“Non si può non vedere questa immagine”

di Dylan Saba,

Jewish Currents, 17 maggio 2022. 

Rashid Khalidi parla della logica coloniale che svaluta le testimonianze oculari dell’omicidio di

Shireen Abu Akleh

La polizia israeliana attacca i palestinesi in lutto che trasportano il feretro di Shireen Abu Akleh a Gerusalemme Est. 13 maggio 2022. Foto AP/Maya Levin

La settimana scorsa, Shireen Abu Akleh, l’amata giornalista della televisione palestinese Al Jazeera che aveva coperto coraggiosamente l’occupazione israeliana fin dalla Seconda Intifada, è stata uccisa a colpi di arma da fuoco durante un raid dell’IDF a Jenin, in Cisgiordania, nonostante indossasse un giubbotto antiproiettile che la identificava chiaramente come addetta alla stampa. I testimoni oculari palestinesi presenti sulla scena, tra cui un collega di Shireen che è stato a sua volta colpito, hanno riferito che gli spari provenivano dai soldati dell’IDF. Immagini raccapriccianti hanno invaso i social media, scatenando indignazione e orrore. Nonostante le testimonianze oculari e la dichiarazione di Al Jazeera secondo cui la loro reporter è stata colpita dalle forze militari israeliane, gran parte della copertura mediatica occidentale ha semplicemente ripetuto le dichiarazioni ufficiali del governo israeliano e del suo apparato di comunicazione, affermando che Abu Akleh è stata uccisa nel fuoco incrociato tra l’IDF e i militanti palestinesi.

Questo incidente è solo l’ultimo di una lunga storia di svalutazioni delle testimonianze palestinesi e di negazioni della soggettività palestinese. Per una discussione più ampia su questo incidente e sulla cancellazione della testimonianza palestinese in generale, ho parlato con l’eminente storico del Medio Oriente moderno Rashid Khalidi, attualmente professore di Studi Arabi Moderni alla Columbia University e autore, di recente, di The Hundred Years’ War on Palestine. La nostra conversazione ha avuto luogo lo scorso venerdì mattina, 13 maggio, proprio mentre le inquietanti riprese della polizia israeliana che attaccava il corteo funebre di Abu Akleh sconvolgevano ancora una volta il mondo. Abbiamo discusso della logica coloniale che ha motivato l’assassinio di Abu Akleh, dei paragoni con la colonizzazione britannica dell’Irlanda e dell’India, del mutevole terreno accademico sulla storia palestinese e della strategia mediatica sionista negli Stati Uniti. Khalidi sostiene che la soppressione delle testimonianze palestinesi è una pratica centrale nel progetto sionista quanto la conquista della terra. Questa intervista è stata modificata per ragioni di lunghezza e chiarezza.

DS: I filmati del funerale di Shireen Abu Akleh sono così orrendi che è impossibile non parlarne. Abbiamo visto le forze di occupazione israeliane fare irruzione nell’ospedale dove la bara veniva trasportata con il corteo funebre. Abbiamo visto le forze di occupazione israeliane attaccare i partecipanti al funerale, picchiarli con i manganelli, strappare le bandiere, usare gas lacrimogeni e granate stordenti e quasi rovesciare la bara stessa. Perché attaccare un funerale davanti al mondo? Che senso ha una tale manifestazione di fascismo?

RK: Ogni esercito coloniale crede che solo la forza possa mantenere il controllo. Ed è vero. Un generale britannico in India che ordinò alle sue forze di sparare sulla folla, uccidendo quasi 400 persone [nel massacro di Amritsar del 1919], disse che doveva far valere “l’effetto morale” della forza. Perché gli israeliani uccidono i palestinesi? Perché entrano nelle case della gente e spaccano tutto? È “l’effetto morale” della forza. I soldati sono addestrati a fare questo genere di cose, secondo le testimonianze raccolte da Breaking the Silence. Perciò prima uccidono Shireen, poi invadono la sua casa e poi assaltano il funerale. Sono tre attacchi a questa persona e alla sua famiglia. Questo deve essere inteso come parte di una politica di umiliazione, brutalizzazione e degradazione sistematica di un intero popolo, e questo è ciò che una potenza coloniale deve fare se vuole mantenere il controllo.

DS: In occasione di questo assassinio, abbiamo visto che organi di stampa come il New York Times minimizzano le testimonianze oculari di giornalisti palestinesi che hanno assistito in prima persona a questo omicidio. Perché ai palestinesi viene impedito di raccontare la loro storia?

RK: Fa parte di una mentalità generale che Israele e altre potenze coloniali risalenti al XIX secolo hanno avuto nei confronti dei popoli assoggettati e ritenuti inferiori che esse governano. La loro testimonianza non è valida, quindi va ignorata, impedita e bloccata. Solo gli inglesi in Irlanda, solo i francesi in Algeria possono testimoniare davanti a un tribunale. Questo purtroppo pervade i media statunitensi, in parte perché Israele controlla i media per assicurarsi che la propria narrazione mendace sia sempre prominente, ma anche perché i giornalisti stessi sono prevenuti. Se un bianco o un occidentale si trova sulla scena, è una testimonianza, un testimone. Ma a qualsiasi testimone arabo, anche arabo-americano, non viene accordato lo stesso rispetto.

Questo è un caso particolarmente eclatante, perché se si segue Al Jazeera e altri servizi arabi sull’omicidio di Shireen, tutti gli organi di informazione hanno raccolto le testimonianze di altre vittime, di persone a cui gli israeliani stavano sparando e che erano lì quando è stata uccisa. Queste testimonianze sono state eloquenti e chiare: non c’erano combattenti della resistenza palestinese nell’area e gli israeliani sapevano a chi stavano sparando. Molti di questi testimoni parlavano anche inglese, quindi la lingua non era una barriera.

DS: Nel XIX secolo, in molti Stati degli USA vigevano leggi che escludevano la possibilità per i neri di testimoniare nei tribunali, quindi anche questo fa parte della nostra eredità coloniale.

RK: Sì, e valeva anche per i nativi americani. Tutto questo ha radici comuni nel colonialismo dell’Europa occidentale. Un inglese non sarebbe stato incriminato per aver ucciso un irlandese. Questa è in pratica la situazione in Israele e nei territori occupati: i palestinesi possono essere impunemente abbattuti e uccisi a sangue freddo.

L’unico motivo per cui Shireen sta ricevendo una copertura positiva nei grandi media è che molti di questi giornalisti occidentali, comprese le persone che ripetono le bugie israeliane giorno dopo giorno, sono stati colpiti favorevolmente da lei. Ogni giornalista in Palestina la conosceva. Era un volto familiare per tutti perché era sempre in televisione, perché c’è sempre qualche brutalità che i media occidentali non coprono e Al Jazeera sì, e lei era il volto più iconico di questi racconti. Nessuno dei servizi occidentali ha menzionato il fatto che Israele ha bombardato gli uffici di Al Jazeera a Gaza. Al Jazeera è l’emittente più vista nel mondo arabo per le notizie sulla Palestina, perché i governi arabi che sono a braccetto con Israele –cioè Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti– non vogliono che i loro media controllati dallo Stato riferiscano sulla Palestina. Perché è un argomento che mette in imbarazzo questi regimi. Per Israele, è essenziale che Al Jazeera venga tagliata alla radice. Non vogliono questa copertura. Per questo sparano e picchiano i giornalisti, bombardano o fanno irruzione nei loro uffici o confiscano le loro attrezzature.

Questa è la più antica strategia coloniale. Durante la guerra d’indipendenza irlandese, un secolo fa, c’era un’intera sezione nel castello di Dublino, dove i britannici gestivano le loro operazioni di controinsurrezione, dedicate alla propaganda e alla censura della stampa irlandese, mentre suggerivano notizie ai giornalisti favorevoli ai britannici. Lo stesso fecero in India, e in Palestina durante la Grande Rivolta degli anni Trenta. I francesi fecero la stessa cosa in Algeria. Ogni potenza coloniale deve fare così, perché se la verità arrivasse alla metropoli della madrepatria, ci sarebbe un problema. Israele è una potenza regionale indipendente e dotata di armi nucleari, ma dipende anche da una metropoli diffusa, ovvero gli Stati Uniti e l’Europa occidentale. Se la popolazione della metropoli sapesse nei minimi dettagli cosa sta facendo Israele, il suo sostegno si esaurirebbe.

Nel 1921, l’opinione pubblica britannica aveva visto i soldati britannici bruciare la città di Cork, Irlanda, come rappresaglia per un attacco agli ausiliari britannici, e gradualmente l’opinione pubblica britannica cambiò orientamento e gli inglesi si ritirarono dalla maggior parte dell’Irlanda. I vietnamiti lo capirono: avrebbero potuto vincere o perdere sul campo, ma la loro resistenza avrebbe fatto cambiare idea all’opinione pubblica statunitense.

Gli israeliani non continueranno a vincere questa guerra con il passare del tempo. Se si confronta la situazione di 40 o 50 anni fa con quella degli ultimi due decenni, la situazione è cambiata. Uno dei motivi è che si possono zittire le voci, ma non si può fare nulla con le immagini. L’immagine dei soldati israeliani che si avventano sulle persone in lutto che trasportano la bara, picchiano la folla e quasi fanno cadere la bara, non si può fare nulla per contrastarla. Anche se i media principali e gli addetti stampa israeliani, l’AIPAC e gli hacker pagati la oscurano completamente, quell’immagine è sui media alternativi e sui social media. Si può dire tutto quello che si vuole sui proiettili, sugli uomini armati palestinesi e sulle circostanze presumibilmente oscure in cui questa donna è stata uccisa (e stanno facendo un lavoro incredibilmente efficace in questo senso), ma non si può non vedere questa immagine. Ecco perché hanno sparato a questa donna: Era una giornalista televisiva che stava per trasmettere le immagini dei loro attacchi sistematici ai campi profughi.

DS: Questo dice qualcosa sul potere della testimonianza palestinese, sia attraverso i resoconti verbali sia attraverso la pubblicazione diretta di immagini. Come vedi questa lotta per la narrazione nel campo della storia? Penso in particolare al caso di storici israeliani come Benny Morris, che non ha usato testimonianze palestinesi in The Birth of the Palestinian Refugee Problem, il suo famoso resoconto del 1988 sulla Nakba.

RK: Ha rigorosamente escluso le testimonianze palestinesi. Lo spiega nella prefazione del libro.

DS: Sì. In che modo questa storia di esclusione ha influenzato il tuo modo di pensare al lavoro di storico e al campo della storia in generale?

RK: Non voglio sembrare arrogante, ma credo che gli israeliani abbiano perso la battaglia sul fronte accademico. Non credo che ci siano molti storici rispettabili che ripetano i principali miti che sono stati creduti, custoditi, lucidati e sanciti nei decenni successivi al 1948. Molti dei migliori accademici israeliani sono fuggiti da Israele. Ho una mezza dozzina di colleghi israeliani alla Columbia University. Sono sicuro che tutti tornano indietro ogni tanto, ma preferiscono stare qui piuttosto che là. Cinquant’anni fa, era quasi impossibile trovare libri sulla Palestina. La parola “Palestina” era un tabù. Se dicevi “Palestina” eri un antisemita e in qualche modo contestavi l’esistenza di Israele o volevi distruggerlo. Ma l’ondata di studi sulla Palestina negli ultimi due decenni è stata inarrestabile, compreso un gran numero di lavori critici, oggettivi e rigorosi di autori israeliani.

La storia popolare è diversa; le generazioni che sono cresciute con una serie di bugie e miti sono arrivate a credere che Israele fosse un piccolo avamposto di democrazia in un mare di arabi ostili, e probabilmente non hanno cambiato opinione. Credono che il film Exodus sia basato su fatti reali. Questo è ciò che crede chi ha più di 50 o 60 anni; quando parlo al pubblico più anziano, in genere la metà di loro ha visto quel film. Ha avuto un ruolo determinante nel creare questi miti, ma i più giovani non credono a nulla di tutto ciò. Più sono giovani e meno credono alle vecchie sciocchezze, anche se simpatizzano per Israele.

DS: Sembra che la nuova mossa per sviare il discorso sia quella di abbandonare le accuse di parzialità –che, almeno nella mia esperienza, erano la modalità dominante per liquidare i palestinesi– per passare a nuove accuse di antisemitismo. In un certo senso, questo è un tacito riconoscimento che la battaglia accademica è stata persa. Quindi la mossa ora è quella di decentrare i palestinesi e rimettere al centro gli ebrei americani come vittime. È una concessione a modi più contemporanei di pensare alla testimonianza – cioè che le vittime dovrebbero essere in grado di parlare della natura della loro oppressione. Quindi devono cambiare l’identità della vittima.

RK: C’è un articolo interessante sul New Yorker, in cui Isaac Chotiner intervista Jonathan Greenblatt, l’amministratore delegato della Anti-Defamation League, e dall’intervista emerge chiaramente che questo è esattamente ciò che l’ADL e altre organizzazioni simili, ben finanziate, stanno facendo. Un buon generale capisce quando una linea è stata superata e bisogna ritirarsi su un’altra. È una mossa molto accorta da parte loro, anche se è un’ammissione di fallimento. Se non si possono sostenere i fatti, si possono sostenere le bugie. Non si può negare la legittimità della testimonianza delle vittime nel caso palestinese, ma nell’interpretazione sionista della storia gli ebrei sono sempre, inevitabilmente vittime, e il loro vittimismo è peggiore di quello di chiunque altro, compresi i palestinesi. Questo funziona con certe generazioni, ma non con i giovani. Quando vedono una foto di poliziotti israeliani con casco e armatura che picchiano a sangue i partecipanti al funerale, chi è la vittima?

Se si legge attentamente ciò che dice Greenblatt, egli ammette in effetti che i palestinesi sono il popolo autoctono e che ci sono problemi in Israele. Ma afferma che gli studenti americani nei campus sono antisemiti. È una mossa strategica notevole.

DS: Data l’importanza per Israele degli Stati Uniti come parte della metropoli coloniale, e questo spostamento concertato della hasbara (propaganda israeliana) dagli eventi sul terreno alla stessa attività di difesa, cosa possono fare i palestinesi per riaffermare la loro soggettività, sia come popolo oppresso in Palestina, sia come popolo emarginato negli Stati Uniti in quanto parte della diaspora?

RK: Se ci fosse un movimento nazionale palestinese coerente, democratico e unificato, manderebbe un’efficace messaggio contenente una strategia di liberazione e decolonizzazione rivolta a israeliani, ebrei americani, europei, conservatori americani, a tutti. Qualcuno dovrebbe alzarsi in piedi a Ramallah, o anche in esilio, e dire: “Israele non è sovrano qui, Israele non ha il diritto di indagare. Il criminale non ha il diritto di indagare sul suo crimine”. Dovrebbero dire: “Noi siamo il popolo indigeno. Noi siamo i veri sovrani”. Ma i leader palestinesi che dovrebbero dire questo non rappresentano nessuno se non i loro interessi ristretti, di parte e personali, sia a Gaza che a Ramallah.

Ciò che rimane è la società civile palestinese, che sta facendo un lavoro ragionevole di comunicazione, date le limitazioni che deve affrontare. Ma è incoerente e amorfa, e non c’è nessuno che la guidi davvero, e questo è uno dei motivi per cui ci sono tutti questi atti di resistenza spontanea. D’altra parte, c’è un’enorme opportunità oggi, quando i media americani esaltano le donne ucraine che mettono insieme bombe molotov da usare contro le forze di occupazione russe. Qualcuno dovrebbe urlare a squarciagola, dalle Nazioni Unite e da ogni ambasciata palestinese, che la nostra resistenza contro l’occupazione, armata o meno, non è diversa da quella ucraina. L’occupazione è occupazione, l’unica differenza è 88 giorni contro 55 anni. L’occupazione è illegittima. L’occupazione non ha il diritto di chiamare “terrorista” chi fa resistenza. Questo è ciò che un movimento nazionale unificato dovrebbe dire; ovviamente l’Autorità Palestinese, che è un subappaltatore dell’occupazione israeliana, non lo farà.

Non voglio dire che dobbiamo emulare il genio mediatico del progetto sionista. Non sto dicendo che dobbiamo emulare gli algerini o i vietnamiti o gli irlandesi o gli indiani, anche se gli indiani erano dei geni, e il modo in cui hanno sconfitto gli inglesi dal punto di vista del loro discorso è da manuale. Israele è completamente diverso. Non c’è mai stato un progetto coloniale separato che non fosse un’estensione della sovranità e della popolazione della madrepatria. Gli inglesi sono stati mandati in Nord America, i francesi in Algeria, ma il sionismo è stato un movimento nazionale embrionale di persone che non erano britanniche; i britannici hanno sostenuto il progetto di qualcun altro per i loro ristretti ed egoistici scopi strategici. Ciononostante, ci sono lezioni da ognuno di questi casi che i palestinesi dovrebbero imparare e che sono presenti negli studi. Ma deve esserci una sorta di catena di trasmissione fino al livello degli attivisti e della politica. Leggete cosa hanno fatto gli irlandesi, in termini di creazione di una sovranità alternativa; gli indiani e gli egiziani hanno fatto la stessa cosa. Crei un’alternativa –non controllata dall’occupante come l’Autorità Palestinese– ma completamente modificata, e poi ti arrestano. Gli irlandesi hanno proclamato un proprio parlamento e gli inglesi li hanno arrestati. Alcuni di loro sono morti durante gli scioperi della fame. Hanno creato i loro tribunali, tutti sotterranei. Gli indiani fecero la stessa cosa. Si rifiutarono di partecipare alla macchina del governo coloniale. Il fatto che gli irlandesi e gli indiani abbiano capito che dovevano farsi valere con gli inglesi, e gli algerini che dovevano farsi valere con i francesi: ecco perché hanno vinto. In ultima analisi, ciò che ha cambiato la situazione è stata la rivolta delle metropoli contro i crimini coloniali.

DS: Capisco il tuo punto di vista su quanto sia critico questo tipo di lotta, e dobbiamo trovare un modo per affermare la soggettività palestinese a livello discorsivo in un modo che sia accessibile a persone che potrebbero non avere motivo di essere coinvolte in questa lotta.

RK: Vedi, i nativi americani parlano per se stessi in questo Paese. I neri parlano per se stessi. C’è chi li contesta, ma la vittoria è stata ottenuta. Per i palestinesi non è ancora così.

Dylan Saba è un avvocato e scrittore specializzato in diritti civili con sede a New York, attualmente collaboratore di Jewish Currents.

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Traduzione a cura di AssoPacePalestina

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