Il film “Farha” di Netflix è una rappresentazione blanda della Nakba

Dic 9, 2022 | Notizie, Riflessioni

di Jonathan Ofir,  

Mondoweiss, 8 dicembre 2022. 

Anche se il film di Netflix ha suscitato l’isteria degli apologeti di Israele, gli eventi di “Farha” non solo sono storicamente accurati, ma in realtà sono blandi rispetto ad altre atrocità sioniste del 1948.

Una scena di “Farha” (Talebox)

[Il film “Farha” diretto da Darin J. Sallam, non è attualmente disponibile su Netflix o in altre piattaforme in Italia, anche se fino ad alcuni giorni fa era presente in alcuni siti online, NdT]

Un nuovo film viene proiettato su Netflix e in tutto il mondo: si chiama “Farha” e racconta la storia personale di una ragazza palestinese di 14 anni in Palestina, testimone diretta degli eventi della Nakba (catastrofe) del 1948.

Basato sulla testimonianza personale di una persona vicina alla regista, Darin J. Sallam, il film ha attirato la condanna di molti apologeti di Israele. Chiaramente molti di loro non hanno aspettato di vedere il film.

La scena più orribile del film è apparentemente quella che ha attirato le principali ire dei sionisti: la bambina Farha, nascosta dal padre in una dispensa, assiste all’esecuzione di una famiglia palestinese. Il bambino, che era appena nato sul posto (la famiglia era di passaggio, in fuga da un altro villaggio) non viene fucilato subito insieme agli altri, ma dopo un po’ l’ufficiale israeliano ordina di ucciderlo. Un soldato riceve l’ordine di uccidere il bambino senza sprecare un proiettile, ma quando lui sta per schiacciargli la testa con lo stivale, non riesce a farlo e lo lascia morire al freddo. Comunque, Farha non riesce ancora a uscire dal suo nascondiglio, che era stato sbarrato dall’esterno. Deve assistere sia all’esecuzione sommaria della famiglia, sia al pianto del bambino e infine alla sua morte.

Questa scena non è in alcun modo un’esagerazione del comportamento di queste milizie sioniste o del nascente esercito israeliano in quel periodo; le documentazioni di altri episodi mostrano un comportamento ancora più straziante.

Il film è stato recentemente distribuito su Netflix, il 1° dicembre, ma è già stato presentato in anteprima mondiale al Toronto International Film Festival nel 2021, e in seguito in molti altri festival in tutto il mondo. Anche il Teatro Al Saraya di Jaffa ha proiettato il film, solo un giorno prima dell’uscita su Netflix. Questo ha spinto il Ministro delle Finanze Avigdor Lieberman e il Ministro della Cultura uscente Chili Tropper a chiedere la revoca dei finanziamenti governativi al teatro il giorno prima della proiezione. Il film è diventato rapidamente un problema di pubbliche relazioni per i funzionari israeliani sia all’interno che sul piano internazionale. 

I due ministri indignati stanno guidando molti israeliani a cancellare dei loro abbonamenti a Netflix, come riporta l’agenzia centrista Ynet. Sembra che nemmeno il redattore di Ynet avesse visto il film (né i24 News, che ha co-pubblicato l’articolo), perché scrive che “il film include in particolare una scena scioccante di 15 minuti durante la quale i soldati israeliani massacrano una famiglia di rifugiati palestinesi, compreso un bambino di un anno” [il bambino era appena nato, NdT]. 

Quanto sono vere le rappresentazioni?

Le documentazioni storiche degli eventi della Nakba suggeriscono che la scena mostrata nel film è assolutamente possibile e credibile, e persino blanda rispetto ad altri resoconti.

In occasione del massacro di Dawaymeh dell’ottobre 1948, ad esempio, un politico israeliano racconta la “barbarie” di “persone istruite e colte”. Avverto il lettore che le descrizioni seguenti sono estremamente realistiche.

Non ci fu nessuna battaglia e nessuna resistenza (e nessun egiziano). I primi conquistatori uccisero da ottanta a cento arabi [comprese] donne e bambini. I bambini furono uccisi fracassando loro il cranio con dei bastoni. Non c’era una casa senza morti. La seconda ondata dell’esercito [israeliano] fu un plotone a cui apparteneva il soldato che dà la testimonianza.

Nella città rimasero arabi maschi e femmine, che vennero messi nelle case e poi rinchiusi senza ricevere cibo o bevande. Più tardi arrivarono degli ingegneri addetti agli esplosivi per far saltare in aria le case. Un comandante ordinò a un ingegnere di mettere due donne anziane nella casa che doveva essere fatta saltare in aria. L’ingegnere si è rifiutato e ha detto di essere disposto a ricevere ordini solo dal suo capo. Allora quel comandante ha ordinato ai suoi soldati di mettere dentro le donne e quella malvagia azione è stata compiuta.

Un soldato si è vantato di aver violentato una donna araba e di averle poi sparato. Una donna araba con un neonato di pochi giorni è stata usata per pulire il cortile posteriore dove i soldati mangiavano. Lei ha fatto questo servizio per un giorno o due, dopo di che hanno sparato a lei e al bambino.

Questa è una descrizione molto peggiore di quella rappresentata nel film, ed è una delle tante. Il film “Farha” non ritrae lo stupro, né l’esplosione di case con i loro abitanti ancora all’interno. Nella scena del bambino, lasciato alla fine a morire, la regista attribuisce forse un certo grado di umanità al soldato israeliano, che non ce la fa a schiacciare il cranio di un bambino con lo stivale, ma copre il volto del bambino con un fazzoletto di stoffa e fugge. Naturalmente, il gesto di abbandonare il neonato rappresenta una barbarie minore rispetto a quella di calpestare la testa del bambino o di fracassargli il cranio con un bastone come nel caso di Dawaymeh, ma si tratta comunque di sfumature. Non c’è motivo di dubitare di questo resoconto.

È importante notare che l’intero film si basa sul racconto fatto di persona da un’amica della madre della regista, che aveva portato con sé questa testimonianza per tutta la vita, dopo essere fuggita in Siria in seguito alla pulizia etnica del suo villaggio e del suo Paese.

È preciso? Molto probabilmente sì, ma i dettagli dell’episodio non hanno molta importanza. Si tratta di un film basato su una storia orale, come un altro documentario recente sul massacro di Tantura del maggio 1948, che ha fatto infuriare diversi apologeti di Israele.

Queste testimonianze raccontano una storia molto reale, come quando i veri responsabili del massacro di Tantura hanno detto cose come questa:

“Non è bello raccontare questo. Li hanno messi in una botte e gli hanno sparato nella botte. Ricordo il sangue nella botte.”

Oppure questo:

“Ero un assassino. Non facevo prigionieri… Quanti? Non li ho contati. Avevo una mitragliatrice con 250 proiettili. Non posso dire quanti”.

E i paragoni con i nazisti? Vengono dai veri responsabili e da altri israeliani. Shlomo Ambar, uno degli esecutori del massacro di Tantura, ha paragonato la sua unità ai soldati nazisti, dove i nazisti, in confronto, sono stati ritratti favorevolmente:

“Associo [quanto accaduto a Tantura] solo a questo: sono andato a combattere contro i tedeschi, che erano il nostro peggior nemico. Ma in battaglia obbedivamo tutti alle leggi della guerra dettate dalle norme internazionali. Loro [i tedeschi] non uccidevano i prigionieri di guerra. Uccisero gli slavi, ma non i prigionieri di guerra britannici, nemmeno quelli ebrei; tutti quelli che appartenevano all’esercito britannico e che erano in cattività tedesca sopravvissero”.

Tali massacri, tuttavia, sembrano evocare paragoni nazisti molto reali nei ministri israeliani. Riferendosi probabilmente al massacro di Dawaymeh del 29 ottobre, il Ministro dell’Agricoltura Aharon Zisling ha detto al Parlamento israeliano il 17 novembre che “anche gli ebrei si sono comportati come i nazisti e tutto il mio essere ne è stato scosso”.

Ma ora gli apologeti di Israele stanno cercando di affermare che tutto questo è semplicemente oltraggioso, non è accaduto, è la solita calunnia degli ebrei assetati di sangue. Tuttavia, anche se si tratta del ricordo di una sola persona, questo ricordo si unisce alla miriade di altri che fanno lo stesso resoconto, sia da parte delle vittime che dei carnefici. Dipinge il quadro innegabile di una barbara pulizia etnica.

Quando si tratta di memoria e di commemorazione dell’Olocausto, questi negazionisti hanno un atteggiamento completamente diverso. Lo storico israeliano Ilan Pappe lo sottolinea nel suo saggio sul massacro di Tantura, citando lo storico israeliano Omer Bartov sull’uso della storia orale nella ricostruzione dell’Olocausto:

“La memoria del trauma è spesso torbida, instabile, contraddittoria, inaffidabile. . . Ciò che apprendiamo [dalle memorie dei sopravvissuti ai campi di sterminio] non sono i dettagli dell’amministrazione del campo, gli orari dei treni, le motivazioni ideologiche e l’organizzazione genocida. Queste sono questioni che è meglio lasciare agli storici. Ciò che apprendiamo è l’infinità dei dolori e delle sofferenze che rende la memoria di quegli anni un fardello il cui peso va ben oltre l’effimera esistenza umana, una presenza che si aggrappa alla mente e abita i profondi recessi della coscienza per molto tempo, anche quando dovrebbe essere stata ripulita e lavata via”.

La memoria raffigurata in “Farha” è una memoria che non viene dal nulla o che esiste nel vuoto. Fa parte di un mare infinito di ricordi di episodi che sono ormai documentati al di là di ogni dubbio dagli storici, anche israeliani, nonostante gli incessanti tentativi di Israele di nascondere e offuscare questi eventi, anche dopo che si è avuto accesso alla documentazione d’archivio.

Trovare la bellezza

“Farha” è un dramma straziante che tuttavia mostra anche la bellezza, soprattutto prima della descrizione dell’operazione di pulizia etnica. La ragazza Farha ha speranze che vanno oltre il conservatorismo della sua società locale patriarcale: protesta contro gli obiettivi del padre, il mukhtar (capo villaggio), di darla in sposa, e lo implora invece di permetterle di studiare in città, cosa che alla fine ottiene. Il film mostra i festeggiamenti per il matrimonio di un’altra ragazza e mostra come Farha sia colpita dallo sguardo triste della sposa, che evidentemente non fa qualcosa di sua volontà. Mostra una società rurale tradizionale, che si confronta con le spinte della modernizzazione e di una maggiore emancipazione delle donne. Mostra la straordinaria bellezza della vita rurale e dell’architettura palestinese, come si può ancora vedere in uno dei pochi paesaggi di questo tipo rimasti, nel villaggio etnicamente ripulito di Lifta (alla periferia occidentale di Gerusalemme).

Un’inquadratura di Farha, l’eroina del titolo, con l’amica che viene dalla città, nel suo villaggio natale prima della pulizia etnica (Talebox).

Ma tutta questa bellezza si tramuta in polvere con l’inizio della Nakba. Atrocità e massacri come quelli rappresentati nel film, ed eventi ancora peggiori che il film non menziona, sono stati strumentali per quella pulizia etnica. Ogni sionista dovrebbe vedere questo film. Dovrebbero smettere di lamentarsi di Netflix o dei cinema palestinesi che proiettano il film. Dovrebbero smettere di gridare alla “calunnia degli ebrei assetati di sangue”. Dovrebbero guardare il film e farebbero bene a guardarsi allo specchio e a dire: “l’abbiamo fatto”.

Sì, noi, i presunti sionisti istruiti, colti e illuminati. Probabilmente è molto più difficile ammettere questo che guardare il film, ma almeno dovrebbero guardarlo.

Ho dato una valutazione di 10 stelle su IMDb (Internet Movie Database).

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

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2 Commenti

  1. Luciano Calbini

    Nonostante sia una rappresentazione blanda della Nakba il film è introvabile, maledetti isreliani nazisti/sionisti

    Rispondi
  2. SABRINA LUNESU

    È possibile recuperare il film in qualche modo? Come fare per dare risonanza al fatto che si censuro in maniera così spudorata un film? Geazie

    Rispondi

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