di Zvi Bar’el,
Haaretz, 12 maggio 2022.
I giornalisti palestinesi, israeliani o stranieri che coprono il conflitto israelo-palestinese sono diventati una parte inseparabile della guerra, visti non solo come rappresentanti dei media che li impiegano, ma anche come membri della parte rivale.
Shireen Abu Akleh di Al Jazeera è un’altra giornalista che si è trovata nel fuoco incrociato tra forze rivali ed è diventata un “danno collaterale”. Il modo in cui è stata uccisa, le reazioni arabe e israeliane che sono immediatamente seguite, la consapevolezza che la sua uccisione avrebbe potuto scatenare una nuova ondata di violenza e la rapidità con cui il Capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano Aviv Kochavi ha annunciato la convocazione di una commissione d’inchiesta –insieme alla richiesta di attivare un’indagine internazionale– sono la prova che l’uccisione ha avuto un’importanza diplomatica molto più grande di quella che ha colpito Abu Akleh e la sua famiglia.
Certo, non è ancora chiaro chi abbia sparato il proiettile che ha ucciso la reporter di Al Jazeera nella città cisgiordana di Jenin, ma Israele è già considerato colpevole ed è Israele che deve discolparsi o assumersi le conseguenze nel caso in cui venga dimostrata la sua effettiva responsabilità. E questo sottolinea l’importanza dell’urgenza dell’indagine e di chi sia effettivamente chiamato a indagare.
È ovvio che un’indagine israeliana da sola non sarebbe sufficiente e che è necessario convocare immediatamente un gruppo investigativo internazionale che goda della fiducia dell’opinione pubblica palestinese, dell’opinione pubblica israeliana e degli osservatori stranieri seduti alla Casa Bianca e nelle capitali arabe ed europee. Le indagini israeliane, anche quando sono condotte da giudici e personaggi pubblici, da tempo non riescono a conquistare la fiducia della comunità internazionale – o quella dei palestinesi.
A ciò ha contribuito una cultura di negligenza, noncuranza e insabbiamento che per molti anni ha caratterizzato le indagini su centinaia di incidenti che hanno coinvolto palestinesi uccisi dall’esercito israeliano o dai coloni. Israele non ha ancora rilasciato una dichiarazione di rammarico, apparentemente perché teme che un gesto così umano possa essere considerato un’ammissione di colpa. Se, come Israele ha affermato, Abu Akleh è stata uccisa da spari palestinesi, non ha nulla da temere da un’indagine internazionale.
Se l’indagine scoprisse che i soldati hanno sparato contro di lei e il suo collega, Israele dovrebbe agire come farebbe qualsiasi Paese gestito correttamente – assumendosi la responsabilità, epurando le truppe, pagando un risarcimento e, soprattutto, prendendo misure significative per prevenire non solo l’uccisione di giornalisti, ma anche di qualsiasi innocente.
Mercoledì, Abu Akleh è diventata un altro dato statistico tra le migliaia di giornalisti di tutto il mondo uccisi sul lavoro. Secondo la Federazione Internazionale dei Giornalisti, nei tre decenni tra il 1990 e il 2020, sono stati uccisi più di 2.650 giornalisti, di cui 561 hanno perso la vita in Medio Oriente.
La persecuzione dei media e dei loro dipendenti nelle zone di combattimento e nelle aree di tensione politica e diplomatica è diventata parte della strategia di guerra. I giornalisti palestinesi, israeliani o stranieri che coprono il conflitto israelo-palestinese sono diventati una parte inseparabile della guerra, visti non solo come rappresentanti dei media che li impiegano ma anche come membri della parte rivale. Per decenni, i giornalisti palestinesi sono stati percepiti come inaffidabili, solo perché erano palestinesi e quindi non ci si poteva fidare di loro quando si trattava di informazioni sugli eventi nei territori.
Questo approccio ha dato ai portavoce dell’esercito israeliano e del servizio di sicurezza Shin Bet un monopolio quasi totale nel plasmare l’informazione e la coscienza pubblica, e ci sono voluti anni prima che questo stato di cose cominciasse a essere minato e che ai giornalisti palestinesi e di altri paesi cominciasse a essere riconosciuta credibilità. È stata Al Jazeera, fondata nel 1996, a guidare la rivoluzione nella fiducia dei media arabi, quando ha iniziato a raccontare da ogni capitale araba e non araba, con telecamere che coprivano ogni evento importante.
Decine di suoi reporter, uomini e donne, hanno sfondato i muri della censura che i regimi arabi avevano imposto, criticando senza paura la corruzione, il degrado e i fallimenti di quei regimi e costruendo allo stesso tempo la fiducia del pubblico nel mondo arabo e anche oltre.
Durante le guerre in Afghanistan e in Iraq, Al Jazeera è stata l’unica rete a non accontentarsi di servizi sulle manovre militari e a mostrare invece i danni, la distruzione e la morte che le forze della coalizione stavano infliggendo. Al Jazeera ha pagato un prezzo pesante per questo. Durante la seconda guerra del Golfo, un aereo americano attaccò un hotel in Iraq dove alloggiava un’équipe dell’emittente e uccise il reporter Tareq Ayoub.
Non si trattò di un “deplorevole incidente”. L’obiettivo era Al Jazeera. La reputazione di Al Jazeera era ben conosciuta, al punto che persino le reti americane acquistarono filmati dal network del Qatar per la loro copertura della guerra. Al Jazeera entrò in rotta di collisione con i regimi arabi di cui criticava i leader, innescando una delle più gravi crisi mai scoppiate tra i Paesi arabi e la famiglia regnante del Qatar, proprietaria della rete. La crisi ha raggiunto il suo apice quando Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti hanno imposto un boicottaggio e un blocco economico al Qatar. Una delle principali condizioni per la sua revoca era l’interruzione delle trasmissioni di Al Jazeera.
Al Jazeera è una rete professionale, ma non è obiettiva, così come nessun medium può essere obiettivo se vuole influenzare l’opinione pubblica. In Israele c’è un’altra divisione abituale tra i media stranieri, e non si basa sulla loro obiettività. In Israele si chiede ironicamente: “Questo medium o questa TV giornalistica è a favore di Israele o contro di esso?”.
Sebbene sia stata la prima rete araba a ospitare giornalisti, esperti e politici israeliani, Al Jazeera è considerata filo-palestinese. In quanto tale, tutti i suoi giornalisti e il suo staff sono etichettati come “nemici”.
Shireen Abu Akleh si è “guadagnata” anche questa descrizione. I suoi reportage erano coraggiosi, diretti, affidabili e professionali. Si basavano su molti anni di reportage sul campo, oltre che su indagini approfondite e su un’ampia familiarità con la società palestinese in cui era nata. Questo le ha conferito un’alta reputazione e un’autorità giornalistica che l’ha resa una personalità mediatica potente nel mondo arabo.
Allo stesso tempo, è diventata una dura avversaria dei portavoce del governo e dell’esercito israeliano quando ha confutato i loro rapporti e le loro affermazioni. Il rammarico per la sua morte non è solo personale. È una grave perdita professionale di una persona che era riuscita a mettere il conflitto israelo-palestinese, la società palestinese e le scene dell’occupazione in primo piano nell’opinione pubblica araba e mondiale.
Traduzione a cura di AssoPacePalestina
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