parte della comunità internazionale rimane dubbia, visto il rifiuto dei risultati democratici delle elezioni palestinesi del 2006 e l’indifferenza nei confronti del successivo assedio del regime israeliano su Gaza. Inoltre, la persistente tendenza dell’Occidente a ridurre la democrazia di una società alla mera esistenza di elezioni democratiche dimostra la sua insincerità. Se da un lato le elezioni possono essere il prodotto di un processo e di una cultura democratica significativa, dall’altro possono aver luogo in una società in cui altri elementi chiave della democrazia sono carenti o del tutto assenti, e servono invece a rafforzare lo status quo. È il caso della Cisgiordania e di Gaza, dove qualsiasi elezione si tradurrebbe inevitabilmente in una continuazione delle strutture di potere esistenti o semplicemente nella riproduzione di un’altra leadership autoritaria.

In effetti, una concezione più completa della democrazia riconosce che le elezioni devono essere parte di un pacchetto in cui la democrazia esiste in tutta la società e in cui la pluralità politica è accettata e incoraggiata. Questo è ben lontano dalla realtà delle istituzioni politiche palestinesi in Cisgiordania, dove Abbas ha consolidato un sistema che ruota attorno alla sua leadership, con poco spazio per la responsabilità e la trasparenza. Le posizioni di vertice sono assegnate in base al patrimonialismo e al nepotismo, formando una cassa di risonanza tutta al maschile che ribadisce le posizioni del presidente.

Inoltre, Abbas ha fuso tutti e tre i rami del governo – legislativo, esecutivo e giudiziario – in modo che non vi sia alcuna separazione o controllo del potere all’interno delle istituzioni politiche palestinesi. La sua ultima mossa in questo senso è stata quella di creare un Alto Consiglio Giudiziario e di nominare se stesso come capo. Nel frattempo, le voci critiche vengono relegate ai margini, con giornalisti e attivisti regolarmente arrestati e minacciati per aver criticato Abbas sulla stampa e sulle piattaforme di social media.

A Ramallah, la capitale de facto dell’AP, le immagini di Abbas incombono sui dipendenti negli edifici governativi e sugli alunni nelle scuole; adornano persino le pareti delle aziende private. Tuttavia, questo non deve essere scambiato per popolarità, poiché un sondaggio del settembre 2022 ha rilevato che almeno il 74% dei palestinesi non vuole che Abbas rimanga presidente. Inoltre, la sua cerchia ristretta è continuamente costretta a organizzare conferenze stampa o apparizioni pubbliche come prova di vita per sedare le voci sulla sua morte. Da questo punto di vista, egli è sulla buona strada per adattarsi alla figura del leader arabo dispotico per antonomasia.

Ma non si può dare tutto il merito ad Abbas; questo tipo di governo autoritario è un prodotto diretto del regime israeliano che, oltre a sostenere l’Autorità Palestinese, ha anche imposto attivamente e costantemente misure repressive contro la politica e le espressioni democratiche palestinesi. In effetti, una leadership palestinese autoritaria e compiacente serve bene agli obiettivi del regime israeliano. Tuttavia, l’autoritarismo non si addice al popolo palestinese e non è un risultato inevitabile della dominazione coloniale. Abbas può lasciare al popolo palestinese un’eredità di autoritarismo radicato, ma anche questo ha una sua eredità: la resistenza e la sfida contro tutte le previsioni.

Criminalizzare la resistenza e rafforzare la securizzazione

di Alaa Tartir

Sotto Abbas, l’Autorità Palestinese è riuscita ad aumentare ulteriormente il suo coordinamento di sicurezza con il regime israeliano, consolidando una politica istituzionale che consiste nel governare con il pugno di ferro. Nell’ultimo decennio, infatti, il settore sicurezza dell’Autorità Palestinese ha consolidato il suo potere più che mai e ha ricevuto la maggior parte del bilancio dell’Autorità, consentendogli di rafforzare il suo dominio autoritario e repressivo sul popolo palestinese. Di conseguenza, una transizione politica partecipativa, inclusiva e democratica continua a essere negata e la resistenza palestinese all’oppressione israeliana – armata e non – viene continuamente repressa per dare priorità alla sicurezza e alla perpetuazione dello status quo.

Sotto Abbas, queste pratiche sono diventate sempre più pervasive e sono parte integrante dell’architettura di governance in Cisgiordania e a Gaza. Di conseguenza, è più che probabile che l’autoritarismo strutturale continui anche dopo la fine del suo regno. Infatti, dopo Abbas, una nuova leadership di Fatah non sarà interessata né sarà in grado di discostarsi dalle pratiche profondamente radicate dell’Autorità Palestinese negli ultimi decenni. Il possibile successore di Abbas, Hussein al-Sheikh, supervisiona attualmente il coordinamento della sicurezza con il regime israeliano – un sistema che Abbas ha definito “sacro” – e non mostra alcun segno di voler modificare la situazione. Finché questo accordo sarà in vigore, al servizio del regime israeliano e dell’élite palestinese al potere, la speranza di un cambiamento democratico rimarrà vana.

Altri membri di alto livello di Fatah e dell’establishment della sicurezza dell’Autorità Palestinese descrivono il coordinamento della sicurezza come una “via per l’indipendenza” e come “parte integrante della strategia di liberazione”. Tuttavia, nella realtà del colonialismo d’insediamento, il coordinamento può essere inteso solo come dominazione. Non c’è da stupirsi, quindi, che la stragrande maggioranza del popolo palestinese rifiuti il coordinamento della sicurezza; lo intende correttamente come un ulteriore livello di negazione dei propri diritti umani, civili e politici fondamentali.  

L’élite al potere cerca solo una continuazione dell’Autorità Palestinese per preservare il proprio illegittimo potere e la propria influenza, ignorando completamente la volontà popolare dei palestinesi. Dopo Abbas, l’autoritarismo continuerà a essere giustificato con il pretesto di garantire la stabilità e prevenire il caos.

Questa realtà non è nuova per i palestinesi, che l’hanno vissuta in ognuno dei mandati successivi e antidemocratici di Abbas negli ultimi 14 anni. In questo modo, la sua eredità più duratura sarà la continuazione dello status quo autoritario da lui creato, che rifiuta deliberatamente di mettere al centro del progetto politico il popolo, mediante la costruzione di istituzioni responsabili, legittime, democratiche e rappresentative.

Centrare ogni sforzo sul popolo palestinese e garantire il suo diritto a resistere sotto l’occupazione coloniale, oltre a metterlo in grado di unirsi sotto un progetto nazionale nonostante la frammentazione forzata, sono i pilastri fondamentali per rompere lo status quo. Tuttavia, grazie ad Abbas, qualsiasi “nuova” leadership dell’AP dopo la sua partenza percepirà questi pilastri come una minaccia al proprio dominio autoritario e utilizzerà quindi tutte le risorse e le vie disponibili per negarli e sopprimerli. In altre parole, la negazione di questi pilastri non è temporanea o limitata al governo di Abbas; egli lascerà in eredità la loro continua soppressione come parte di una componente strategica e fondamentale della governance, lasciando i palestinesi sempre più in contrasto con la loro leadership.

Un leader dedicato alla dipendenza

di Tariq Kenney-Shawa

Come presidente dell’Autorità Palestinese, Abbas ha presieduto al consolidamento dell’occupazione israeliana e dell’apartheid, all’aggravarsi della corruzione interna e alla morte effettiva della soluzione dei due Stati. Tuttavia, nonostante la sua inettitudine, sarebbe impreciso incolpare interamente Abbas per la situazione disastrosa in cui si trovano i palestinesi. Anche questo sarebbe un riconoscimento eccessivo. Probabilmente, qualsiasi leader che dipenda interamente dagli aiuti stranieri e non abbia il controllo dei propri confini è destinato a fallire.  

È attraverso la lente della dipendenza che si dovrebbe comprendere l’eredità di Abbas. Nella sua sempre più paranoica ricerca di mantenere il potere all’interno dei bantustan frammentati assegnatigli dal regime israeliano, Abbas è rimasto fedele al “processo di pace” sponsorizzato dagli Stati Uniti. Ha sperato che attraverso i negoziati e l’acquiescenza avrebbe guadagnato la fiducia dei leader israeliani e dei loro sostenitori statunitensi; la sopravvivenza del suo partito e la sua visione politica continuano a dipendere da questo. Così facendo, le sue forze hanno messo a tacere chiunque abbia osato proporre visioni alternative, hanno soppresso la società civile palestinese e, in ultima analisi, egli ha servito come subappaltatore dell’occupazione israeliana.

Anche nei suoi rari tentativi di opporsi al regime israeliano e ai suoi benefattori statunitensi –ad esempio promuovendo l‘adesione della Palestina alle Nazioni Unite e minacciando di spingere le indagini sui crimini di guerra israeliani presso la Corte Penale Internazionale– Abbas ha ripetutamente vacillato di fronte alle pressioni israeliane e statunitensi. I suoi ultimi tentativi di mostrare il suo disappunto per l’intransigenza degli Stati Uniti appaiono sempre più disperati. Nel frattempo, le sue confuse esternazioni hanno reso più difficile per la diaspora palestinese tradurre il crescente sostegno internazionale ai palestinesi in un effettivo cambiamento politico. 

Non è chiaro cosa succederà dopo Abbas, né cosa ne sarà di una leadership che non ha né un mandato né una visione per un futuro di liberazione. Senza un processo elettorale ufficiale, sono stati messi in moto gli ingranaggi per assicurare la sua sostituzione. L’attuale candidato più probabile a succedergli, Hussein al-Sheikh, rappresenterebbe una continuazione della triste eredità di Abbas, ma molti temono anche un’ulteriore repressione politica da parte delle forze di occupazione israeliane.

Indipendentemente da chi succederà ad Abbas, gli Stati Uniti probabilmente coglieranno l’opportunità di rafforzare simbolicamente le relazioni con l’Autorità Palestinese in quello che sarà presentato come uno sforzo per rilanciare la soluzione dei due Stati e mantenere lo status quo, basato sulla priorità degli interessi di Israele rispetto ai diritti dei palestinesi. Gli Stati Uniti ribadiranno il loro sostegno a un’Autorità Palestinese in grado di mantenere la stabilità interna, ma non abbastanza forte da sfidare il regime israeliano. Gli Stati Uniti potrebbero persino aumentare il sostegno finanziario all’Autorità Palestinese come gesto di buona volontà e come incentivo per un’ulteriore cooperazione. Alla luce del nuovo governo di estrema destra ed estremista di Israele, l’approccio degli Stati Uniti continuerà ad essere quello della “gestione del conflitto” e del mantenimento della sicurezza mentre Israele stringe la sua morsa sui palestinesi.

In realtà, poco importa chi emergerà alla guida dell’Autorità Palestinese. È la natura stessa del suo rapporto con il regime israeliano e con gli Stati Uniti a garantirne la rovina. Finché la leadership palestinese rimarrà impegnata nella dipendenza e nell’asservimento al regime israeliano e alla comunità dei donatori, non cercherà mai la liberazione e il popolo palestinese continuerà a dover prendere la resistenza nelle proprie mani.

Tareq Baconi è presidente del consiglio di amministrazione di Al-Shabaka. È stato US Policy Fellow di Al-Shabaka dal 2016 al 2017. Tareq è l’ex analista senior per Israele/Palestina ed Economia dei Conflitti presso l’International Crisis Group, con sede a Ramallah, e l’autore di Hamas Contained: The Rise and Pacification of Palestinian Resistance (Stanford University Press, 2018). Gli scritti di Tareq sono apparsi, tra gli altri, sulla London Review of Books, sulla New York Review of Books e sul Washington Post, ed è un commentatore frequente dei media regionali e internazionali. È redattore di recensioni di libri per il Journal of Palestine Studies.

Yara Hawari è analista senior di Al-Shabaka: The Palestinian Policy Network. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Politica del Medio Oriente presso l’Università di Exeter, dove ha insegnato in vari corsi universitari e continua a essere ricercatrice onoraria. Oltre al suo lavoro accademico, incentrato sugli studi indigeni e sulla storia orale, è un’assidua commentatrice politica che scrive per diversi media, tra cui The Guardian, Foreign Policy e Al Jazeera English.

Tariq Kenney-Shawa è il collaboratore di Al-Shabaka per la politica statunitense. Ha conseguito un master in affari internazionali alla Columbia University e una laurea in scienze politiche e studi sul Medio Oriente alla Rutgers University. La ricerca di Tariq si è concentrata su una serie di argomenti, dal ruolo della narrativa nel perpetuare e resistere all’occupazione all’analisi delle strategie di liberazione palestinese. I suoi lavori sono apparsi, tra gli altri, su +972 Magazine, Newlines Magazine, Carnegie Council e New Politics Journal. Si può seguire Tariq su Twitter @tksshawa e visitare il suo sito web https://www.tkshawa.com/ per ulteriori scritti e fotografie.

Alaa Tartir  è consulente per i programmi e le politiche di Al-Shabaka: The Palestinian Policy Network. Tartir è anche ricercatore senior e coordinatore accademico presso il Geneva Graduate Institute (GGI), ricercatore associato presso il Centre on Conflict, Development, and Peacebuilding (CCDP) del GGI e Global Fellow presso il Peace Research Institute Oslo (PRIO). Tartir ha conseguito il dottorato di ricerca in Studi Internazionali sullo Sviluppo presso la London School of Economics and Political Science (LSE). Tartir è coeditore di Resisting Domination in Palestine: New Techniques of Control, Coloniality and Settler Colonialism (I. B. Tauris/Bloomsbury, 2023), Political Economy of Palestine: Critical, Interdisciplinary, and Decolonial Perspectives (Palgrave Macmillan, 2021) e Palestine and Rule of Power: Local Dissent vs. International Governance (Palgrave Macmillan, 2019). Tartir può essere seguito su Twitter (@alaatartir) e le sue pubblicazioni possono essere consultate su www.alaatartir.com.

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

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