Haaretz, 11 maggio 2022.
“Ho paura, naturalmente, ma a un certo punto non c’è spazio per avere paura nel lavoro giornalistico”, disse una volta la reporter di Al Jazeera che è stata uccisa sul campo a Jenin
La giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh, morta mercoledì in uno scontro tra le forze israeliane e i militanti palestinesi, era nota per i suoi reportage impavidi e corretti, diventando il simbolo della donna palestinese forte in tutto il mondo arabo.
“Shireen Abu Akleh, Al Jazeera, Palestina” è diventata una frase incastonata nella mente degli spettatori. Aveva 51 anni.
In un video di un minuto e mezzo pubblicato sul sito del canale di Al Jazeera in ottobre, Abu Akleh così descriveva la sua esperienza di giornalista palestinese.
“Non dimenticherò mai l’enormità della distruzione e la sensazione che la morte fosse molto vicina. Abbiamo lasciato le nostre case, abbiamo preso le nostre macchine fotografiche e siamo andati da un posto all’altro – attraverso posti di blocco e sentieri tortuosi”, ha detto.
“A volte siamo rimasti a dormire negli ospedali, o con persone che non conoscevamo, e nonostante tutti i pericoli abbiamo continuato il nostro lavoro giornalistico e di reportage. Questo è successo nel 2002, quando abbiamo riferito dalla Cisgiordania sotto il fuoco massiccio della forza di occupazione militare – sono stati gli attacchi più gravi dal 1967. Nei momenti difficili, ho superato la mia paura.
“Ho scelto il giornalismo per essere vicina alla gente, e sapevo che non sarebbe stato facile cambiare la situazione. Ma almeno sono riuscita a portare la voce dei palestinesi nel mondo”.
Abu Akleh è nata nel 1971 a Gerusalemme da una famiglia cristiana palestinese con radici a Betlemme. Ha studiato alla scuola superiore delle Suore del Rosario nel quartiere di Beit Hanina a Gerusalemme Est.
Ha poi studiato architettura alla Jordan University of Science and Technology, ma il suo amore per la sua terra e la sua gente l’ha portata a passare al giornalismo. Si è trasferita alla Yarmouk University in Giordania, dove si è laureata in giornalismo.
È tornata in Israele determinata a far sentire la voce del popolo palestinese. Ha iniziato la sua carriera con l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, il servizio radiofonico della Palestinian Broadcasting Corporation, un canale satellitare di Amman e Radio Monte Carlo.
Nel 1997 ha iniziato con Al Jazeera ed è stata la corrispondente palestinese del canale satellitare fino alla sua morte.
Nel 2002, durante l’operazione ‘Scudo difensivo’ dell’esercito israeliano al tempo della seconda intifada, Abu Akleh si è guadagnata il plauso del mondo arabo sia per i suoi reportage che per il suo coraggio di donna palestinese salda anche sotto il fuoco.
In un’intervista in lingua araba quattro anni fa sulla NBC, le è stato chiesto cosa signifcava per lei essere una giornalista donna che copre coraggiosamente l’arena palestinese mentre rompe gli stereotipi sulle donne arabe. Le fu anche chiesto se aveva paura di prendersi una pallottola.
“Ho paura, naturalmente, ma a un certo punto non c’è spazio per avere paura nel lavoro giornalistico”, ha detto. “Cerco di riferire da luoghi relativamente sicuri, ed è importante per me proteggere la troupe e garantire la loro sicurezza, anche prima di andare in onda. È la cosa più importante per quanto mi riguarda”.
Abu Akleh era anche famosa per non aver lasciato che la fama la cambiasse; ha finito la sua vita coprendo una storia pericolosa nel campo profughi di Jenin, i cui abitanti rappresentano il tipo di voce palestinese che lei voleva far ascoltare al mondo.
Suo fratello, che vive all’estero, dovrebbe arrivare in Israele mercoledì sera.
“Non ho parole, non posso crederci”, ha detto un fotografo che ha lavorato con Abu Akleh per 16 anni. “Era la persona migliore che si potesse trovare, era una sorella per me. Non era una di quelle persone che corrono rischi, era sempre calma”.
Il Ministero degli Esteri palestinese, che ha definito Abu Akleh la “voce della Palestina”, ha aggiunto che “Shireen è diventata un’icona della verità. Un’eroina nazionale per coloro le cui voci sono state messe a tacere dai crimini di Israele”.
Wahil Salaime, un altro fotografo che ha lavorato per anni con Abu Akleh, ha aggiunto che “aveva una personalità speciale; per la sua competenza, per il suo modo di raccontare le storie”.
Con il contributo di Nir Hasson e Jack Khoury.
Traduzione a cura di AssoPacePalestina
.