Di Pina Fioretti,
bocchescucite.org, 9 Dicembre 2022.
Il film “Farah”, della regista giordana Darin J. Sullam, denuncia le atrocità commesse tra il novembre 1947 e il maggio 1948 dalle truppe paramilitari ebraiche in un piano complesso e organizzato per strappare quanta più terra possibile ai palestinesi rispetto a quanto stabilito dalla Risoluzione 181 dell’ONU adottata il 29 novembre 1947. In quella data solo il 7% della Palestina era sotto controllo ebraico.
In realtà il film contiene una denuncia ben più grave: mostra quanto poco è dato sapere di quegli avvenimenti nel mondo occidentale mentre le critiche del governo israeliano e le azioni che ha messo in atto per bloccarne la proiezione confermano il tentativo di negare ai palestinesi il diritto di narrare la loro storia.
Il film “Farha”, presentato in anteprima al Toronto Film Festival nel settembre 2021, è stato accolto con commozione nel mondo arabo in un momento in cui in Israele l’estrema destra ha conquistato la Knesset determinando un’escalation della violenza e della barbarie condotte da coloni ed esercito ai danni dei palestinesi. Proprio per questo la storia di Farha ha il merito di evidenziare la continuità della violenta oppressione israeliana tra i fatti accaduti nel 1948 e quello che oggi accade ai palestinesi. Solo dall’ inizio del 2022 si contano ad oggi più di 212 vittime palestinesi, più di 160 nei territori della Cisgiordania e 52 nella striscia di Gaza.
La vicenda narrata nel film si ispira alla storia vera di Radiyyeh, un’adolescente palestinese vittima dell’aggressione ebraica al suo villaggio nel 1948 e che si ritrovò successivamente profuga in Siria. Come migliaia di profughi palestinesi, Radiyyeh ha tramandato la sua storia ai suoi figli e nipoti. Il racconto delle storie dei profughi palestinesi è nucleo fondante della memoria collettiva di questo popolo. La regista venne a conoscenza di questa storia quando era ancora una bambina ascoltando il racconto da sua madre che era stata profuga in Siria dove aveva conosciuto Radiyyeh. Nella trasposizione cinematografica la protagonista si chiama Farha, ha 15 anni, è la figlia del mukhtar del villaggio, Abu Farha, e ha un sogno: continuare gli studi in città. Dalla città le fa visita ogni tanto la cugina Farida e le due ragazze si trovano spesso a fantasticare sulla loro vita nella scuola cittadina. Durante un pomeriggio spensierato assistono al passaggio dei convogli dei militari inglesi che si ritirano da Gerusalemme e le cugine si uniscono a un gruppo di ragazzini che urlano ai militari di andarsene e lasciare la loro terra. La regista sembra affidare a questa scena il messaggio di consapevolezza storica dei palestinesi che si sono sempre sentiti traditi dal mandato britannico e hanno attuato forme di resistenza contro la loro politica colonialista ben prima del 1948. Il giorno in cui il mukhtar acconsente alla richiesta della figlia di andare a studiare in città, le bande dell’Haganah invadono il villaggio. Nei giorni immediatamente precedenti, a casa di Farha erano giunti alcuni uomini provenienti da altri villaggi per convincere suo padre ad unirsi alla resistenza ma Abu Farah aveva fatto notare quanto fossero insufficienti e obsolete le armi e le munizioni che avevano in dotazione e aveva consigliato di attendere la risposta di tutti i governi arabi. Un altro passaggio fondamentale di questo film che richiama l’attenzione su un dato storico importante: l’aggressione e la distruzione di villaggi di contadini palestinesi impreparati e disarmati a fronte di truppe paramilitari ebraiche armate ed equipaggiate che si addestravano da anni. Infatti nel 1945 il presidente americano Truman, grazie al supporto finanziario dei sionisti, aveva autorizzato l’ingresso di 100.000 ebrei in Palestina. Contemporaneamente la Conferenza sionista mondiale, spinse l’Haganah, le milizie armate dei coloni ebrei, a collaborare con le organizzazioni sioniste come l’Irgun e la Banda Stern che avevano condotto azioni terroristiche sia contro gli inglesi che contro i palestinesi. Inoltre Ben-Gurion era riuscito ad ottenere dai sionisti statunitensi notevoli finanziamenti per la costruzione di campi di addestramento e fabbriche di armi in Palestina destinati agli immigrati ebrei. Questo piano di aggressione fu ulteriormente rafforzato dalla decisione dell’esercito inglese di confiscare ogni tipo di arma ai Palestinesi. Sullam non è l’unica regista a far emergere in un film sulla Nakba la difficoltà della popolazione palestinese di organizzare una vera resistenza sin dalle prime rappresaglie delle forze paramilitari ebraiche tra il 1947 e il 1948. Nel film “Il tempo che ci rimane” di Elia Suleiman alcune scene rievocano il comportamento ostile degli inglesi e i limiti che essi imposero alla popolazione palestinese che cercava di rifornirsi di armi. Altri registi palestinesi hanno trattato il tema della Nakba con particolare attenzione alla tradizione orale del racconto dei profughi. Una delle prime è stata la regista Sahera Dirbas che nei suoi documentari e film ha cercato di recuperare la memoria storica di luoghi e persone. Nel suo “Una manciata di terra” la storia orale di una famiglia palestinese passa di generazione in generazione attraverso i luoghi dell’esilio forzato.
Nel film “Farha” si assiste per la prima volta alla ricostruzione cinematografica delle violenze e dei crimini efferati che l’Haganah e le bande terroristiche ebraiche condussero nei villaggi palestinesi. Dettagli e ricordi, informazioni e dati che sono ben conosciuti nel mondo arabo, affidati alla tradizione orale, a saggi storici ma anche alla poesia e alla letteratura. Nel 2017 la scrittrice palestinese Adania Shibli pubblica “Tafasil thanawi”, “Un dettaglio minore” (Ed. La nave di Teseo) in cui l’autrice narra la storia ambientata nel 1949 di un’adolescente palestinese catturata da alcuni soldati israeliani, stuprata, uccisa e poi seppellita nel deserto.
Il film non è molto ricco di dialoghi, la regista si sofferma sul rapporto tra padre e figlia e sui luoghi del mondo agricolo palestinese. La scena centrale si sviluppa all’interno di una stanza, il “makhzan”, la dispensa ricavata tra le mura delle case contadine in cui la protagonista viene rinchiusa da Abu Farha nel tentativo di proteggerla. La promessa del padre che sarebbe tornato e la lunga attesa coinvolgono lo spettatore in una riflessione: in quella stanza sono ancora rinchiuse generazioni di palestinesi costretti ad assistere alla violenza degli occupanti.
Lo sguardo terrorizzato con cui Farah assiste alle atrocità delle milizie ebraiche si confonde con lo sguardo sorpreso di molti spettatori, soprattutto occidentali, che nulla sanno degli avvenimenti di quei tragici giorni del 1948 in cui la distruzione di 531 tra villaggi e città palestinesi, l’espulsione di quasi 800.000 palestinesi, il sequestro di circa 27.000 chilometri quadrati di terra, gli oltre 50 massacri documentati condotti dalle forze ebraiche, l’uccisione di più di 15.000 palestinesi durante la Nakba, coincisero con la fondazione dello stato di Israele. Parlare di questi avvenimenti per i governi israeliani equivale a fare propaganda contro Israele e infatti nel marzo 2011 la Knesset ha approvato la “Nakba Law” che criminalizza di fatto il diritto alla memoria del popolo palestinese e che minaccia anche quelle ONG israeliane, come Zochorot, che da anni lavorano per promuovere la consapevolezza storica della Nakba palestinese. Sulla base di questa legge e alla luce del più pericoloso e recente assetto politico israeliano in cui la coalizione di estrema destra è formata da partiti quali Sionismo Religioso, Potere Ebraico e Noam e il cui padre spirituale è il rabbino Dov Lior, sostenitore della pulizia etnica dei palestinesi musulmani, non stupisce la reazione di Israele alla decisione della piattaforma Netflix di proiettare il film di Darin J. Sullam.
La reazione del governo israeliano è decisamente ciò che ci si aspetta quando viene messa in discussione la sua narrazione della storia: accuse di antisemitismo, blocco dei finanziamenti e delle iscrizioni alla piattaforma Netflix, pressioni e ricatti per bloccare proiezioni in sale cinematografiche e/o teatri.
Israele teme che la verità sulla Nakba venga diffusa ma sono proprio i suoi tentativi di censura che confermano la veridicità di quei fatti storici e decretano il successo di “Farha”.
http://www.bocchescucite.org/farha-il-diritto-di-raccontare/
Qualcuno risponde che come le grandi ricchezze hanno alla loro base un delitto (?), così tutti gli stati sono iniziati con invasioni, lotte, sopraffazioni. Anche a voler condividere questa visione (del resto la Bibbia è piena di guerre e massacri) i sionisti dimenticano che quello che era tollerato fino a ottocento inoltrato non lo è più oggi. E comunque vogliono riprodurre processi storici durati centinaia di anni al ritmo accelerato di pochi decenni, con l’effetto dei film del muto quando si usano i proiettori del cinema sonoro. Ma nella realtà della Palestina con effetto tragico. Il ridicolo dovrebbe riguardare solo la sfacciataggine di questi argomenti.