La temporalità dell’occupazione

dal sito operazionecolomba.it, pensieri di una volontaria.

20 settembre 2022

Questa volta la cosa che mi fa più paura è il vuoto del ritorno.
Mantenere il senso di follia – “questo non è normale!”.
Invece, nel vuoto delle parole di chi non ha mai visto, so che si perde l’assurdo.
Si perde la tensione della violenza, della paura e della quiete.
Perché le parole sono dette da un’altra parte, dove lo squillo del telefono non ti fa salire il cuore in gola, dove non c’è la dolcezza del tè bevuto in un silenzio che, da altre parti, mette a disagio.
So che questa è la tensione che vive ogni volontaria – cosa ne faccio della mia (non)appartenenza? – straniera qui e straniera a casa.
Almeno per quanto riguarda la Palestina.

Alcuni arrivano: “dov’è la lotta? Cosa posso fare? Come posso essere utile?”.
Lo capisco.
Però…
Io mi godo i momenti di quiete, dove non succede niente e ti senti “inutile”.
Mi godo ogni piatto lavato per A., ogni momento passato insieme…“fi gaua?” “Faddal!”
Perché, purtroppo….
Pausa.
La temporalità dell’occupazione non segue gli scatti di un film d’azione.

Ci sono momenti infiniti in cui non succede niente.
Momenti brevissimi in cui non succede niente.
Questo niente, però, finisce prima che tu te ne accorga.
Live your life as if nothing has happened. Ce lo dice G. al telefono, mentre cerchiamo di riprenderci da un episodio molto violento.
Quella frase mi è rimasta dentro, perché con il centro gravitazionale spostato, le gambe tremanti, non puoi permetterti di immobilizzarti.
Devi ignorare quel niente.
Devi continuare a vivere, come se niente fosse successo, per non lasciare che la paura ti paralizzi.
Ma nelle retrovie della mente qualcosa sta succedendo sempre.
La tensione è sempre lì.
La temporalità dell’occupazione ti circonda di melassa: per ogni passo che fai ti sembra di aver spostato montagne, e poi ti accorgi che, alcuni giorni, sei tornata indietro di due.
Non è successo niente, però il pastore non si fida a tornare, guarda l’avamposto e, anche se tutto è apparentemente tranquillo, mormora “mushkile”, si volta e si allontana.
Questo niente avvolge, collega, spiega quando poi succede tutto.

In un attimo i coloni si coprono il volto, un fucile viene caricato, arrivano venti camionette di notte, cercano un coltello che non esiste e tu stavi solo dormendo.
Stanotte ho sognato il vuoto del ritorno, l’incomunicabilità dei tempi morti.
Non voglio parlare di violenza, non voglio scioccare, non vorrei che alla gente a casa importasse solo perché c’ero io davanti al fucile.
Vorrei non dover fare affidamento sulle parole.
Vorrei far sentire quello che si prova, tutti i giorni, a guardare i sassi spostati dagli zoccoli delle pecore (principalmente noia).
Ed è bellissimo essere annoiate, non avere niente da fare.
Vorrei saper comunicare quel niente, portandoci dentro tutto, ed evitare di banalizzare l’incontro con l’altro.
 I “poveri” palestinesi e le “buone, eroiche” volontarie.
Le finte tregue dell’occupazione costruiscono anche queste narrative.
Insieme ai muri, tocca abbattere anche questo.
L’altro giorno M. e F. si sono piazzati con le pecore davanti alla nuova tenda costruita illegalmente dai coloni dell’avamposto.

Dopo attacchi particolarmente violenti, i pastori palestinesi avevano smesso di venire in questa zona.
Invece, l’altro giorno, dopo che avevamo passato ore sotto il sole a discutere con i soldati, con i coloni, con le pecore, con l’universo creato, loro hanno preso le  greggi e si sono messi lì, sulle loro terre, a pascolare.
Il sole si era alzato da poco, tutto era dorato e rosa.
M. e F. chiacchieravano tranquilli.
A me è venuta la pelle d’oca.
Per spiegare perché mi è venuta la pelle d’oca dovrei raccontare tutto: i confini invisibili, le violenze, il ritorno, la paura, le dinamiche tra internazionali, palestinesi e israeliani.
E comunque non sarebbe abbastanza.
Vorrei portarvi lì con me, a godervi questa scena del sole che sorge sul coraggio di due pastori. 

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