21 settembre 2022
“Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. Grosse come mosconi, all’inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti”. Comincia così il memorabile pezzo del giornalista Robert Fisk (qui si può leggere il testo completo in italiano), tra i primi ad arrivare nei campi profughi di Sabra e Shatila, a Beirut, dove tra il 16 e il 18 settembre 1982 le milizie cristiane delle Forze libanesi, alleate con Israele, massacrarono tra gli ottocento e i duemila palestinesi. Quarant’anni dopo la ferita di questa strage non si è ancora rimarginata.
Soprattutto perché troppo è rimasto in sospeso, in un paese come il Libano restio a fare i conti con il passato. A cominciare dal numero delle vittime, ancora enormemente impreciso, perché molti corpi non furono mai recuperati e tanti altri furono seppelliti sommariamente. Proseguendo con le responsabilità, che non furono mai attribuite. Nessun miliziano libanese né israeliano fu mai arrestato, processato o condannato. Un’inchiesta condotta da Israele tra il settembre del 1982 e il febbraio dell’anno successivo ritenne le Forze libanesi direttamente responsabili del massacro, ma accusò anche l’allora ministro della difesa israeliano Ariel Sharon di essere “personalmente responsabile per avere ignorato il pericolo di stragi e vendette” e lo invitò a dimettersi. Lui lo fece nel febbraio 1983, ma nel 2001 fu eletto primo ministro. Sempre nel febbraio 1983 una commissione dell’Onu dichiarò che “le autorità o le forze israeliane furono coinvolte, direttamente o indirettamente, nei massacri” di Sabra e Shatila.
E poi c’è il contesto. La guerra civile che infuriava in Libano da sette anni, la presenza di più di centomila palestinesi espulsi dal loro paese in seguito alla creazione di Israele nel 1948, le operazioni dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), le vuote promesse delle potenze straniere. Il 1982 fu un anno di sangue per il Libano. Il 6 giugno, una domenica mattina, quarantamila soldati israeliani, con centinaia di carri armati, invasero il paese. Il loro obiettivo era distruggere l’Olp, che aveva la sua base a Beirut e dal sud del Libano lanciava attacchi contro Israele. Già molte persone erano morte sotto i colpi dell’Operazione pace in Galilea nell’estate in cui in Libano “tutto è cambiato e niente è cambiato”, come si legge in un approfondimento che il quotidiano l’Orient-Le Jour dedica al 1982, quando andò in scena una “tragedia libanese in cinque atti”.
Il 1 settembre l’Olp si ritirò dal Libano, nell’ambito di un accordo siglato con il governo e con Israele e dietro le rassicurazioni fornite dagli Stati Uniti e da una forza multinazionale che i civili e i profughi palestinesi sarebbero stati protetti. Il 10 settembre, però, la forza multinazionale lasciò il Libano, con due settimane di anticipo sul programma. Dopo che Bashir Gemayel, il leader delle Forze libanesi eletto presidente ad agosto, fu ucciso in un attentato il 14 settembre, le sue milizie di estrema destra entrarono nei campi di Sabra e Shatila, dove vivevano migliaia di profughi palestinesi, considerati una minaccia per l’equilibrio demografico del paese. L’esercito israeliano, che teneva sotto assedio Beirut, circondò il campo e lasciò la popolazione nelle mani delle forze cristiane. Per 43 interminabili ore – dalle sei di pomeriggio di giovedì 16 settembre all’una di notte di sabato 18 settembre – i miliziani uccisero, mutilarono, stuprarono e fecero scomparire gli abitanti del campo.
Come ha scritto Robert Fisk, quello che trovarono i giornalisti entrando nei campi profughi la mattina del 18 settembre era difficilmente descrivibile e “sarebbe stato più facile da raccontare nella fredda prosa di un esame medico”. Ancora oggi Sabra e Shatila sono un intreccio di vicoli stretti dove la luce del sole fatica a penetrare attraverso la rete di cavi che penzolano dalle abitazioni fatiscenti. Neanche questo è cambiato in quarant’anni. In ognuno di quei vicoli, ha raccontato Fisk, “c’erano cadaveri – donne, giovani, nonni e neonati – stesi uno accanto all’altro, in quantità assurda e terribile, dove erano stati accoltellati o uccisi con i mitra”. Il ricordo delle atrocità è ancora vivo nella memoria dei sopravvissuti. In occasione dell’anniversario alcuni di loro hanno condiviso le loro storie. Middle East Eye ha raccolto diverse testimonianze. Nouhad Srour al Mirei, 52 anni, perse quattro fratelli: Shady, tre anni, Farid, cinque, Nidal, tredici, Shadia, pochi mesi. I miliziani che irruppero in casa della sua famiglia uccisero anche la vicina Leila, incinta di nove mesi. Riddah Ali Fayad, 67 anni, riuscì a recuperare il cadavere del fratello, ma non trovò mai i corpi di due sorelle e della madre. Rajaa Issa Ismael, 55 anni, insieme alla madre rovistò tra cumuli di cadaveri per cercare il fratello Ismael, di tredici anni. Tra i corpi individuò quello di una sua amica, che era stata stuprata. Sul sito si può anche guardare il video di un’intervista a Ellen Siegel, un’infermiera ebrea statunitense che lavorava come volontaria al Gaza hospital di Sabra e assistette ai massacri.
Oggi nei campi profughi di Sabra e Shatila vivono circa dodicimila persone. Oltre ai palestinesi ci sono libanesi poveri e negli ultimi anni anche molti siriani in fuga dalla guerra. Appena fuori dagli stretti vicoli, un memoriale sorto su una fossa comune ricorda le vittime dei massacri. Ma in un paese come il Libano la memoria è una questione complessa. In un approfondimento L’Orient-Le Jour commenta che nonostante l’orrore, il massacro ancora oggi suscita reazioni “miste” tra i libanesi. E questo soprattutto a causa della copertura e della risonanza internazionale che ha avuto e che, secondo alcuni, “eclissa” i tanti bagni di sangue che l’hanno preceduto e seguito nei quindici anni di guerra civile. Perché, spiega il quotidiano, “in un paese dove l’omertà prevale sulla memoria e sulla verità, dove le tensioni identitarie sono tenaci, il riconoscimento di una tragedia è spesso interpretato come la negazione di un’altra”. Arab News ricorda che “la storia di Sabra e Shatila non è semplicemente un capitolo oscuro in un’epoca passata, ma è una crisi morale in corso, che continua a definire la relazione di Israele con i palestinesi, a evidenziare la trappola demografica e politica in cui vivono molte comunità palestinesi in Medio Oriente e ad accentuare l’ipocrisia della comunità internazionale”.
Come ha scritto Robert Fisk, quello che trovarono i giornalisti entrando nei campi profughi la mattina del 18 settembre era difficilmente descrivibile e “sarebbe stato più facile da raccontare nella fredda prosa di un esame medico”. Ancora oggi Sabra e Shatila sono un intreccio di vicoli stretti dove la luce del sole fatica a penetrare attraverso la rete di cavi che penzolano dalle abitazioni fatiscenti. Neanche questo è cambiato in quarant’anni. In ognuno di quei vicoli, ha raccontato Fisk, “c’erano cadaveri – donne, giovani, nonni e neonati – stesi uno accanto all’altro, in quantità assurda e terribile, dove erano stati accoltellati o uccisi con i mitra”. Il ricordo delle atrocità è ancora vivo nella memoria dei sopravvissuti. In occasione dell’anniversario alcuni di loro hanno condiviso le loro storie. Middle East Eye ha raccolto diverse testimonianze. Nouhad Srour al Mirei, 52 anni, perse quattro fratelli: Shady, tre anni, Farid, cinque, Nidal, tredici, Shadia, pochi mesi. I miliziani che irruppero in casa della sua famiglia uccisero anche la vicina Leila, incinta di nove mesi. Riddah Ali Fayad, 67 anni, riuscì a recuperare il cadavere del fratello, ma non trovò mai i corpi di due sorelle e della madre. Rajaa Issa Ismael, 55 anni, insieme alla madre rovistò tra cumuli di cadaveri per cercare il fratello Ismael, di tredici anni. Tra i corpi individuò quello di una sua amica, che era stata stuprata. Sul sito si può anche guardare il video di un’intervista a Ellen Siegel, un’infermiera ebrea statunitense che lavorava come volontaria al Gaza hospital di Sabra e assistette ai massacri.
Oggi nei campi profughi di Sabra e Shatila vivono circa dodicimila persone. Oltre ai palestinesi ci sono libanesi poveri e negli ultimi anni anche molti siriani in fuga dalla guerra. Appena fuori dagli stretti vicoli, un memoriale sorto su una fossa comune ricorda le vittime dei massacri. Ma in un paese come il Libano la memoria è una questione complessa. In un approfondimento L’Orient-Le Jour commenta che nonostante l’orrore, il massacro ancora oggi suscita reazioni “miste” tra i libanesi. E questo soprattutto a causa della copertura e della risonanza internazionale che ha avuto e che, secondo alcuni, “eclissa” i tanti bagni di sangue che l’hanno preceduto e seguito nei quindici anni di guerra civile. Perché, spiega il quotidiano, “in un paese dove l’omertà prevale sulla memoria e sulla verità, dove le tensioni identitarie sono tenaci, il riconoscimento di una tragedia è spesso interpretato come la negazione di un’altra”. Arab News ricorda che “la storia di Sabra e Shatila non è semplicemente un capitolo oscuro in un’epoca passata, ma è una crisi morale in corso, che continua a definire la relazione di Israele con i palestinesi, a evidenziare la trappola demografica e politica in cui vivono molte comunità palestinesi in Medio Oriente e ad accentuare l’ipocrisia della comunità internazionale”.
Attualità
Intanto il Libano deve fare i conti anche con nuove difficoltà. Nella sola giornata del 16 settembre cinque banche sono state assalite da clienti che volevano recuperare i loro risparmi, bloccati a causa delle restrizioni imposte dal governo per far fronte alla crisi economica che dal 2019 strangola il paese. Questi eventi, che stanno suscitando un grande sostegno nell’opinione pubblica, hanno spinto l’Associazione delle banche del Libano a ordinare la chiusura di tutte le succursali per tre giorni. Su L’Orient-Le Jour Caroline Hayek fa il resoconto “di una giornata folle”, riportando le voci dei libanesi disperati. In un editoriale sullo stesso quotidiano Antony Samrani accusa la Banca del Libano e lo stato di essere responsabili di aver trasformato il Libano in un “far west” in cui le vittime cercano “di farsi giustizia da sole”. Caroline Hayek sarà al festival di Internazionale a Ferrara per parlare dell’implosione del Libano insieme alla scrittrice Lina Mounzer e all’artista Barrack Rima, venerdì 30 settembre alle 17.30 al cinema Apollo.
In breve
- Antichità Un contadino ha scoperto un elaborato mosaico di epoca bizantina mentre cercava di piantare un ulivo nel suo terreno nella Striscia di Gaza.
- Informazione Il giornale Al Roeya, degli Emirati Arabi Uniti, ha chiuso l’edizione cartacea e licenziato decine di dipendenti qualche settimana dopo aver pubblicato un articolo sulle conseguenze dell’aumento dei prezzi del carburante sulla popolazione. I fatti risalgono a giugno, ma sono stati resi noti dall’Associated Press il 13 settembre.
- Religioni Circa ventuno milioni di pellegrini sciiti provenienti da tutto il mondo si sono radunati nella città irachena di Kerbala il 17 settembre per celebrare la festa dell’Arbain, che segna ogni anno la fine dei quaranta giorni di lutto per il martirio dell’imam Hussein, nipote del profeta Maometto.
- Egitto Il 15 settembre le autorità hanno annunciato la liberazione di 46 prigionieri, tra cui il noto avvocato e attivista di sinistra Haitham Mohamedin e il giornalista di Al Jazeera Ahmed al Najdi.
- Palestina La famiglia di Shireen Abu Akleh, la giornalista palestinese statunitense uccisa l’11 maggio durante un raid dell’esercito israeliano in Cisgiordania, ha chiesto alla Corte penale internazionale di aprire un’indagine sulla sua morte.
Femminismi
Mahsa Amini aveva 22 anni e viveva nella provincia del Kurdistan, nell’ovest dell’Iran. Era a Teheran con la famiglia per visitare alcuni parenti quando il 13 settembre è stata arrestata dalla polizia religiosa, perché accusata di non indossare il velo in modo conforme alle nuove regole. Alcuni testimoni hanno riferito che Amini è stata picchiata dentro la volante. Ricoverata in terapia intensiva all’ospedale Kasra della capitale, è morta il 16 settembre, dopo tre giorni di coma. Secondo la polizia, Amini soffriva di problemi cardiaci e ha avuto un infarto, ma la famiglia sostiene che era sana.
La sua morte ha scatenato la collera degli iraniani per le strade e sui social network. Inizialmente un gruppo di persone si è riunito per protestare fuori dell’ospedale. Durante il funerale, che si è svolto il 17 settembre a Saqez, la città in cui viveva Amini, c’è stata una contestazione e diverse donne si sono tolte il velo. Alcuni video mostrano la repressione delle forze di sicurezza. Le proteste si sono poi estese al resto del paese. Il 19 settembre gli studenti di tre università sono scesi in piazza a Teheran e nei giorni seguenti ci sono state proteste anche a Mashhad (nordest), Tabriz (nordovest), Rasht (nord), Esfahan (centro) e Kish (sud). Il 20 settembre Ismail Zarei Koosha, governatore del Kurdistan, ha affermato che almeno tre persone sono state uccise nelle manifestazioni scoppiate nella provincia. La mobilitazione va avanti anche sui social network, dove le iraniane hanno pubblicato video in cui si tagliano i capelli e bruciano i loro veli.
Nelle ultime settimane si sono diffuse varie notizie di violenze delle autorità nei confronti di donne accusate di non rispettare la direttiva che dall’inizio di luglio impone nuove restrizioni sull’abbigliamento femminile. Dalla rivoluzione iraniana del 1979 l’hijab, il velo che copre la testa, è obbligatorio per tutte le donne che hanno compiuto nove anni. Ma negli ultimi vent’anni le iraniane hanno sfidato il divieto togliendolo o indossandolo in modo da lasciare scoperte ciocche di capelli. La direttiva approvata dal governo conservatore il 5 luglio prevede punizioni per chi usa l’hijab “in modo improprio” e stabilisce che il velo deve coprire anche il collo e le spalle, oltre a introdurre altre restrizioni come il divieto d’indossare calze e scarpe con il tacco per le dipendenti pubbliche.
Un articolo di L’Orient-Le Jour pubblicato questa settimana su Internazionale denuncia inoltre la decisione di Teheran di usare il riconoscimento facciale nei luoghi pubblici per identificare le donne che violano le regole sull’abbigliamento. Come se non bastasse, scrive Laure-Maïssa Farjallah, il regime ha istituito la “giornata nazionale dell’hijab e della castità” il 12 luglio, proprio mentre rafforzava obblighi e controlli. Secondo Fariba Parsa, ricercatrice del Middle East institute di Washington, la stretta del governo è un segnale della sua paura “di fronte alle manifestazioni popolari e alla possibilità di una nuova rivoluzione”. Ma “questo controllo di massa non può passare sotto silenzio, nonostante le concessioni fatte alle donne dietro le pressioni internazionali, come la possibilità di assistere per la prima volta a una partita di calcio alla fine di agosto”. L’articolo intero si può leggere sul sito ed è gratuito per le lettrici e i lettori di Mediorientale.
Diverse personalità pubbliche iraniane hanno reagito alla morte di Mahsa Amini, chiedendo un intervento del governo e condannando apertamente l’accaduto. L’ex presidente riformatore Mohammad Khatami si è appellato alle autorità su Twitter perché mettano fine “alle azioni contrarie alla legge, alla logica e alla sharia”. Il celebre regista Asghar Farhadi ha scritto su Instagram: “Mahsa, figlia mia! Sei più sveglia di chiunque e noi siamo tutti in coma. Ci siamo addormentati di fronte a questa crudeltà senza fine e siamo complici di questo crimine”. La giornalista e attivista per i diritti delle donne Masih Alinejad, che vive negli Stati Uniti e si batte contro l’obbligo d’indossare il velo, ha pubblicato su Twitter un video in cui si vedono alcune donne che protestano trascinate via dalla polizia religiosa: “Il Racconto dell’ancella di Margaret Atwood non è una finzione per noi donne iraniane. È la realtà”.